Recensione di Mariapia Bonanate, giornalista de "Il nostro tempo"
Torino, Giugno 2001, al libro di Silvia Montevecchi 

"Il sogno ostinato"

Aveva vent'anni ed eravamo negli anni ottanta quando Silvia Montevecchi, ragazza di Bologna, partì per conoscere il mondo.Sin da bambina sognava di farlo, quando esplorava i boschi delle vacanze estive e si allenava a guadare torrenti e laghetti in attesa di andare nel Rio delle Amazzoni e nella savana africana. Prima di quanto se lo aspettasse riuscì a mettersi in cammino e da allora non si è più fermata. «Conoscere il mondo e popoli diversi è stata, e spero sarà ancora, un'avventura meravigliosa. Lo è a condizione che ci si ponga con molta umiltà e capacità di ascolto, senza gli atteggiamenti colonialistici e di superiorità che sono ancora così tanti, vergognosamente diffusi. In fondo, in ogni situazione, anche la più difficile, ho sentito che bastava amare tanto la vita per essere felici, e così tirarsi dietro l'amicizia degli altri, di qualunque paese o cultura. Un sorriso è un sorriso, ovunque. Sono felice quando penso che amo e sono amata da molte persone in molti paesi diversi e lontani tra loro.»
Così scrive nell'introduzione della sua raccolta di lettere dall'Africa, pubblicate dall'Editrice Berti, con prefazione di Beppe Del Colle che ha scoperto con sorpresa e ammirazione questa vivace e coraggiosa esploratrice del mondo e della vita, durante il Premio letterario dell'Archivio Diari di Pieve Santo Stefano che raccoglie e segnala diari autobiografici inediti e dove Silvia Montevecchi era entrata nella lista d'onore. Il libro s'intitola «Il sogno ostinato» (collana dei libri Terre di mezzo) e racconta attraverso decine di lettere appassionate, ricche di stupori, di colori e di odori, di scoperte, ma anche di analisi e di riflessioni che offrono spesso verità scomode e coraggiose denunce, due dei quattro intensissimi anni vissuti dall'autrice in Africa, prima in Burundi, poi in Somalia.
Laureata in Pedagogia, specializzata nell'educazione interculturale, autrice di una decina di testi, dopo avere viaggiato per proprio conto, Silvia ha lavorato come cooperatrice internazionale in Africa per le agenzie dell'ONU, e l'Unione Europea, che le hanno affidato dei progetti educativi. Sono state queste missioni a cambiare profondamente la sua vita, il suo modo di vedere e di sentire, a fare di lei una persona «totalmente nuova, con sfaccettature che non avresti mai potuto prevedere, né ipotizzare», a porla «in una disponibilità permanente di cambiamento». Sono stati soprattutto loro, i poveri, la gente di un'Africa lacerata dalle guerre e dalla violenza, dalla fame e dalle malattie, donne, bambini, uomini che nella semplicità sofferta della loro esistenza precaria sanno accogliere, sorridere ed amare, ad insegnarle ciò che vale e ciò che non vale, a farla vergognare spesso di essere «una bianca». A farla quasi diventare razzista talvolta, ma alla rovescia, verso i bianchi. E con buone ragioni.
Nel Burundi in guerra, lacerato da un povertà incredibile, dove giunge nel novembre del 1996, il divario fra i bianchi che lavorano per gli aiuti umanitari e la gente la colpisce: «C'è una marea di occidentali (cooperanti e volontari) che scorazzano tra un locale e l'altro, fra un festino e l'altro. Gente che in Italia sarebbe disoccupata, qui fa una vita da nababbo». Così la «mandano in bestia» gli atteggiamenti di tanti bianchi nei confronti degli africani, la boriosa superiorità di chi si permette di trattare da schiavi persone che vivono il dramma della guerra, della miseria, della mancanza quotidiana di acqua e di cibo. Eppure nonostante le condizioni durissime di esistenza, tutto sembra scoppiare di vita. La natura, come le persone.
Questa felicità del vivere la contagia, soprattutto la percezione di essere amata e «coccolata» la sostiene nella difficile attività nei campi degli sfollati dove si occupa del percorso scolastico di 4000 bambini che non hanno neppure uno specchio per conoscere la propria immagine e nessuno strumento che permetta loro di immaginare quanto non vedono. «Come si può aiutare un bambino a costruire qualcosa che non riesce a concepire?» si chiede Silvia mentre si occupa anche della formazione degli insegnanti, i quali non hanno i materiali didattici più elementari per insegnare, e mentre costruisce scuole di plastica con i teli forniti dall'Unicef. Ma ottiene anche la partecipazione della gente del posto nella ricostruzione dei banchi della scuola materna. Scrive da Muyinga: «Essere qui non è semplicemente un'esperienza "umanitaria". Al contrario, da un punto di vista professionale è estremamente arricchente. Lavorare con questi bambini malconci e una penuria di mezzi pressoché totale costituisce un laboratorio incredibile di apprendimento, di sperimentazione, di lotta. Insomma sul piano intellettuale è un'esperienza eccezionale, anche se va calcolato il parallelo, parziale "svuotamento" dovuto al fatto di trovarsi in un luogo in cui è praticamente impossibile trovare libri, vedere film e confrontarsi, insomma realizzare una meta-elaborazione del vissuto».
Questa carenza degli strumenti più elementari per insegnare è il drammatico leit motif che accompagna tutta la sua esperienza africana insieme alla convinzione sempre più sofferta che se vogliamo veramente, e non solo a parole, aiutare il continente nero dobbiamo iniziare da quel diritto all'istruzione dei bambini che continua ad essere trascurato, da quella educazione e formazione scolastica che è premessa indispensabile di crescita libera e autonoma: «Lasciare questi bambini senza libri, senza strumenti di formazione e di informazione, vuol dire crescere cittadini che non sanno neppure di essere cittadini, con dei diritti civili e politici. Vuol dire crescere un gregge, non un paese»
Eppure di parole, progetti e denaro ne corrono molti verso l'Africa. Ma alla gente arrivano soltanto le briciole. Denuncia Silvia con parole di fuoco che rispecchiano un'amara realtà: «Non si può dire che nulla arrivi a destinazione, ma per quattro soldi che arrivano alla gente (in cibo, sanità o materiale didattico o quant'altro) i miliardi spesi che restano sopra il filtro sono centinaia...Alla gente restano solo le gocce, non certo i miliardi stanziati, che noi sentiamo decantare alla Tv , dall'Unione Europea o da questo o quel governo. Voglio precisare che non mi riferisco qui solo alle grandi agenzie e al sistema ONU, ma anche alle piccole Ong, che si vantano tanto di essere "alternative". Anche tra le Ong ci sono manovre davvero pazzesche. Credo che se qualcuno avviasse un' inchiesta su tutto questo, scoppierebbe qualcosa di ben più scandaloso di Tangentopoli... Non credo che il sistema ONU sia peggiore di molti altri. Quello che colpisce è soprattutto il costo immane necessario per far funzionare una macchina pachidermica, di proporzioni planetarie. Migliaia di persone strapagate, in decine e decine di uffici di paesi diversi, per realizzare progetti che, come costo effettivo reale, richiederebbero solo poche centinaia di milioni»
Sono constatazioni che fanno male, soprattutto quando tutto attorno è un'esposizione permanente di immagini che straziano: bimbi così malnutriti da avere i capelli biondi e la testa coperta di bolle purulente, con vestiti che non sono vestiti, ma buchi con qualche striscia di stoffa, che non riescono a riparare dal freddo, le stamberghe sbilenche con dentro pochi stracci e pochi tegami che devono servire per tutto, in ogni luogo una miseria infinita dove il singolo è disperatamente solo e abbandonato a se stesso. Scene di vita quotidiana che la guerra rende più atroci («qualche settimana fa cinquecento persone ammazzate dentro una chiesa....bambini e adulti sgozzati a colpi di machete ») con continue stragi, alimentate dagli interessi privati internazionali che dopo avere svuotato e distrutto trasversalmente culture e tradizioni, annientato identità, continuano a sviluppare i loro sporchi mercati, all'ombra dei dittatori di turno e approfittando delle tensioni tribali.
Che cosa può fare una cooperante contro questi sistemi di sopraffazione e di violazione che i poveri pagano sulla propria pelle? A che cosa servono le piccole gocce che tante persone di buona volontà cercano di buttare per costruire qualcosa di buono? Se lo chiede Silvia Montevecchi mentre procede nella sua missione africana, quando lo scoraggiamento per una situazione attraversata da tanta sofferenza innocente, le atrocità e le crudeltà, le ingiustizie diventano insopportabili, il senso di impotenza lacerante. Se lo chiede ogni giorno, ma poi decide: «Io continuo ad andare avanti per il semplice fatto che mi va, ed è ciò in cui credo. Poco m'importa della feccia che possono avere intorno. Cerco di evitarla. Non sempre ci si riesce. Pazienza».
D'altra parte come non andare avanti quando incontri lo sguardo di centinaia di bambini che ti chiedono di essere amati e ti amano con una tenerezza che soltanto l'infanzia, privata di tutto, sa regalare, quando pensi ai nostri bambini che hanno case splendide, mille confort, mille giochi, mentre questi sono «così affogati nel nulla da non poter neppure supporre che cosa esiste fuori» ? Quando incontri donne sempre incinte, consunte dalle maternità e dalla fatica del vivere quotidiano, che percorrono 40 chilometri a piedi scalzi su strade sterrate , sotto il sole, cariche di taniche di vino di banana, sperando di venderle al mercato per fare quattro soldi, donne che «arrivano là dove neanche gli uomini si sognano, con un senso di responsabilità, una calma determinazione, una capacità di comprensione che sposta le montagne»? Quando incontri donne dal sorriso sempre accogliente con le quali nasce subito una solidarietà reciproca, una comprensione che non ha neppure bisogno delle parole?
Con nel cuore queste domande Silvia, dopo una parentesi in Madagascar, è ritornata una seconda volta in Africa, nel 1999 per lavorare in Somalia, a Berbera, ad un nuovo Progetto Educazione finanziato dall'Unione Europea con la collaborazione di Unicef e Unesco, che prevedeva la ricostruzione di scuole elementari distrutte dalla guerra e la formazione degli insegnanti. Tutto questo, come sempre, in un contesto di grande povertà. Una sfida che la pedagogista bolognese riesce a vivere con rinnovato entusiasmo come testimonia la seconda serie delle sue lettere e nonostante le tante delusioni e sconfitte che continua a collezionare: «Purtroppo mi è rimasta la convinzione che dei bambini del Burundi, della Somalia e del Sudan non interessi niente a nessuno, che i tanti miliardi che si spendono non siano altro che giochi politico-economici di cui anche noi, forse cretini che credevamo di dare qualcosa agli altri, siamo solo pedine».
Nel Somaliland, repubblica proclamatasi autonoma nel 199I, che cerca di ristabilire la pace e le istituzioni politiche, l'attende una nuova avventura, un nuovo paese, una nuova rinascita alla solidarietà, alla scoperta di una popolazione fiera e dignitosa, operosa, che sta cercando di uscire dalle macerie della guerra a causa della quale due generazioni non sono andate a scuola. Il Progetto Educazione di Berbera prevede il coinvolgimento della gente dei villaggi sparsi nel deserto nella ristrutturazione degli edifici e anche nel pagamento degli insegnanti in moneta o in natura. Ma i problemi sono tanti : i bambini nomadi possono frequentare solo per pochi mesi all'anno, le famiglie sono sparpagliate qua e là, mancano gli strumenti per un insegnamento che non sia soltanto ripetizione mnemonica di frasette, anche le culture tradizionali non esistono più. Scrive Silvia da questa nuova frontiera: «Se la miseria economica è terribile, quella culturale è una galera senza fine». L'impegno del Nord del mondo deve essere quello di permettere ai bambini africani di usufruire di una educazione «sufficiente a fargli prendere autocoscienza, per poter davvero decidere del loro avvenire». Si tratta di convincere i maestri ad avere «un altro tipo di comunicazione e di rapporto con i bambini, avviando una scuola che stimoli la curiosità, il dibattito, l'espressione libera, la ricerca, la capacità di porsi domande, di andare verso ciò che è differente, di scambiarsi idee anche quando non le si condivide, di rispettare la libertà altrui. La capacità, infine, di costruire un paese democratico, in cui i conflitti vengono risolti senza l'uso delle armi, e in cui sia possibile vivere».
Un'utopia, un sogno? Forse, ma la cooperante bolognese tenta di realizzarlo, sostenuta dal coraggio e dalla forza interiore che l'incontro con il deserto le regala: «L'esperienza del deserto, una solitudine così prolungata, i lunghi silenzi. Il deserto è lo specchio della tua anima. Nel deserto non puoi mentire. Sei solo con te stesso, con i tuoi sogni, i tuoi fallimenti, i dolori, i ricordi. Ciò che hai vinto e ciò che hai perso. Ciò che avresti voluto e ciò che hai. Nel deserto non ci sono maschere... Il deserto insegna l'umiltà; e ti insegna ad essere forte, perché sei solo. E questa solitudine ti dà la libertà più vera, che si ha solo quando si è soli. Ti insegna a guardare avanti, con tutta la consapevolezza del passato».
Silvia Montevecchi dopo la sua missione nel Somaliland e dopo tre mesi in Sierra Leone per il recupero dei bambini soldato («un periodo tanto affascinante e coinvolgente quanto duro e difficile»), dopo essere stata ancora in Somalia, nell'estremo sud del Puntland, per realizzare gli stessi progetti educativi di Berbera, è rientrata in Italia per un periodo di riposo e di riflessione. Ha ancora molta voglia di viaggiare e di conoscere, ma nel cuore ha accumulato stanchezza e amarezza : «L'Africa conosciuta a vent'anni ha continuato a precipitare vorticosamente verso il baratro: la miseria e la violenza che vi si incontrano non sono descrivibili a parole. L'inquinamento è pazzesco, la povertà disumana, la mancanza di diritto sembra rasentare la follia....Torno a casa, come molti colleghi, con molta tristezza, anche in certo senso «con la coda fra le gambe», di tutto ciò che si pensava dopo gli studi universitari, rimane davvero assai poco. L'Africa è ancora in gran parte terra di conquista, di colonialisti razzisti e approfittatori, anche se il look e il modo di fare sono diversi da un tempo...Tutto è stato livellato, omologato. E solo in senso negativo»
Ma l'amarezza di queste riflessioni non spegne la gioia dei ricordi: gli eucalipti del Burundi, i bambini che nei campi profughi prendeva in braccio, «con i loro cenci addosso e le loro pance gonfie....I sorrisi dolci, felici a volte e altre afflitti, dei contadini e delle donne...quelle stesse donne che in Burundi, in Sierra Leone portavano i bambini sulla schiena e in Somalia mi invitavano nelle capanne a prendere il té. Tutto ciò che ho visto e conosciuto mi ha fatto spesso invecchiare di mille anni . Ma sono felice di tutto ciò che ho fatto, di tutto ciò che ho amato»
E allora si può continuare a sognare di aiutare i dimenticati del Terzo Mondo perché un giorno possano decidere del proprio destino e non subire la prepotenza, la violenza , la sopraffazione delle minoranze che detengono il potere. «Un sogno ostinato» che vale pur sempre la pena di fare. Per se stessi e per gli altri.
Mariapia Bonanate

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