Testimonianze di viaggio, scritti, articoli sul conflitto israelo-palestinese.

Di Stefania Sinigaglia 

ebrea pacifista.

AGOSTO 2001: LA TERRA PIU’ AMATA SOTTO ASSEDIO

L’Associazione per la Pace, di Roma, organizza da anni viaggi di conoscenza e di appoggio alla pace in Palestina e Israele. [Dal 1988 si è iniziata la pratica delle Donne in nero di manifestare silenziosamente, sia in Italia che a Gerusalemme, donne israeliane e donne palestinesi insieme, donne italiane e non, per sormontare la barriera di incomprensione e odio tra le due comunità antagoniste.] Avevo partecipato nell’agosto del 1996 a uno di questi viaggi, durante il quale avevamo visitato Gaza e le principali città dei territori occupati, incontrando varie organizzazioni e rappresentanti palestinesi e israeliane. Da parte palestinese era evidente la frustrazione per la mancanza di vantaggi del processo di pace, che anzi non aveva apportato che ulteriori complicazioni e ostacoli allo svolgersi di una vita normale: targhe differenziate che impedivano una libera circolazione e l’accesso a Gerusalemme ai “non autorizzati”, nuovi controlli e posti di blocco, [continuazione della espansione delle colonie] costruzione di nuove colonie in Cisgiordania e nella stricia di Gaza, continue vessazioni burocratiche, dilazioni [nel rispetto] delle scadenze fissate per il ritiro delle forze militari israeliane oltre la linea verde. Da un lato il “processo di pace” veniva percepito come irreversibile, dall’altro le crepe e le mancanze erano minacciosamente evidenti. Dopo cinque anni, il viaggio di quest’anno è stato una specie di spedizione militante di appoggio alla lotta di un popolo contro un esercito di occupazione. Dal 28 settembre scorso, dall’inizio di quella che viene definita la seconda Intifada, è guerra non dichiarata, e quello che abbiamo visto è inequivocabilmente una terra sotto occupazione militare, sotto il tallone di ferro di un esercito.

Arriviamo all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv il 13 agosto: siamo due gruppi, da Roma e da Milano, venti persone. Luisa Morgantini, l’anima di questi viaggi e di molte delle  iniziative di pace di questi anni in Italia, donna in nero della prima ora  e europarlamentare, ci ha preceduto di un giorno, giusto in tempo per essere picchiata ad una manifestazione [con i palestinesi] davanti all'Orient House. Un pullmino ci preleva dopo poco e ci conduce a Betlemme. Nell’albergo sono ospitati altri militanti americani e inglesi

Betlemme, che avevo visto formicolante di gente e turisti, è una città fantasma. Su una collina c’è l’insediamento (colonia) dei settlers israeliani di Har Homa e sono frequenti i colpi di mortaio, veri e propri bombardamenti sulla città. Vicinissimi sono i villaggi di Beit Sahour e Beit Jala, praticamente quartieri di Betlemme, tartassati di colpi dagli israeliani e sotto minaccia di invasione dei militari da un momento all’altro. Alcune del nostro gruppo dormono a turno a Beit Jala, per fornire protezione alla popolazione contro i bombardamenti, dato che la nostra presenza nelle case palestinesi viene segnalata alle autorità israeliane. Una mattina veniamo condotti a vedere i danni fisici provocati finora alle case: distruzione e macerie, ma qua e là operai su impalcature che testardamente cercano di ricostruire. La sera, dall’albergo facciamo un giro fino “in centro” a piedi: non circola ovviamente nessuno, ma macchine piene di ragazzi giovanissimi sgommano e sfrecciano velocissime nel nulla, perché non possono andare da nessuna parte, ci sono blocchi dappertutto. E’ surreale.

Il 15 agosto andiamo a Hebron. Il nostro pullman non riesce a passare, tutti gli accessi alla città risultano bloccati da enormi blocchi di cemento, le stradine secondarie sbarrate da mucchi di terra. Ogni tanto si vedono grandi ammassi di spazzatura, dato che i camioncini della nettezza urbana non possono circolare. Finalmente una jeep israeliana ci permette di passare scortandoci attraverso la colonia israeliana di Kyriat Arba. Là dentro c’é un altro mondo: strade pulite, casette linde, ufficio postale, scuola, fiori e piante: un mondo a parte, non si può evitare di pensare, come recitava il titolo di un film di qualche anno fa sull’apartheid in Sudafrica. Hebron è divisa in due zone: la zona più ampia, nuova, H1, è la zona palestinese (zona A, sotto controllo della Autorità Palestinese), mentre la città vecchia, il cuore dell’abitato, è denominata H2 e praticamente tenuta sotto coprifuoco dagli israeliani. Perché? Perché nel mezzo della città vecchia si è insediata una colonia di israeliani ortodossi, 200 persone cui altre 200 vengono a dare man forte dalle colonia vicine, e ben 1500 soldati israeliani sono là a proteggerli. Così 20.000 palestinesi che abitano nella zona H2 sono ostaggio di 400 coloni ultraortodossi, che rivendicano il diritto di abitarvi perché nel 1929 degli ebrei ne erano stati cacciati dopo essere stati vittime di un attacco arabo.

Andiamo alla sede della Mezzaluna Rossa, dove incontriamo un dirigente di questa organizzazione e un ginecologo palestinese che ha studiato in Italia, il dott. T.Z.. La storia che ci racconta è forse la migliore esemplificazione di ciò che significa occupazione militare del proprio spazio di vita e di lavoro.

“Dopo la laurea e la specializzazione sarei potuto rimanere in Italia, dice il dottore, ma si era agli inizi degli anni ‘90 e ho scelto di tornare nella mia terra per dare il mio contributo alla pace”. Rientra allora a Hebron (il nome arabo è Al Khalil) e trasforma la sua casa in una clinica per la salute materno-infantile. Ma la pace si allontana sempre di più, scoppia la seconda Intifada. L’esercito israeliano adocchia la clinica e ne ritiene strategica la posizione, così sulla collina, e ne occupa il tetto, non solo, ma ne controlla l’ingresso, decidendo chi può entrare e chi no. L’attività del medico è impedita, e lui stesso con i figli e la moglie sono ridotti a vivere a casa loro come ospiti mal tollerati, rifugiati in due stanze. Andiamo a vederla. Per arrivarci bisogna arrampicarsi su dei muretti, perché altrimenti bisogna fare un giro lunghissimo. Vorremmo entrare: il dottore chiede il permesso ai soldati, che lo negano. Vediamo altri due palestinesi che si inerpicano per una scarpata: anche loro arrivano così a casa propria.

La Mezzaluna Rossa ha messo in piedi un Ospedale nella zona sud di Hebron. E’ uno dei più grandi in Palestina, nel quale gli stessi dirigenti che l’hanno creato non possono mettere piede. Le stesse ambulanze vengono fatte bersaglio di spari, e il personale è stato ferito.

Veniamo ricevuti dal Sindaco: “La città è completamente bloccata” ci dice, “gli abitanti della città vecchia ne sono prigionieri, da 135 gg non possono fare rifornimenti. La zona industriale è sotto controllo israeliano, tutta l’economia è in tilt. L’esercito è tutt’intorno alla città, la notte sparano e danneggiano le infrastrutture. Tutte le notti le case a ridosso della zona controllata dagli israeliani e dai coloni vengono attaccate. Gli estremisti israeliani ci hanno assalito con sassi. Se protestiamo con la polizia, ci dicono: “per due vetri rotti non vale la pena…”.

Visitiamo con una giornalista palestinese la città vecchia: è anche più spettrale di Betlemme. Le strette viuzze sono "protette" da reti metalliche che trattengono delle grosse pietre, lanciate dai coloni, alcune delle quali sono in bilico. Attraversiamo una fogna esplosa, le acque putride scorrono a cielo aperto. La nostra guida dice: “Abbiamo chiesto di ripararla ma ce l’hanno impedito”. Mentre giriamo per le stradine deserte, ogni tanto sbuca qualcuno che vuole raccontare la sua storia. Mi colpisce una donna: le manca un braccio. Entriamo in una casa: ci sono pietre per terra e pietre sopra la rete di protezione.

[Dal 1996 è stato creato un piccolo corpo internazionale di osservatori, la TIPH, Temporary International Presence in Hebron, che dovrebbero monitorare la situazione e inviare rapporti ai Governi dei Paesi che li hanno inviati (Svezia, Danimarca, Italia, Norvegia, Svizzera, e Turchia). Sono disarmati, e vengono minacciati e attaccati dai coloni con pietre e colpi di fucile in modo che si ritirino. Ma anche i Palestinesi si chiedono che fine facciano tutti i loro rapporti, chi li legga. E’ di pochi giorni fa la notizia, comparsa sulla edizione inglese del giornale israeliano Haaretz, che la TIPH, stanca degli attacchi dei coloni mentre perlustra la H2, dice di sospendere le attività: quello che volevano gli israeliani].

Visitiamo il campo Profughi di Al Fawar, uscendo da Hebron. Nella riunione con i dirigenti, ci dicono: “ci si stupisce che i Palestinesi tornino a combattere dopo che hanno firmato gli accordi di Oslo. Ma i Palestinesi non hanno ottenuto nulla. All’Autorità Nazionale Palestinese è stato dato il controllo delle città e di zone abitate da palestinesi, ma il controllo su tutte le risorse da parte degli israeliani è rimasto immutato (acqua, elettricità, benzina). Il termine per l’attuazione degli accordi era fissato per il maggio 1999. Ma sono raddoppiati gli insediamenti, sono continuate le confische. Tre questioni fondamentali: Gerusalemme, l’acqua, i rifugiati, non sono state discusse (l'acqua è stata discussa, purtroppo. Credo che il terzo elemento rinviato sia quello dei confini di Israele, che include il problema degli insediamenti, ndr). Oggi meno del 20% della popolazione approva gli accordi. La questione centrale è che la Palestina è un popolo sotto occupazione. Vogliamo due stati per due popoli, con Gerusalemme (Est) capitale dello stato palestinese, e  il riconoscimento del diritto al ritorno. Israele deve accettare la responsabilità etica della Nakba: la catastrofe, la sconfitta dei palestinesi nella guerra del 1948 e l’inizio della loro diaspora. Continuare questo conflitto non è nell’interesse di nessuno. Ci vuole l’intervento internazionale”.

Su questo ultimo punto tutti coloro con i quali abbiamo parlato sono d’accordo: ma, data l’esperienza deludente del TIPH (Temporary International Presence in Hebron), il corpo internazionale di osservatori che dal 1996 opera a Hebron, reclamano una vera e propria forza di protezione dei civili.

Un altro incontro illuminante è con Jad Isaac, direttore del Applied Research Institute of Jerusalem: ci mostra una serie di cartine di Israele e dei territori occupati, da Oslo 1 a Camp David nell’ottobre del 2000, e soprattutto quest’ultima è chiarificatrice. “Ci si è stupiti che Arafat rifiutasse la munifica proposta di Barak”- dice -“ ma guardiamo la cartina proposta: ci si garantiva 3 blocchi di territorio, inframmezzati da zone di sicurezza israeliane, con le aree per i settlers che sarebbero state concesse “in affitto” a Israele per 99 anni, senza la sovranità su Gerusalemme (est), con tutta la zona della Valle del Giordano dichiarata zona di sicurezza. Ora noi siamo divisi in 65 cantoni”.

In questa marea montante di aggressività e di sfiducia tra le parti, che ruolo possono svolgere le donne, quelle che veramente vogliono una pace giusta, che riconosca i diritti inalienabili dei due popoli?

Incontriamo, (prima di unirci alle donne in nero israeliane che ogni settimana dal 1988 manifestano silenziosamente nel centro di Gerusalemme) in Paris Square le donne israeliane di Bat Shalom.

Dall’inizio di questa nuova escalation di violenza, a turno, in piccoli gruppi, si recano ai vari posti di blocco e “osservano” ciò che succede, facendo domande ai soldati: “Che succede? Che cosa stai facendo?” Questo pone problemi ai soldati, che si vedono davanti figure che ricordano loro le loro stesse madri, sorelle, nonne, e costituisce quindi una qualche protezione per i palestinesi. I loro contatti con le donne palestinesi, del Jerusalem Center for Women, con le quali avevano varie iniziative comuni, sono diventati più difficili in questi mesi, ma sono continuati dopo alcune interruzioni. L’organizzazione che unisce le donne dei due versanti è il Jerusalem Link, la cui direttrice, Terry, conclude l’incontro con parole pesantissime: “La responsabilità che mi sento in quanto attivista Israeliana è quella di aver creato un paese in cui abbiamo deumanizzato i palestinesi. Un soldato che impedisce ad una partoriente di arrivare in ospedale e la costringe a partorire in mezzo alla polvere, e la guarda, ha subìto un processo di socializzazione avvelenato. Non credevo che un essere umano potesse arrivare a tanto. Questo è ciò che l’occupazione ha fatto a questo paese”.

Stefania Sinigaglia, 25 agosto 2001

 

Brave New War   

Credevamo che l’ossimoro della guerra umanitaria fosse la punta massima cui la retorica perversa della modernità potesse arrivare. Ma dobbiamo ricrederci. L’odierna “nuova guerra”, in cui si pretende di  voler liberare una popolazione, oppressa da un regime di cui si è scoperta l’abiezione solo il 12 settembre scorso, a suon di bombardamenti, sorpassa l’immaginazione noir più audace. I guasti che sta creando e creerà,  se non riusciamo a smascherarla di fronte al grosso dell’opinione pubblica e a fermarla al più presto, sono immani.

E questi guasti sono in tutto identici a quelli della "”vecchia guerra” di sempre, da un lato, e dall’altro invece dilatano alcuni aspetti delle guerre degli anni ’90, le guerre del dopo Muro, soprattutto della guerra del ’99. Fu infatti  in quella circostanza che fu coniata l’espressione “danni collaterali”, per indicare le vittime civili “involontarie”, fatali conseguenze della benefica pioggia di bombe liberatrici.

Oggi però in un certo senso si va oltre: che c’è di più perverso che far piovere contemporaneamente dal cielo bombe e pacchetti di burro di arachide o fagioli in salsa vinaigrette, con tanti auguri da parte del popolo americano? L’irrisione oscena di tale metodo di distribuzione di vettovaglie (poche migliaia ovviamente per milioni, che non devono mangiare un giorno ma tutti i giorni, o almeno  a giorni alterni), è rafforzata dal fatto che i sacchetti di cibo possono cadere in campi minati.

Per chi ha visto  il film “Viaggio a Kandahar”, le riprese più agghiaccianti sono quelle di frotte di mutilati che con le loro stampelle saltano come cavallette impazzite, in mezzo alle dune del deserto, verso le poche paia di protesi  paracadutate da aerei “umanitari”. Ovvero, prima ti rendiamo monco e incapace di coltivare (siccità permettendo), lavorare, vivere, dato che le mine antiuomo sono una invenzione geniale che viene dall’Occidente, ma poi, se sei lesto abbastanza, puoi arrivare a arraffare una protesi di gambe nuova di zecca, anche se forse non di eccelsa qualità.

Che c’è di nuovo in questa sofferenza, nelle fughe di profughi sempre più numerosi, nella fame che assedia chi resta e chi parte?  Il copione è frusto, assomiglia in tutto e per tutto alle guerre di ieri e di sempre, alla Storia come la vedeva Elsa Morante,  che schiaccia e uccide i deboli, annienta il dissenso, ridisegna dall’alto di una diplomazia planetaria  i destini di miliardi di persone con la sola attenzione agli equilibri geo-strategici di un futuro in cui perpetuare il mosaico del dominio. Rieccheggia sempre più vera la riflessione dell’Adelchi manzoniano: “Una feroce forza possiede il mondo, e ‘l fa nomarsi diritto. …” La forza feroce che si erge a diritto: quale altra definizione migliore, più icastica, della politica estera degli Stati Uniti o di Israele? E che dire del ruolo penosamente succube anche in questa circostanza dell’ONU, “casualty” eccellente di questa e delle precedenti guerre anni 90, ridotto a sanzionare con le sue risoluzioni quanto già deciso in altre stanze, ad avallare e bacchettare senza mai assumere un ruolo forte di mediatore e istanza risolutrice e arbitra dei conflitti e delle crisi internazionali e regionali. Quando  ha provato ad assumerle, queste responsabilità… che risultati! Somalia, Angola, Sierra Leone, Rwanda, Congo: cinque grandi crisi, altrettanti scacchi. Ma si sa che l’Africa importa poco. Che si cuociano nel loro brodo di guerre regionali, l’importante è che il petrolio angolano, i diamanti e la gomma della Sierra Leone, il coltan del Congo  siano sempre disponibili.

L’ONU imbelle, inefficace, oggi come ieri. Che c’è di nuovo sotto il sole e la pioggia di bombe?

Ancora: in questo ultimo mese, vari capi di stato o alti responsabili si sono decisi ad ammettere che …” sì forse, l’iniqua distribuzione delle ricchezze del pianeta può avere qualcosa a che fare con l’odio nei confronti degli Stati Uniti e del mondo occidentale, con l’instabilità sociale di tanti paesi del Sud del mondo”, e si sono prodigati in assicurazioni che si sarebbero raddoppiati gli sforzi della cooperazione internazionale. Si è reiterato (le parole non costano fatica) l’impegno a devolvere lo 0.7% del PIL dei paesi industrializzati alla cooperazione per lo sviluppo. Bene: una conseguenza, minima rispetto ad altri disastri, ma pur significativa, della guerra, è che si sono bloccate molte attività di cooperazione internazionale, e addirittura in certe zone si sono evacuati tutti gli espatriati. Certo, è rischioso restare o andare in certe zone, in certi stati. Ma chi vi abita non ha scelta, e noi abbandoniamo popolazioni che soffrono anche delle conseguenze di scelte  che appartengono più a noi che a loro.

Su La Repubblica del 22 ottobre si poteva leggere che gli autisti del PAM, Programma Alimentare Mondiale, che partono dal Pakistan verso l’Afghanistan  ricevono l’indicazione di badare soprattutto a salvare la pelle: un carico di viveri di tonnellate non vale una singola vita umana. Già, ma quante vite possono se non salvare almeno prolungare quei viveri? Ovvero: vi bombardiamo e vi affamiamo, cacciandovi dalle vostre case, vi costringiamo sulle montagne a marce estenuanti, ma possiamo portarvi qualche sollievo solo se noi non rischiamo troppo. E se magari si smettesse di bombardare e si cercasse davvero di smantellare la rete terroristica mondiale con le armi dell’intelligence e delle investigazioni, da un lato, e dall’altro con le armi diplomatiche, con il dialogo, con missioni di protezione dei civili, tessendo rapporti e legami, ricucendo e non strappando?

Ecco allora che al movimento dei movimenti nato dopo Seattle, passato attraverso Porto Alegre e Genova, si prospetta una grande responsabilità: far transitare di nuovo le società, le nostre società, dalla guerra agìta dai padroni del mondo, dalla diplomazia delle stanze dei bottoni, al terreno dei reali conflitti sociali ed economici, alla diplomazia dal basso, alla ricucitura di interessi sociali diversi ma compatibili e complementari. Ma questo non potrà essere un processo indolore: e per questo l’etichetta di “pacifista” tout court dato al movimento di opposizione alla guerra, a questa guerra, alle guerre tra stati, richiede  alcune precisazioni. Vogliamo avere la forza delle nostre ragioni, ma ciò implica una lotta per affermarle e per allargare il consenso, per conquistare  una egemonia di idee e valori.

La guerra devia e distorce i conflitti reali: la sfida di oggi è di smascherarla e ricondurre le energie sugli agoni reali: la distribuzione iniqua delle risorse, il debito, l’ambiente dilapidato, la gerarchia e la ristrutturazione del lavoro. Per far questo però non bastano le manifestazioni e i grandi appuntamenti: occorre sviluppare iniziative concrete che costruiscano nuove risorse e nuove coscienze.                 

Stefania Sinigaglia, 24/10/01

Diaspore contro l’occupazione

Da quando l’ho letto, giovedì 4 aprile, il titolo di un articolo del New York Times riportato dall’Herald Tribune mi rimbomba in testa come una campana a morto: “Mood is good” il morale è alto.

Questo dicono i dirigenti di Hamas dalle loro “comfortable homes”  in Gaza City, e si strofinano le mani dalla soddisfazione al constatare l’effetto di guerra totale che gli ultimi attentati di Netanya e Haifa hanno scatenato contro la popolazione palestinese. Ciò non fa che aumentare le reclute, osservano, addirittura devono declinare le offerte dei candidati suicidi-bombe umane. Il loro obiettivo? La fine dell’occupazione ebraica della Palestina storica. Che cosa intendono con ciò? Se si intende che Israele deve tornare ai confini del 1967, non fanno che chiedere l’applicazione delle Risoluzioni ONU, e non si può che essere d’accordo. Ma se intendono l’abolizione di Israele in quanto Stato ebraico, si pongono come obiettivo l’abolizione dello Stato di Israele. Gli ebrei possono restare, se vogliono, ma in uno stato islamico. E questo è inaccettabile per qualsiasi ebreo.

L’articolo è poi uscito su La Repubblica del giorno successivo, venerdì 5 aprile. Non so quanti ebrei italiani, quanti appartenenti alle Comunità israelitiche, quanti rabbini l’abbiano letto e meditato. A me sembra dimostrare, come la prova inoppugnabile di un teorema matematico, ciò che una piccolissima minoranza di ebrei  della diaspora e di israeliani pacifisti tentano di far capire da mesi, se non da anni, alla cosiddetta comunità internazionale, e soprattutto alla maggioranza pro-Sharon o pro-Netanyau di Israele stesso.

Cioè che sempre di più la criminale politica israeliana di umiliazione e di  oppressione, di uccisioni e distruzione di case e campi, di azzeramento delle possibilità di vita nei Territori Occupati, di aumento delle colonie in terra palestinese, ed ora di guerra totale, anche in risposta agli attentati più sconvolgenti, non è che il migliore artefice della propria temuta distruzione. Insomma, non solo questa politica viola tutte le leggi  del diritto umanitario e internazionale, è omicida, ma è anche suicida,  scava la fossa allo stesso Stato di Israele, sia alla sua legittimità morale, sia alla sua stessa esistenza storica, favorendo la crescita esponenziale delle forze che lo vogliono annientare. E questa è stata la politica perseguita lucidamente e con miopia sia da Netanyau che da Sharon: indebolire e togliere di mezzo un interlocutore laico e moderato come Arafat per avere di fronte Hamas soltanto, da distruggere frontalmente. Ma senza minimamente tenere  conto del fatto  che dietro ad Hamas si sarebbe sempre più coagulato un popolo intero e che la distruzione di Hamas avrebbe implicato la distruzione di un popolo. Ed un popolo non lo si distrugge  se non a costo di perdere il diritto alla propria stessa esistenza come Stato e Nazione. Senza contare le ondate lunghe dell’islamismo montante di nuovo dopo l’11 settembre in tutto il mondo arabo.

Credo che ogni persona ebrea dovrebbe rievocare in cuor proprio tutte le tappe che faticosamente hanno portato alla costituzione di una “focolare ebraico”, ad un luogo dove non sentirsi perpetuamente stranieri ed estraniati, attraverso secoli di storia europea, tra pogrom e ghetti, fino alla catastrofe della Shoa.

Il peccato originale di Israele, innegabile - consistente nel fondare uno Stato dove un altro popolo, anche se non ancora eretto a nazione consapevole, già viveva da secoli - era stato a poco a poco non dico cancellato ma attenuato e si era trasformato in debito spendibile politicamente, attraverso un negoziato che riconoscesse comunque le  responsabilità  della Nakba (la catastrofe del 1948). Finalmente dopo 40 anni, nel 1988, il capo dell’OLP aveva riconosciuto la legittimità dell’esistenza dello Stato di Israele. Non si può negare che durante tutto il periodo dei lunghi negoziati da Oslo in poi non ci fossero forti riserve mentali e resistenze sostanziali, da ambedue le parti, ad ammettere “veramente” il diritto all’esistenza , in quel territorio, dell’altro in quanto popolo, nazione, Stato. E Israele ha continuamente dilazionato scadenze e ha barato insediando colonie su colonie su terra palestinese. Ha costruito strade su terra palestinese. Ha tagliuzzato i territori. Ma finché il negoziato durava, si poteva sperare.

Ora la seconda Intifada rischia di essere un atroce punto di non ritorno, l’inizio della terza catastrofe e questa volta per ambedue i popoli. Non solo per gli israeliani, ma di nuovo per noi ebrei, tutti, iscritti alle Comunità e non,  religiosi e laici, impegnati e apolitici. In questi giorni si sta cominciando a distruggere dalle fondamenta ogni futura possibilità  di convivenza e di assetto bi-statuale accettabile da ambedue le parti. E’ un gioco al massacro che si iscrive pienamente nel nuovo quadro di deregulation assoluta aperto dall’11 settembre: la guerra ormai è il nuovo modo di dispiegarsi della politica, nessuna regola o remora del diritto internazionale  è più valida né  quasi vale la pena invocarla. Gli appelli e le iniziative di interposizione, le stesse missioni civili di pace internazionali, pur preziose,  sono deboli argini innalzati contro la furia dirompente  di chi vuole solo guerra per annientare l’altro. Ora non si combatte più per guadagnare terreno tatticamente, ma per distruggere e annientare l’altro contendente.

Non  ha senso pretendere condanne della sciagurata scelta dei kamikaze palestinesi quando il motore principale di quella stessa scelta è l’occupazione israeliana, che sta ad Israele terminare. Da tempo la palla è nel campo israeliano, ma invece di rilanciarla, con il ritiro unilaterale dei territori occupati nel 1967, l’attuale governo l’ha seppellita e ha scelto la strada dello scontro frontale. Nessuno allora può salvarci, ebrei, israeliani e palestinesi, se non ci salviamo noi da soli, rifiutando di procedere al baratro che si prepara per tutti. Occorre comprendere come la rovina dei palestinesi è anche la nostra rovina, la fine del sogno di uno Stato Palestinese integro entro frontiere definite in quel 22%  da loro accettato è anche la fine dello Stato di Israele come compagine umana, morale e forse fisica, storica.

Gli israeliani delle organizzazioni pacifiste, insieme ad organizzazioni palestinesi, stanno facendo la loro parte da mesi in una situazione difficilissima. Invece, le Comunità Israelitiche italiane ancora sono succubi del loro identificarsi, comunque e sempre, con Israele, qualsiasi cosa faccia. Addirittura, covano mostri ignari delle proprie stesse radici e tradizioni di comprensione e tolleranza come i giovani teppisti che hanno assalito la sede di Rifondazione Comunista alcuni giorni fa. Aggrediscono perché temono di essere aggrediti, viene agitato lo spauracchio dell’antisemitismo. Anche in questo caso, occorrono a mio avviso dei distinguo. I fatti recenti avvenuti in Francia, l’attacco a sinagoghe, e finanche alcune frasi spiacevoli per orecchie ebree  (tradizionalmente ipersensibili) che si possono sentire nei cortei di questi giorni sono riconducibili alla aggressione israeliana, sono soprattutto anti-israeliane, non antisemite (per quel che significa storicamente, dato che l’antropologia ha dimostrato l’inesistenza delle razze umane). E se di antisemitismo si può parlare a proposito di varie formazioni politiche e partiti di destra europei, si tratta di un antisemitismo nuovo, parte integrante di atteggiamenti razzisti in senso lato rivolti a varie minoranze, in un contesto di globalizzazione, e quindi da analizzare tenendo conto di queste peculiarità che lo rendono diverso alla radice dall’antisemitismo storico. E comunque, ancora una volta,  la politica israeliana non fa che rinfocolare questi fenomeni.

Di fronte agli eserciti e alle superpotenze ci si sente deboli e inermi. Abbiamo dalla nostra parte soltanto  la capacità di analisi e raziocinio, la nostra volontà di reagire e di farci ascoltare, e su queste risorse dobbiamo contare. Dobbiamo agire qui ed ora, dal basso, dato che i poteri del mondo dimostrano o connivenza  insipiente o colpevole complicità. Come organizzazioni e associazioni, ma soprattutto come ebrei singoli quali siamo,  insieme alle organizzazioni palestinesi che rifiutano le derive islamiste, dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per evitare una catastrofe comune.

Stefania Sinigaglia, Ancona 7 aprile 2002

 

La tua vita è la mia vita, la tua morte è la mia morte

Il titolo di questo scritto rispecchia il nocciolo del mio pensiero e dei miei sentimenti in questo momento rispetto al conflitto in Medio Oriente, di cui il corpo a corpo tra israeliani e palestinesi è il capitolo più sanguinoso, ma che non può essere isolato dal suo contesto egualmente fosco. Infatti in questa era globale ogni conflitto regionale reca con sé tutti i germi di uno scoppio incontrollato e distruttivo su scala mondiale, e quindi una catastrofe di proporzioni inimmaginabili o forse prefigurata virtualmente tra i vari scenari computerizzati dei  burattinai planetari che tirano le fila dei nostri destini.

“ L’onnipotenza distruttiva crea…le condizioni per cui la guerra perde ogni possibilità di dare un senso alla distruzione come necessaria alla salvezza dell’oggetto d’amore….la guerra non permette più l’illusione di salvare l’amico distruggendo il nemico…….offre…agli uomini la possibilità di vedere la guerra stessa semplicemente come aizzamento reciproco della propria morte…la conservazione del nemico diventa la condizione della nostra sopravvivenza….” (Franco Fornari, Psicanalisi della situazione atomica, in Psicoanalisi e cultura di pace, Edizioni Cultura della Pace, 1992, pp. 99-100, corsivo mio)

Ma oltre a questa valenza, che Fornari definisce “situazione pantoclastica”, riscontrabile da parte di chiunque sia dotato di qualche capacità di  discernimento,  riconosco in questo antico adagio ribaltato nel suo contrario lo sbocco di un itinerario personale, il condensato di una personale verità esistenziale. Sento cioè che in questo conflitto è in gioco anche il mio microscopico destino individuale, la mia possibilità di futuro come essere umano e come persona nata, gettata in una ebraicità che mi si è sempre posta come enigma prima che come dato identitario, approdo possibile più e oltre che imposto blocco di partenza. Sento ciò ora e non lo sentivo un anno fa, semplicemente perché i passaggi esistenziali sono imprevedibili. I momenti di verità della propria vita  franano addosso,  non si programmano, anche se  vengono da lontano. “Essere ebrei è una faccenda terribilmente complicata” (Cesare Cases, Il Manifesto, 18 aprile 2002).

Vorrei precisare che questo contributo è una testimonianza individuale né pretende di essere altro. Non sono  esperta di Medio Oriente né di ebraismo, e non me ne sono mai occupata a livello professionale. Ma professionalmente mi occupo di temi internazionali  e di comunicazione interculturale, ho vissuto e lavorato in molti paesi africani, in Asia e negli Stati Uniti, e forse questa esperienza ha nutrito una particolare sensibilità nel cogliere dimensioni polimorfe e apparentemente paradossali nelle relazioni umane, e in particolare all’interno dei conflitti, ha acuito “il senso dell’altro”. Il nomadismo ha poi rafforzato una propensione caratteriale che rimanda alla storia dell’ebraismo della diaspora, al topos classico  dell’ebreo  senza radici nazionali, apolide, l’altro per eccellenza. Ritornerò poi sul tema della diaspora, anzi delle diaspore, perché credo che un compito essenziale spetti proprio alle due diaspore, ebrea e palestinese, nel coordinarsi per uno scopo comune, anzi, per la salvezza comune. E  il concetto di salvezza ci rimanda al titolo come filo conduttore dell’intervento.

In questo momento sento che la salvezza del popolo palestinese, la loro possibilità di vita finalmente normale in uno Stato normale, sovrano, è condizione della mia salvezza individuale come essere umano ebreo, oltre che, più in generale, condizione della possibilità di esistenza di uno Stato Israeliano normale, sovrano, non più in guerra perpetua.

Se la campana suona a morto per ognuno di noi ad ogni morte, ciò è più vero che mai nel viluppo di destini dei due popoli, ebreo e palestinese, israeliano e palestinese. Siamo quattro soggetti, palestinesi e israeliani in  Medio Oriente, e due diaspore, buttate ai quattro venti, noi da millenni, i palestinesi da 54 anni. E vedo una terribile forza  in atto che promana da Israele, dalle forze di distruzione che oggi vi imperano ma anche dalla cecità di chi le vota, ed è soverchiante perché radicata nelle profondità dell’inconscio collettivo della maggioranza, e mi appare la dannazione di una inconfessabile e perversa coazione a ripetere. Non so interpretare altrimenti  disposizioni come quella recentemente emanata dai comandi militari di Tsahal di marchiare i prigionieri palestinesi con un numero sul braccio, o la frase riportata da un articolo del corrispondente militare Amir Oren comparso su  Ha’aretz del 25 gennaio 2002 come citazione di un ufficiale israeliano  che sollecitava l’esercito “ad analizzare e a fare proprie le lezioni su come l’esercito tedesco combatté nel Ghetto di Varsavia” ( Amir Oren in Ha’aretz, 25/01/02). O il comportamento di alcuni soldati dell’ Israel Defence Forces che, secondo quanto riporta Amira Hass sempre su Ha’aretz del 18 giugno 2002, “sono  persino riusciti a  defecare sulla fotocopiatrice” dentro gli Uffici del Ministero della Cultura Palestinese di El Bireh.

“…Ora mi chiedo: se l’ufficiale ritiene che la casbah di Nablus assomiglia al ghetto di Varsavia, a chi dovrebbero assomigliare, nella sua mente, gli ufficiali del nostro esercito?” (Uri Avneri,  commento all ‘articolo di Amir Oren succitato, in Il Manifesto del 2/02/2002).

 Per arrivare a concepire simili comportamenti o pronunciare simili direttive bisogna, in questo più che in altri conflitti, scomodare l’analisi dei profondi recessi dell’anima, le introiezioni e i  rimossi individuali e collettivi, i risvolti dei crocicchi  delle molteplici e infinitesimali storie individuali che fanno la Storia.  E arrivare a comprendere come possa essere accettabile da parte della maggioranza degli israeliani, e degli ebrei della diaspora (mi pare che la frase usata dal noto giornalista italiano ed ebreo Gad Lerner sia stata, in una trasmissione televisiva, “dolorosa necessità”), l’orrore dell’Operazione “Scudo Difensivo”, come “risposta” adeguata agli attacchi suicidi, che nascono dalla disperazione e dalla cancellazione pervicace di ogni prospettiva di autentico riscatto nazionale palestinese. Non credo si possa parlare “semplicemente” di degenerazione di tipo militarista, per cui sarebbe nella logica di tutti gli eserciti l’imbarbarimento e la violenza gratuita: l’interrogazione rimane. Perché “quelle” frasi? Perché  “quel” marchio?

Nella  diversità geografica e storica dei tragitti e dei profili dei soggetti implicati, la necessità di una vera e propria palingenesi della società israeliana - così frammentata e composita, ma che esprime maggioranze compatte quali quelle dell’attuale governo capeggiato da Sharon - evoca alla mia mente per analogia  il processo di radicale analisi collettiva del proprio passato intrapreso in Sudafrica con la Commissione sulla Verità e la Riconciliazione patrocinata da Desmond Tutu. Laggiù la possibilità di questa operazione di vera e propria autocoscienza collettiva  è stata data dalla vittoria dell’African National Congress e dalla sconfitta delle forze dell’apartheid. Per quanto concerne il conflitto israelo-palestinese, non sono sicura  che questa sequenza sia l’unica possibile. Forse le condizioni  stesse per  ribaltare l’attuale maggioranza che vota per Sharon,  per  sbloccare la trattativa di pace  con il ritiro dai Territori Occupati, tutti, che non appartengono ad Israele come ogni israeliano sa benissimo, implicano un inizio, almeno un inizio, di autocoscienza collettiva da parte della società Israeliana, una revisione completa dei pilastri su cui si fonda, una vivisezione delle coscienze. Ciò che il Sudafrica ha avuto il coraggio di intraprendere dopo la costituzione del nuovo Stato, pena l’impossibilità di convivenza tra ex-aguzzini ed ex-vittime. E’ un passo più in là, ma sulla stessa via,  di quello che chiede un Movimento pacifista israeliano come New Profile, che si batte per la “civilizzazione” della propria società. In questo conflitto, la messa in gioco e la mobilitazione dell’inconscio e del rimosso è una priorità, ma non solo per gli ebrei, anche per i palestinesi, pur essendo indiscutibile, a mio avviso, che questa rivoluzione spetti prima di tutto a noi. Respingo l’equidistanza di chi parla semplicemente di “due ragioni e due diritti”. Ma se oggi Israele è l’oppressore e l’aggressore che riesce a credersi vittima e a spacciarsi come aggredito, la comprensione di questo paradosso è ineludibile anche da parte palestinese e non si può tacciare il tutto solo di falsa coscienza o di operazione riuscita di propaganda sionista.

Credo che la verità su un conflitto possa  essere rintracciata non solo nella composizione di un mosaico storico basato su documenti d’archivio, diari di battaglie e massacri, fascicoli e lettere, testimonianze, records segreti o declassificati, ma anche nei vissuti individuali, nelle moltitudini delle coscienze in subbuglio, ed oltre, nelle stratificazioni della nostra interiorità.

Sono grata a Stefano Sarfati Nahmad per avermi segnalato qualche settimana fa un testo dello psicologo palestinese Marwan Dwairy “ On Fear and Honour in the conflict”.

  “Tra gli Israeliani e i Palestinesi rispettivamente ci sono numerosi gruppi che esprimono posizioni anti-umane. Gli ebrei invocano morte per gli Arabi e i Palestinesi celebrano gli attacchi suicidi contro civili Israeliani: Al di là della condanna di questi fenomeni e delle azioni legali da intraprendere per affrontarle, è anche importante compiere lo sforzo di comprendere le dinamiche psicologiche che sono dietro tali atteggiamenti………Da parte ebraica, c’è gente che teme sia in gioco la propria stessa esistenza, da parte palestinese c’è gente la cui libertà, onore e dignità sono stati calpestati. I Palestinesi non riescono a capire l’angoscia esistenziale degli Ebrei……Entrambe le parti debbono comprendere questa paura degli ebrei. I Palestinesi debbono differenziare tra l’ala ideologica della destra ebraica e i larghi strati di ebrei che temono per la loro stessa vita….Essi (i Palestinesi) debbono capire che l’angoscia è reale e che rassicurare gli ebrei dentro Israele è nell’interesse dei palestinesi.”

Il Dott. Dwairy prosegue in modo assolutamente convincente sottolineando l’incomprensione totale da parte israeliana del concetto di “onore” tra i palestinesi in particolare e tra le popolazioni arabe più in generale, e del legame indissolubile tra “onore” e “terra”: “ …In arabo diciamo: la terra è l’onore”. …Senza negare il ruolo del lavaggio del cervello e del reclutamento, è il bisogno di difendere il proprio onore che fornisce il terreno che alimenta il diffondersi del fenomeno degli shaheed (martiri) tra settori della popolazione che fino a tempi recenti non erano coinvolti nella lotta” (corsivo mio).

Michael Warschawski, co-direttore dell’Alternative Information Center, organizzazione israelo-palestinese, così si esprime in una intervista concessa a Enzo Mangini (Carta, 21-27 febbraio 2002): “Molte cose erano cambiate, dopo Oslo, in termini politici, ma una  cosa non si era spostata di un millimetro.  Il modo con cui pensiamo ai Palestinesi. La gente continua a ragionare in termini colonialistici, anche quelli che dicevano “Noi vi diamo”. (corsivo mio). La sinistra parlava della “generosità di Barak. Cos’è la generosità? Carità? I Palestinesi hanno diritti. In Israele non uso più la parola “pace”. Tutti parlano di pace….La questione è l’occupazione, non la pace” (corsivo mio).

Ecco che andiamo alle radici profonde di questo conflitto e di questa guerra, a concetti apparentemente evanescenti e indefinibili come angoscia  esistenziale e senso dell’onore calpestato, al modo di pensare l’altro da sé, fattori che sono alla radice dello scontro forse anche più degli interessi geopolitici o della lotta per l’accesso e la gestione delle risorse  naturali come l’acqua. O determinano la gestione aggressiva degli interessi contrastanti, alimentando ulteriormente la psicosi da “terrorismo islamico” post-11 settembre e la sua crescita esponenziale.

E’ emblematico che sia un Palestinese, pur dotato degli strumenti del mestiere, a sollecitare una comprensione della paura irrazionale, “existential anxiety” la chiama il dott. Dwairy, degli ebrei (non dice “israeliani”) in quanto tali, e a riconoscerla come una delle chiavi di volta per decifrare i comportamenti della “base” che vota per Sharon e che ha avvallato un processo di pace di tipo “neo-coloniale” (parole dello storico Shlomo Ben Ami, citate da Noam Chomsky, “The solution is the problem”, Guardian Weekly 16-23 Maggio 2002). Perché si arriva al cuore di tenebra della guerra in atto.

Perché di questa angoscia sento un’eco lontana anche in me. Io, nata in Italia alla fine del 1945, quindi a guerra finita, la cui famiglia non ha avuto vittime dei campi di concentramento, cui nell’infanzia sono stati trasmessi solo addomesticati i ricordi di famiglia più tristi,  non riuscivo a capire da dove venisse l’urlo immenso di terrore che mi scuoteva quando scavavo in me stessa, da dove scaturisse l’abisso innominabile che allora si apriva, finché non ho intuito che quell’urlo insopportabile scaturiva dal fantasma della Shoa, dall’infezione che quell’abisso mi stingeva addosso, che a causa di quell’urlo per anni non ero riuscita ad impormi di leggere libri di documentazione su di essa, che quell’urlo mi aveva impedito di mettere piede in un cimitero fino a 35 anni, e mi impedisce tuttora di visitare Auschwitz perché so che non ne uscirei viva. E’ questo timor panico, “angoscia esistenziale” assoluta che sfugge a qualsiasi altra spiegazione, che sento di aver cominciato ad “educare”, far venire fuori, dopo che ho messo piede in Palestina e in Israele, grazie anche all’incontro con le Donne in Nero italiane, senza le quali, forse, non avrei mai ardito mettervi piede. L’angoscia è diventata educabile quando sono arrivata a riferirla ad una storia collettiva, ad un passato agito da altri esseri umani con responsabilità concrete, passibile di riscatto nel presente e nel futuro attraverso azioni concrete.

L’angoscia della persecuzione può quindi essere ben reale, ben presente nel nucleo originario del vissuto fantasmatico anche delle “nuove” generazioni post-1945. Tom Segev, parlando di sondaggi realizzati in Israele con giovani i cui genitori provengono da paesi musulmani, afferma che questi ultimi “si considerano sopravvissuti della Shoa” (Tom Segev, Israele e la memoria dell’Olocausto).

Non credo interessi la sfera affettiva, ma quella cognitiva: si tramanda al di là dell’esplicito e del detto, si respira in casa, ci permea senza che ce ne rendiamo conto. E non riesco a non pensare che abbia a che vedere con l’aggressività e il militarismo dello Stato Israeliano (ciò che ovviamente non esclude altri fattori di altra natura).

Ma non basta. L’aggressività è spesso legata a un oscuro senso di colpa, una responsabilità che ci si rifiuta di ammettere. Allora vorrei avanzare un’altra ipotesi, sempre basandomi anche su esperienze personali.

Ho riconosciuto la mia stessa delusione e il mio stesso smarrimento nelle parole di  Ken  Schubert, ebrea americana risiedente in Svezia, autrice del manifesto ebraico svedese contro le politiche israeliane, che ha indirizzato una  lettera aperta rivolta al Rabbino Capo del Commonwealth Britannico Professor Jonathan Sacks  il 22 aprile del 2002:

“Caro Rabbino Capo, apprendo che Lei, a nome degli ebrei del Commonwealth, appoggia le attuali operazioni militari israeliane “con il cuore pesante”. La prego di scusarmi se la mia citazione non è esatta. Proseguo supponendo che tale citazione rifletta correttamente i Suoi sentimenti.

In quanto ebrea americana che risiede in Svezia, mi sento interpellata e le rispondo. Credo di esprimere ciò che provano molti ebrei nel mondo, il tipo di persone a nome delle quali Lei intende parlare (corsivo mio).

Rabbino Capo, anche io ho il cuore pesante. O piuttosto, per essere più precisa, ce l’ho da tempo. Ho il cuore pesante da quando scoprii nel 1963 all’età di 14 anni che la Palestina verso la quale la nostra gente era migrata non era una “terra senza popolo per un popolo senza terra”[1] e che centinaia di migliaia di Palestinesi avevano perso le loro case e la loro terra in conseguenza a questa migrazione…..”[2]

Si, ciò che esprime Ken Schubert riflette “ciò che provano molti ebrei”. I miei primi ricordi infantili legati alla Palestina (in casa si è usato per anni questo termine prima di adottare quello di Israele, dato che il fratello di mia madre era emigrato nel 1938, dopo le leggi razziali, in "Palestina" per poter continuare a studiare) sono di una cassetta verdina metallica con la stella di David appesa alla parete della sala da pranzo, dove noi bambine mettevamo ogni tanto degli spiccioli, “per comprare la terra” laggiù dove abitava lo zio, uno strano zio contadino in calzoni corti che abitava in un altrove che non riuscivo a immaginare, il cui tramite più concreto era rappresentato da quella cassetta.

Con cadenze regolari arrivavano lettere fitte in carta velina da posta aerea e qualche fotografia di pochi centimetri quadrati di zii e cugini sempre ritratti in  cornici di alberi e campi, il kibbutz, dove i bambini avevano le loro casette e non dormivano con i genitori. Li invidiavo.

In casa non si parlava mai di Palestinesi, ma solo di Palestina, e nella Palestina per me c’erano gli ebrei che vi si erano rifugiati per scampare al genocidio. Era la terra promessa da Dio agli ebrei, e tutto ciò nella mia mente non faceva una piega.

Durante la crisi di Suez del 1956 sentii nominare “gli arabi”, ma si trattava soprattutto di egiziani, ed io non capivo bene cosa c’entrassero con Israele (ormai dicevamo “Israele” all’epoca). Tutto si quietò e le lettere fitte e le fotografie continuarono a fluire regolarmente e a riempire i cassetti di alberi e fiori lontani.

Questo quadro idilliaco che mi ero formata nella testa durante l’infanzia e la prima adolescenza fu bruscamente spezzato, non  come per Ken Schubert a 14 anni ma durante i miei anni universitari, dopo la guerra dei sei giorni e il divampare della rivolta giovanile del 1968. Allora scoprii  che esistevano i Palestinesi, che erano stati cacciati dalla terra  che noi chiamavamo Israele, e che combattevano per riaverla. Fu allora che mi sentii colpevole, terribilmente colpevole e complice di questa ingiustizia storica, ma pur prigioniera della consapevolezza che dietro a quella ingiustizia stava un’altra gigantesca ingiustizia, una persecuzione che aveva rischiato di annientare anche me se i miei genitori  non fossero sfuggiti alle retate dei tedeschi. Era come se anche la mia vita  fosse stata salvata a costo della perdizione di innumerevoli altri. Essere ebrea allora significava essere colpevole.

Cercai di cancellare questa terribile contraddizione eliminando un corno del dilemma. Cercai di diventare “una compagna e basta”, ebrea o cattolica o buddista era la stessa cosa. In tutto il mondo uniamoci, l’internazionalismo non ha confini, i palestinesi avevano ragione come i vietnamiti, il nemico unico comune era il capitalismo e l’imperialismo…e Israele era la pedina dell’imperialismo in Medio Oriente. Semplice. Giurai a me stessa che non avrei messo piede in Israele  finché non fosse stata rimediata l’ingiustizia storica nei confronti del popolo palestinese. Attaccai manifesti dell’ FPLP alle pareti di casa. Quando finì l’ubriacatura del movimento, la “mia” questione israelo-palestinese fu anche messa tra parentesi, irrisolti i sentimenti di angoscia e  colpa legati ad una ebraicità che mi appariva svuotata di senso, un guscio vuoto, che continuava a pesarmi addosso nonostante la mia volontà di sbarazzarmene.

Ho cominciato a districare le fila di questo garbuglio soltanto da poco, da quando sono riuscita a vincere il mio tabù e a mettere piede in Israele e in Palestina, con grande fatica, grazie al mio incontro con le Donne in Nero, dicevo prima. E ho capito che la mia salvezza interiore, la riconciliazione del mio io diviso, il superamento dell’angoscia e della colpa e la possibilità di essere me stessa sono ostaggio della possibilità di salvezza del popolo palestinese, perché solo il superamento della loro catastrofe potrà riscattarmi dalla nostra e dalla mia catastrofe personale come eco lontana ma viva di quella collettiva.

Allora sospetto che anche nell’inconscio collettivo del popolo ebreo israeliano possa essere presente e inconfessabile la coscienza di un torto storico arrecato ad un altro popolo, e che la impossibilità di ammettere ciò pena la negazione (o appunto una radicale revisione) del proprio essere nazione provochi una reviviscenza dell’ “altra” negazione della propria umanità già subita, e risvegli il terrore di una sua ripetizione.

Credo che la porta stretta, che non è certo una indicazione di qualcosa di praticabile da subito, ma  una necessità del futuro, quando Sharon sarà ormai teschio tra teschi, e forse anche io che scrivo lo sarò,  sia la capacità della maggioranza degli israeliani e degli ebrei della diaspora di assumere su di sé non solo la responsabilità storica ed etica, ma personale ed esistenziale, della Nakba, così come la maggioranza dei palestinesi dovranno riuscire ad assumere  su di sé il peso immenso della Shoa e non chiamarsene fuori come  vittime designate di un disegno di potenza a loro estraneo. Nella loro immensa diversità, c’è una  specularità perversa  tra Shoa e Nakba, l’una ha portato all’altra, la memoria dell’una richiama l’altra. Gli Israeliani lo sanno, e forse il loro rimosso senso di colpa, di doppia colpa, di sopravvissuti e di oggettivi  usurpatori, li rende folli di terrore.

La creazione di uno Stato Palestinese sovrano come vittoria della lunga lotta di un popolo per esistere a pieno titolo tra altri popoli è l’unica soluzione che salverà israeliani ed ebrei dal  questo terrore panico e dal loro inconfessato e inconfessabile senso di colpa, che li porta ad aggredire e  aggredire ancora. La mummificazione della memoria è un oltraggio a tutte le vittime di tutti i tempi, la memoria salvifica è misura  e banco di prova dell’operare nel presente per rendere vivibile il futuro.

Dobbiamo tutti essere consapevoli che il Lager “..é il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione sussiste (corsivo mio), le conseguenze ci minacciano” (Primo Levi, Prefazione a Se questo è un uomo, Einaudi 1959).

 Ciò che è stato possibile può esserlo ancora, e lo è in nuce in ogni atto che veda nell’altro ein Stúck, un pezzo, Menschenmaterial, materiale umano, i termini usati dai nazisti per designare gli internati dei Lager, termini cui ho pensato leggendo che durante la carneficina in Rwanda gli autori del massacro chiamavano i Tutsi “gli scarafaggi”. Si nega al nemico l’appartenenza alla specie umana, lo si schiaccia come un insetto.

Le due Diaspore, palestinese ed ebrea, devono fare la loro parte anche su questo piano di autocoscienza collettiva e individuale, proprio perché geograficamente e psicologicamente  sono in grado di riflettere con maggior distacco, e forse possono loro stesse mostrare questo cammino di ri-considerazione delle reciproche storie e della storia comune. Credo che l’appoggio incondizionato alla propria “parte” come se la morte dell’una possa essere la vita dell’altra sia la rovina più sicura per entrambe.

Riferimenti Bibliografici

  1. Cases, Cesare, Un Ebreo non Ebreo, Il Manifesto, 18/04/02

  2. Chomsky, Noam, The Solution is the Problem, Guardian Weekly 16-23 Maggio 2002

  3. Desjeux, Dominique, Le sens de l’autre, UNESCO/ICA, 1984

  4. Dwairy, Marwan, On fear and honour in the conflict (???)

  5. Fornari, Franco, Psicoanalisi e cultura di pace, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole 1992

  6. Levi, Primo, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1959

  7. Morris, Benny, Vittime, Rizzoli, 2001

  8. Schubert, Ken Lettera a Jonathan Sack

  9. Segev, Tom, La memoria della Shoa

  10.  Warschawski, Michael, Carta 21-27/02/02

 

Viaggio in Israele e Palestina  30 giugno-13 luglio 2002

Stefania Sinigaglia

 

Arrivo  a Tel Aviv il 30 giugno alle 3 e mezzo di mattina.

Il figlio di mia cugina, Eshel, 22 anni, mi aspetta nella sala dell’aeroporto Ben Gurion per accompagnarmi al kibbutz Maabarot, vicino a Netanya. L’interrogatorio dei responsabili per la sicurezza è superato con facilità, dico che vado a vedere i parenti e ho anche un invito scritto. In macchina con Eshel chiacchieriamo intensamente, mi racconta della sua partecipazione a Ta’ayush, Vivere insieme, organizzazione mista arabo-israeliana (arabi israeliani, non palestinesi dei territori occupati).

I primi giorni nei due kibbutzim di Maabarot e Haogen con i parenti sono un’isola di calma irreale nella tempesta, prati spruzzati regolarmente alla sera, fiori, anziani che girano con le loro macchinette per i viali, una specie addomesticata di sidecars con motorini elettrici specialmente ideate per gli anziani dei kibbutzim, premi un bottone e vai, senza rumore, la sera nessuno sta fuori a godersi il fresco o le stelle, tutti dentro le casette come scatole con tv accese e aria condizionata a tutta birra.

Il dialogo politico con i parenti si rivela subito arduo: tutti erano con Barak e hanno sposato appieno la tesi accettata dalla maggioranza dell’ex “campo della pace” che è stato Arafat a dimostrare di non volere la pace rifiutando le offerte di Camp David nell’estate del 2000. Ora non c’è alternativa a loro avviso alla politica dura nei territori perché altrimenti gli attentatori suicidi si possono scatenare di nuovo e questo non è un prezzo che Israele può pagare. Il ritiro dai territori non è un’opzione a loro avviso, perché non servirebbe a niente, i palestinesi continuerebbero ad attaccare. Non c’è nessuno ora con cui trattare in campo palestinese, quindi in questo momento non c’è alternativa all’offensiva. E’ stato Arafat, con il suo rifiuto, a favorire l’ascesa di Sharon. Questa in sintesi la loro posizione, con variazioni che vanno sino all’apologia del militarismo israeliano più accanito.

Eshel è l’unico della famiglia (israeliana) impegnato nella sinistra radicale, o quella che qui è considerata tale. Inoltre nel kibbutz Haogen c’è Ruth Hiller, fondatrice e attivista di New Profile, organizzazione per la civilizzazione della società israeliana, con la quale ho qualche incontro (è la sorella della moglie di uno dei miei cugini) e che mi aiuta con i contatti per organizzare la mia “missione”, che è principalmente quella di presentare il piccolo gruppo di ebrei italiani contro l’occupazione (una rete in costruzione), ai movimenti e gruppi di israeliani pacifisti e anti-occupazione, oltre che se possibile andare in qualche zona palestinese e parlare con alcune persone di cui ho i riferimenti.

Il mio viaggio  negli Israele e Palestina reali  comincia solo il 4 luglio, giovedì, a Haifa. Vado al Centro Isha l’Isha, Haifa Feminist Center  (47 Hillel St, tel 04/8530159, 8510966), che esiste dal 1983. Il Centro ha una “identità arabo-ebraica”, come specifica il documento che Edna Zaretsky Toledano, una delle responsabili, mi fornisce, e promuove molte iniziative, tra cui una hotline contro la violenza domestica, una NGO femminista, Kayan, che si rivolge soprattutto alle donne arabe, un’altra NGO per l’empowerment attraverso attività economiche autonome; ha un centro di lettura ben fornito ed è collegato ad altre organizzazioni che lavorano per il rispetto dei diritti umani. Spiego ad Edna  che vogliamo mettere in piedi un network di ebrei contro l’occupazione, che ci proponiamo di rivolgerci alle Comunità ebraiche e di  metterne in crisi l’adesione acritica alle politiche israeliane qualsiasi esse siano. Ne è entusiasta, crede che sia importante l’appoggio della diaspora. Mi fornisce vari contatti, tra cui il numero di telefono di Ilan Pappe che però non riuscirò a vedere, quello di Marwan Dwairy, e di altri. Lei fa parte anche delle “donne in nero”, me ne racconta la storia in Israele, ora fanno tutte parte della Coalition of Women for Peace (zar@netvisionnet.il).

Parlo anche con due giovani attivisti di Ta’ayush.

Ta’ayush, mi dicono, è nata nell’ottobre del 2000, dopo l’uccisione di 13 arabi israeliani da parte della polizia in una dimostrazione di protesta. E’ nata prima a Tel Aviv e con contatti personali, poi si è estesa a macchia d’olio. E’ composta di militanti sia ebrei che palestinesi israeliani, e vuole rompere il muro che divide i due popoli attraverso attività concrete, quindi non fa in genere dichiarazioni o prende posizioni politiche, si concentra sull’azione. Con la chiusura dei Territori è difficile incontrarsi ora, e si organizzano principalmente dei convogli con aiuti che si portano fino ai posti di blocco. Sono quindi attivi sia a Gaza e nella West Bank che dentro Israele. Un’altra attività importante è nei confronti dei cosiddetti “villaggi fantasma”, cioè villaggi arabi dentro Israele, non riconosciuti, che non esistono su nessuna carta geografica. Quindi questi villaggi non hanno strade di accesso, non hanno servizi, non hanno luce né acqua, né tanto meno scuole o centri sanitari. Ce ne sono circa 40 di centri del genere. Hanno organizzato un campo di lavoro presso due di questi villaggi e hanno costruito una strada. Ora stanno lavorando alla strada per un terzo villaggio . Un altro campo di lavoro simile sarà organizzato in agosto. 10 dei loro militanti sono stati arrestati. In serata c’è un concerto per raccogliere fondi, mi invitano, ma preferisco partire per Gerusalemme.

Prima però mi fermo a Benyamina, sulla costa, per incontrare Diana Dolev, di New Profile, che ho conosciuto in Italia in aprile e che voglio salutare. Diana mi viene a prendere alla stazione ferroviaria (prima di entrare ed uscire da ogni stazione ovviamente bisogna aprire i bagagli e farsi passare addosso il congegno anti-armi, ciò rallenta ogni cosa e rischia di farmi perdere il treno).

Già conosco New Profile, di cui Ruth mi ha fornito anche la piattaforma, per cui parliamo un po’ di tutto, della situazione politica, ma anche di lei e della sua famiglia. Diana ha appena finito un PhD in storia dell’architettura  ma non riesce a trovare un posto, all’Università di Haifa le hanno offerto ora una piccola collaborazione, delle conferenze, poi si vedrà. Anche la figlia, che era presidente di un movimento interno al Meretz, partito di sinistra moderata e molto corteggiata politicamente per le sue capacità, da quando non è stata eletta nel 2001 è stata emarginata ed ora rischia di dover “emigrare” in Nuova Zelanda dove il marito ha avuto un buon posto. Ma lei vuole trovare qualcosa da fare in Israele per dedicarsi al lavoro politico dentro questo movimento che si chiama Kol Ezraheia, che significa sia “la voce dei cittadini” che “il corpo sociale totale”, con riferimento alla contraddizione tra corpo sociale ebraico e corpo sociale totale, incluso gli arabi israeliani. Hanno messo in piedi un giornale “sperimentale”. Hanno creato anche un’associazione ebraico-araba che si chiama Watchdogs, Cani da Guardia, i cui scopi sono : fermare l’occupazione, rafforzare la coscienza dei diritti civili, sensibilizzare alla partecipazione per difendere questi diritti. Hanno circa 30 membri attivi per ora.

Infine parto per Tel Aviv  e là prendo un autobus per Gerusalemme, che è pieno zeppo, con molti militari che con i loro fuciloni e zaini prendono un sacco di posto. Mi siedo vicino a una giovane signora russa e riesco a fare un po’ di conversazione, aiutandomi con l’inglese. Si chiama Julia, ha 43 anni, è programmatrice, ha 3 figli, il marito lavora al dipartimento israeliano di statistica  e si complimenta con me per il mio russo da autodidatta il che mi fa ovviamente molto piacere. E’ molto gentile, mi aiuta una volta arrivate ad identificare la fermata con l’autobus giusto. In genere gli israeliani non parlano inglese gran che e soprattutto NON sono molto cortesi per la strada quando chiedi informazioni, tutti sono molto diffidenti. Troverò i palestinesi enormemente più gentili e inclini ad aiutare, anche a fare svariate chiamate dai loro cellulari.

Cena con hummus e tahina ma birra dei Maccabei. Freddy è il proprietario di questo ristorantino a Jaffa Gate, si lamenta ovviamente di non avere clienti, di aver perso molti soldi. Effettivamente in giro ci sono soltanto sparuti gruppi di pacifisti, francesi soprattutto. In otto giorni a Gerusalemme non ho visto mai né turisti né pellegrini, il che è unico. Negozio una stanza all’Imperial per 20 dollari, proprio di fronte alla torre di David.

Venerdì 5 luglio.

Vado a Paris Square all’una, dove c’è il solito raduno delle Donne in Nero, attorniate dal solito gruppo di coloni, che mi sembra più nutrito di quello dell’anno scorso. C’è Gila Svirnsky e c’è Ronnie Hammermann che ho incontrato l’anno scorso, di Machsom Watch (Donne per i diritti umani, che a turno sorvegliano i check-points e negoziano come possono con i soldati la soluzione di alcuni casi e i vari soprusi). Ronnie é la moglie di Zvi Shuldiner, che scrive sul Manifesto e insegna non so in quale Università; mi invita alla cena di famiglia del venerdì sera.

Alle due raccogliamo le nostre manine nere e andiamo alla sede di Bat Shalom, dove c’è una riunione con un gruppo di pacifisti baschi in visita e una “strana coppia” israelo-americana, madre obesa e figlio ventenne, cittadini israeliani ma residenti negli Stati Uniti, che sono gli unici sopravvissuti per così dire di una delegazione  mista di 19 persone ebraico-musulmana-cristiana della Fellowship of Reconciliation, Interfaith Peace Builders, di cui 17  respinte all’aereoporto  di Tel Aviv, compresi gli ebrei. Rain e suo figlio sono cittadini israeliani e quindi non possono essere respinti. C’è anche Pnina Firestone di New Profile ( ma molte persone sono attive in più organizzazioni). Si presenta il lavoro di Bat Shalom con il Jerusalem center for Women, che è formato da donne palestinesi, lavoro concretizzato nel Jerusalem Link, oggi anche membro di una larga Coalizione di donne per una pace giusta, che comprende una decina di gruppi. Si presenta anche il lavoro di Machsom Watch, io dovrei andare al check-point di Betlemme la domenica mattina.  C’è anche una delegazione di donne greche della Federation of Greek Women, che ha finito una visita di vari giorni in Palestina e Israele.

Dopo la riunione nel pomeriggio incontro un rabbino anticonformista, Jeremy Milgrom, di origine americana anche lui, che fa parte di  un gruppo di rabbini chiamato Rabbis for Human Rights. Sono circa 100, quindi una isoletta in una marea di migliaia di rabbini ortodossi, Jeremy è tra i più radicali, dice che cercano di fare un lavoro politico-informativo sia nei confronti dei loro colleghi sia con i palestinesi. Stanno mettendo in piedi un Progetto di educazione speciale con i beduini di alcuni villaggi del Negev, c’è anche  là un problema di demolizione di case, per cui mi invita ad andare insieme nel Negev il mercoledì. Poi incontro Ofir, di Bet’selem, che è la più conosciuta delle organizzazioni che lavora  per i diritti umani, ed ha  field-workers pagati in ogni città palestinese.  Bet’selem vuol dire “A immagine”, il che è un riferimento alla frase della Genesi riferita alla creazione di Adamo “a immagine di Dio”.

Sabato 6 luglio partecipo ad un convoglio di 7 autobus ( e circa 330 persone) organizzato da Ta’ayush che si reca a Salfit, un villaggio  della West Bank a Nord, vicino alla colonia di Ariel. Salfit si è dotata di un nuovo Centro sanitario ma non ha attrezzature adeguate, quindi Ta’ayush è riuscito a procurare un ecografo, uno spettrometro ed altro materiale, che si va a consegnare. Durante il tragitto ci si ferma varie volte per delle sessioni di briefing e per trattare con i militari che ci scortano. Alla fine la negoziazione si rivelerà più agevole di quanto anticipato, addirittura si facilita il nostro incontro con il sindaco e varie autorità posticipando l’inizio del coprifuoco, che dovrebbe essere alle 3 del pomeriggio. Entriamo nel villaggio salutati da vari gruppetti di popolazione senza ostacoli, andiamo subito al centro, si scarica il materiale sanitario e converso con il direttore, Dott. Naim Sabra.

Il Centro, o ospedale come lo chiamano, ha un anno, l’ospedale più vicino è a Nablus che dista 25 km ma la gente ora non può più muoversi, quindi hanno ricevuto soldi  (donations) per mettere i piedi questo centro, che ha 8 letti, una sala per le emergenze, 8 dottori e 39 dipendenti. Hanno una sala operatoria ma manca l’attrezzatura, vogliono portarla qui da Ramallah.  Naturalmente dopo il coprifuoco ci sono problemi per il passaggio delle ambulanze. Il direttore  ci parla di molti problemi psichiatrici ( e non sarà il solo). Quest’anno hanno avuto 160 casi di feriti e 15 morti per ferite da armi da fuoco. La popolazione di Salfit è di 12.000 abitanti ma intorno ci sono 22 villaggi, quindi il bacino d’utenza è di circa 80.000 persone.

Dopo l’incontro all’Ospedale andiamo al Municipio, nuovo di zecca, nella sala delle udienze le sedie imbottite sono ancora coperte di pellicola di plastica, seguono vari discorsi ufficiali. Chi parla per Ta’ayush è Ghassan Gazali, che ho sentito parlare anche a Perugia e che ha il merito di avere condotto il negoziato con i militari con successo.

Ci sono vari francesi, parlo con una attivista di ATTAC (gruppo 33) che mi chiede l’appoggio della “nostra” rete per la campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani prodotti nella WB e Gaza che ad ATTAC vogliono lanciare in grande stile alla rentrée, prendo il suo e-mail (veronique.vilmont@wanadoo.fr).

Al ritorno Michael Warschawski  illustra alcuni punti cardine a suo avviso della fase attuale durante una pausa forzata  del rientro (ci mettiamo tre ore). 

Primo: oggi con l’esercito é stato possibile trattare e vincere, quando ciò non sarà più possibile sarà anche la fine della  speranza; secondo: scopo dell’azione di Israele è strangolare la società civile e soprattutto le migliaia di villaggi dove la vita normale diviene impossibile (anche questa constatazione mi sarà ripetuta più volte da persone palestinesi che incontrerò, e d’altronde …è talmente evidente) . Terzo: i palestinesi non hanno il potere di opporsi militarmente al piano Sharon di distruggere l’ANP e di “bantustanizzare” la  Palestina. Ha avuto successo la campagna che ha portato la stragrande maggioranza degli Israeliani a cambiare “l’état d’esprit”, facendo loro credere che i Palestinesi NON hanno voluto la pace e che la partecipazione ai negoziati di Oslo era un marchingegno fraudolento per cambiare i rapporti di forza. La stessa  campagna mistificatoria in tono diverso viene condotta in campo Palestinese (da chi vuole la guerra a oltranza): gli Israeliani non volevano la pace, era tutto solo polvere negli occhi per imbrogliarci.  L’iniziativa dei gruppi israeliani radicali di sinistra è molto minoritaria. Passa l’idea che la guerra d’Indipendenza del ‘48 non è finita, è stato un errore pensare di accontentarsi dell’armistizio del ‘48, ci vorranno ancora 50-100 anni di guerra (sic). Per 30 anni ci si è illusi di poter arrivare ad una normalizzazione, ma invece c’è stato lo shock del risveglio. “Gli arabi sono sempre arabi”, ci si deve sobbarcare “une guerre de survie pour l’éternité”.

In serata mi aggrego al gruppo di francesi che ha un incontro con Sergio Yani, co-direttore con Michael Warschawski dell’Alternative Information Center (AIC) di Gerusalemme. Sergio lavora da 10 anni all’AIC, che ha il compito politico di creare un legame tra le due comunità israeliana e araba. Quanti Stati ci devono essere in questo paese? Lavorano per creare spazi di incontro e sulle contraddizioni delle due comunità, sulle discriminazioni interne alla società israeliana, sollevano questioni sulla natura dello Stato di Israele, sulla segregazione della popolazione palestinese e le discriminazioni verso gli Israeliani di colore. Sergio Yani è andato 4 volte in prigione per aver rifiutato di servire nell’esercito. L’esercito è la spina dorsale di Israele e trampolino per una carriera in politica (come si è visto più volte). Il 1982 è stato l’anno cruciale: c’era una alternativa ma Israele ha scelto la guerra. Distingue tra assenteismo  vecchio stampo e attuale rifiuto dei refusniks. L’assenteismo ha avuto un culmine prima di Oslo, sensazione di assenza di futuro, guerra interminabile. Durante gli anni 90, di fatto solo il 30% dei riservisti  accettava di fare il mese di servizio militare annuale (fino a 42 anni si deve fare). Ma di nuovo nel 1999 si fa strada l’idea che non c’è altra scelta che fare la guerra, e dalla 2° Intifada ci si stringe intorno all’esercito, l’assenteismo è diminuito ma si rafforza l’idea del rifiuto, che è diverso. Il rifiuto è l’assunzione di una posizione consapevole politica, “a political statement”, una protesta contro l’occupazione. Invece recentemente  l’80% dei riservisti hanno accettato il servizio. Per il rifiuto, ci sono due possibilità di deferimento. Una è la Corte Marziale, dove si rischiano 3 anni di galera, l’altra è quella della Corte disciplinare che commina 35 giorni di carcere. Il movimento dei refuseniks vuole la Corte Marziale, perché loro sono sicuri di poter dimostrare l’illegalità dell’occupazione, ma invece il potere militare lo sa e per questo li deferisce alla corte disciplinare. Analogie con la situazione della guerra d’Algeria: gli israeliani possono vincere militarmente, ma SO WHAT??? Ciò non porta da nessuna parte. C’è il pericolo di una pulizia etnica, e d’altra parte anche lui ribadisce lo sbocco perseguito della creazione di enclaves, con un trasferimento di fatto della popolazione palestinese.

Ora i refuseniks sono 473 di cui 10 in carcere. Yesh Gvul è l’organizzazione più vecchia di rifiuto, risale alla guerra in Libano. In tutto oggi ci sono circa 600 persone che rifiutano  esplicitamente il servizio militare (Diana Dolev mi aveva parlato di circa 2000 che lo evitano per vie traverse).  Hanno un magazine che distribuiscono in 12000 copie ad Haifa, Gerusalemme e Tel Aviv (me ne dà due copie in inglese, News from Within). Telefono  di Sergio Yani: 057/255220, e-mail: sergio@alt-info.org

Domenica 7 luglio: in mattinata non riesco ad aggregarmi al Machsom Watch per ragioni logistiche, quindi vado a trovare il contatto fornitomi da Fiamma, Mohammed Al Rami, che sta dopo il primo check-point a nord di Gerusalemme a A-Ram. Lo raggiungo facilmente, facciamo una lunga chiacchierata. E’ appena tornato dall’Italia, collabora con Crocevia, lavora con il Land Research  Center soprattutto come interprete, e spera di poter lavorare da settembre a un nuovo progetto sempre con Crocevia.

Si sfoga, vita impossibile, lui non può andare né a Ramallah né a Gerusalemme, è confinato ad A-Ram. Crescono a macchia d’olio le colonie nella WB e Gaza, facciamo un calcolo della densità per abitante a  Gaza, 5555 abitanti /Kmq ( 1200000 persone nel 60% di 316 kmq), nel restante 40% ci sono 5000 coloni.

In questa Intifada hanno distrutto 6000 ettari di terreno e sradicato 500000 ulivi.

Incontro anche Mr Sameer Amr che lavora con il CESVI e dirige il Palestinian Center for Microprojects, con finanziamenti EC, avevano un progetto di 12 kindergarten con il CESVI. Hanno ora in ballo 52 proposte di microprogetti da parte di organizzazioni di base, 18 avranno i fondi (sempre europei). Hanno avuto difficoltà, per un anno l’ufficio centrale a East Jerusalem è restato chiuso, poi hanno dovuto licenziare 3 dipendenti perché non potevano muoversi di casa. Ora sono in 9 come staff totale, incluso i nuovi assunti.

Nel pomeriggio di domenica telefono a Manuela Dviri e a Adam Keller di Gush Shalom, e combino di andare a trovarli a Tel Aviv. Arrivo a Tel Aviv alle 4, caldo bestiale fuori, freddo bestiale in autobus. Chiedo ad almeno 10 persone come arrivare a casa di Manuela, finalmente un piccolino che parla un po’ di francese mi scorta fino alla strada giusta, accidenti all’ebraico. Quando suono alla porta mi si gela il sangue nonostante il caldo, nessuna risposta. Insisto e finalmente apre un filippino con aspirapolvere, Manuela arriva tra poco, mi siedo. Infatti arriva dopo 10 minuti, andiamo al bar mentre il filippino finisce le pulizie, facciamo una chiacchierata generale, anche a lei racconto della nostra rete futura, lei consiglia di darci soprattutto da fare per raccogliere soldi con iniziative varie per le organizzazioni pacifiste, tra cui i Physicians for Human Rights, di cui non riesco a vedere nessuno, mi sono dimenticata di copiare un numero di telefono che avevo ad Ancona.

Mi fa leggere una lettera di insulti di quelle che riceve, come Luisa Morgantini, a palate,  e un articolo che manderà al Corriere della Sera. Ok ci terremo in contatto. Intanto mi scrive le indicazioni per arrivare a casa di Adam e Beate Keller che abitano un po’ fuori Tel Aviv in un centro che si chiama Holon. Arrivo in ritardo verso le 7. Casa surreale e simpaticissima, zeppa di giornali e libri in gioioso disordine, con ogni cm2 di parete disponibile dell’appartamento tappezzata da un mosaico accurato di ritagli anche vecchissimi, compreso gabinetto, bagno e cucina.  Beate è efficientissima, mi stampa varie cose tra cui la loro lista completa di links di organizzazioni, preziosissima, e l’indirizzo di chi organizza la riunione di agosto di “ebrei contro” ad Amsterdam, che parla anche italiano (suo ex marito). Adam racconta varie peripezie tra cui le sue prigioni, e il fatto che dopo vari rifiuti di servizio militare è ora bollato come “lunatic” per cui se chiedesse la patente non gliela darebbero. Tra una cosa e l’altra gli racconto di come siamo nati (sempre la stessa solfa), e anche dell’episodio recente del Ghetto/ Agnoletto/picchiatori. E’ molto colpito, telefona  ad un suo amico che all’inizio mi dice di Ha’aretz, poi si rivelerà di una organizzazione per i diritti umani e contro la tortura, mi chiede una intervista, e la faremo in faticose riprese per telefono, promette di mandarmela (intervista in cui dico sempre le stesse cose, che vogliamo mettere in piedi una rete ecc…, menzionando come etichetta provvisoria Jews against the Occupation). Cena divertente con Adam e Beate con classico falafel in un fast food.

Lunedì 8 luglio: alle 10 incontro Sergio Yani all’Alternative Information Center, presento anche a lui lo scopo del mio viaggio, rete eccetera, mi ripete un po’ le cose dette la sera di sabato, mi dà del materiale, News from Within appunto, e gli dico che appena avremo qualcosa di più concreto lo comunicheremo (spero presto, una sputtanata notevole altrimenti ed energie sprecate).   Vado poi di nuovo a Beit Hanina, nel palazzo dove ha l’ufficio Mohammed c’è anche il Jerusalem Center for Women che lavora con Bat Shalom, quindi telefono e prendo un appuntamento per le 12.30.

Andando verso Damascus Gate, a King George St, al n.17, c’è una vetrina tutta piena di messaggi di bambini americani ebrei per Israele, grandi “I love Israel” col cuore in mezzo, disegni, e vari testi, tra cui copio questo: “ Our thoughts, our prayers are with you. Dear Israel, I have heard about your troubles and I am very sorry (faccina triste come da computer). Just remember to just always have hope and never give up. We love you Israel. Erin Holland, Age 11, Congregation Bnai Emet, California.” Il tutto condito da bandierine con stella di David.

Nel taxi collettivo  da Damascus Gate a Beit Hanina mi si siede vicino una signora piuttosto elegante, parla inglese, va a trovare parenti di East Jerusalem, mi dice cupa: “Arabs live in hell”. A una mia domanda su dove abiti, risponde: “My family have lived here for 5 hundred years”.

Al Jerusalem Center for Women incontro Amne Badran, che ricordo avere già incontrato l’anno scorso con Zahira Kamal, e che è venuta a Perugia in maggio. Mi parla della decisione presa con Bat Shalom di scrivere alternativamente per la stampa ogni mese un testo da pubblicare, le palestinesi si rivolgono alle donne Israeliane e viceversa le Israeliane alle Palestinesi. L’ultima lettera è uscita il 5 giugno, era di Bat Shalom, è comparsa su Al Quds. Cercano di costruire un network di donne per la pace anche a livello internazionale, ed hanno attività all’interno del Jerusalem Link, che appunto è formato da loro a Bat Shalom. Hanno membri attivi soprattutto a Gerusalemme, gestiscono programmi di training per i diritti umani e democrazia e per il lobbying. I programmi di training durano in genere un anno. Sono appoggiate da NGO’s americane e europee. Hanno anche un training  sul counseling a donne traumatizzate dalla aggressione israeliana (come documentare i casi incontrati, come appoggiare le donne e come sviluppare le loro risorse interiori). Questo ultimo training dura 6 mesi, già hanno coperto 3 gruppi. Ora appoggiano le famiglie dei prigionieri politici.

Barbara Agostini le ha aiutate in giugno a redigere il loro rapporto 2001. L’incontro dura mezz’ora, ha molto da fare, si scusa per la fretta. Ringrazio per avermi ricevuta così senza  preavviso.

Infine, alle 5.30 nel pomeriggio vado al teach-in di New Profile, allo Schmuel Center, allo Hebrew Union College, dietro King David St. Ci sono più di 30 giovani che hanno dubbi sul servizio di leva e due militari (uno mi dirà Ruth Hiller era in borghese). Recentemente ne hanno fatti di simili a Haifa e Tel Aviv. C’è anche Rela Mazali con una americana che sta tornando da Gaza dove è stata con l’International Solidarity Movement per una settimana, Penny. Dopo che Ruth e Pnina hanno introdotto il workshop, parla per dire ciò che ha visto la settimana scorsa a Gaza. Ogni giorno l’orario del coprifuoco cambiava. A Gaza c’è la spiaggia ma i bambini non ci possono più andare. Un venerdì si sono resi conto che 9 nuove case a Rafah erano state demolite. Sono andati a vedere, resti sparsi dappertutto, biberon, abiti sparsi, quaderni di scuola. Questo perché le case sono a 100 mt dalla frontiera con l’Egitto, demolite per “security reasons”. Una casa si era salvata, c’era un bambino di due anni, che aveva paura di tutto, non riusciva più a parlare. I soldati chiudono e aprono il check-point come pare a loro. Ad un certo punto hanno chiuso per 2 ore. Penny dice che non controllano neppure le automobili, quindi è solo puro desiderio di ostacolare il movimento e umiliare. A volte non guardano i documenti d’identità (ma io ai check-points ho sempre visto controlli ai documenti veramente). Per chi volesse contattarla: penro@aol.com

Il teach-in dopo l’introduzione contempla riflessione e brainstorming in piccoli gruppi, per poi tornare al plenario. Pnina mi fa una traduzione in inglese ogni tanto di ciò che si dice ma bisbiglia e non seguo. Quindi alle 8 me ne vado. Poi Ruth mi dirà che ha avuto molto successo, c’era anche una madre, e lei riceve sempre più telefonate da genitori che si informano sulla obiezione di coscienza e il rifiuto di fare servizio militare. E’ abbastanza ottimista Ruth, forse l’unica  ad essere tale delle persone che ho incontrato.

Martedì 9 luglio:  vado a Ramallah il mattino presto con taxi collettivi. Per entrare a Ramallah ce ne vogliono tre, i due check-points si passano a piedi. L’informazione era che ci fosse sempre coprifuoco fino alle 9, invece oggi non c’è, così arrivo in centro alle 8.30, ma è come se ci fosse coprifuoco, tutto è assolutamente chiuso e sbarrato, in giro non c’è nessuno, non ho mai visto una città araba deserta di giorno, è impressionante. Una impiegata di banca che era in taxi con me mi accompagna all’indirizzo che ho, si tratta di un negozio di artigianato, mi è stato dato da una ragazza che ho incontrato in albergo, le ho detto che sarei andata a trovarla, più come pretesto che altro per andare a Ramallah e parlare con dei palestinesi di lì. Un altro contatto che ho è con Bet’selem, ma non ho il nome né numero di telefono del field-worker e telefonare all’ufficio di Gerusalemme di Bet’selem si rivelerà impossibile, le linee funzionano male.

Faccio un giro, comincia ad apparire gente dopo le 9 e in pochi minuti la strada brulica e i negozi sono aperti. Nella piazza con i leoni, chiamata Al Manara, pendono cartelli scritti dai pacifisti internazionali: “What you are doing is a war crime”, e cartelli simili. Torno al negozio, è ancora chiuso, vado in un altro negozio aperto, chiedo di poter telefonare, così raggiungo la ragazza che mi ha dato il biglietto da visita il giorno precedente, Hiam, che dice che sta arrivando. Quando arriva chiacchieriamo, ha aperto il negozio da 3 anni e  andava bene, ora ovviamente non vende più nulla, la gente viene solo per parlare un po’. Lei si ritiene fortunata perché è residente a East Jerusalem e si può muovere.  Si ricorda che le cose a Ramallah sono precipitate l’11 di marzo, perché era il suo compleanno. Ci sono stati 3 giorni di coprifuoco. Poi finalmente i soldati se ne sono andati ma si sono spostati in un campo di rifugiati, Am Hari camp. Poi sono ritornati il 28 marzo e  sono restati per 25 giorni. A Pasqua lei era andata a Haifa  per le feste, ma non è potuta rientrare a Ramallah che alla fine di aprile. Mi racconta di una coppia di amici palestinesi di Giordania che è venuta a lavorare a Ramallah  da Amman 4 anni fa, hanno il passaporto scaduto, ora lui lavora in nero e non si può muovere, così sono 2 anni che stanno inchiodati qui.

Le cose che sono esposte sono molto graziose ma non ho un soldo, le dico che non posso comprare nulla. Sorride, mi offre un the alla menta, e poi cerchiamo di raggiungere Bet’selem, ma niente da fare. Allora telefona ad un’organizzazione che si chiama Al Haq, un’altra associazione solo araba che si occupa di diritti umani, e mi prende un appuntamento per subito con un responsabile, Mr Shawan Jabrin, e mi ci accompagna . La ringrazio molto.

Shawan arriva subito, è molto occupato, ma parliamo una mezz’ora.  Al Haq è stata fondata nel 1979, ha per mandato il rispetto delle leggi umanitarie internazionali, in particolare sorvegliare sul rispetto della 4° convenzione  di Ginevra nei Territori Occupati, è affiliata al Comitato Internazionale di Giuristi di Ginevra. Operano in varie aree, confisca di terre,  demolizione di case, detenzioni arbitrarie, bastonature, assassinii, Dagli anni 80 hanno un data base, sono la maggior organizzazione nel campo e sono stati anche i primi ad operare. Un website è ancora in costruzione. Durante la 1° Intifada erano in 35 persone nell’ufficio, ora sono 24,  alcuni sono volontari, hanno 6 field-workers in tutti i ditretti della WB. I field-workers sono molto importanti, prendono le testimonianze legali. Dopo le segnalazioni fanno ricerche, poi compilano rapporti, educano la gente su ciò che succede, sulle violazioni sistematiche dei diritti umani. E-mail di Al Haq: haq@alhaq.org

Hanno buoni rapporti di lavoro con Hamoked, un’organizzazione che ha gli uffici a Gerusalemme Est, qui c’è oggi una persona di questa organizzazione quindi la posso incontrare. Durante la 2° Intifada lavorano soprattutto sulla chiusura dei villaggi/città, e hanno messo in piedi una campagna per finirla con la confisca  arbitraria dei documenti di identità. Shawan mi da un sacco di documentazione, tra cui un Rapporto sui Diritti Umani del 1989 che lascerò come ricordo al direttore del New Imperial perché pesa 3 kg per lo meno, ora sono carica come un somaro.

Poi incontro Ms Maisa di Hamoked (che significa: “il nocciolo della faccenda, l’essenziale”). Hamoked lavora solo con i palestinesi dei territori occupati, e-mail: mail@hamoked.org.il

Hanno 5 avvocati, e documentano soprattutto casi individuali, aiutano i singoli nelle denuncie, li sostengono psicologicamente. Così risalgono alla situazione generale a partire da casi particolari, Lavorano ad esempio con le riunificazioni familiari, i permessi di viaggio, le detenzioni (che a volte si trasformano in arresti: non mi sa dire quanto tempo può durare la detenzione prima di formulare un’ accusa precisa). Ora hanno un nuovo progetto in piedi, una hotline per la gente che soffre ai posti di blocco (dice così), i malati che non lasciano passare. Lavorano in contatto con Physicians for Human Rights.  Mi dice di contattare la direttrice, Dahlia, per ulteriori informazioni (cosa che farò il venerdì).

Ritorno a Gerusalemme con un lungo giro di taxi collettivo per stradine sterrate, aggirano Khalandia, ma poi mi scaricano su una collinetta, per prendere l’altro taxi devo scendere la scarpata e risalire, un casino con tutti questi libri, l’acqua, la macchina fotografica, lo zaino, c’è un passaggio tra il filo spinato, ma c’è chi sta peggio di me, trasporta valige. Mi inerpico e sono dall’altra parte dove aspettano altri taxi, poi mi faccio parecchia strada a piedi e sono di nuovo al check-point di Beit Hanina, altro passaggio e altro taxi, sono quasi le 1.30. Arrivata alla porta di Damasco mi avvicino ai telefoni pubblici per telefonare, sento degli spari che vengono dalla città vecchia, poi subito camionette e gente che corre, dopo un po’ arrivano anche poliziotti a cavallo che mi fanno veramente paura, così raccatto in fretta la carta telefonica e risalgo verso la porta di Giaffa. Poi il giorno dopo saprò dal giornale Ha’aretz che c’è stata una sparatoria, un poliziotto che controllava un “tipo sospetto” è stato ferito, ha risposto al fuoco e ha ammazzato un “bystander” di 70 anni.

Il tipo sospetto è stato arrestato.  E’ un trafiletto, ordinaria amministrazione.

Il pomeriggio  alle 4 mi precipito in taxi dopo uno stralunato riposo di mezz’ora (alle 3 ho concluso l’intervista con l’amico di Adam Keller al telefono) all’Università di Monte Scopus dove mi aspettano Ronnie, la moglie di Zvi Shuldiner, ed altre 3 donne di Machsom Watch, tra cui una nuova adepta  Aia abbastanza giovane che si è unita a MW dopo una conferenza a tel Aviv la settimana prima. Si va di nuovo a Beit Hanina,  il tipo di un bar dove mi sono rifocillata spesso esce e mi guarda un po’ stupito, è la 7° volta in 3 giorni che mi vede passare e la  3° volta oggi, forse pensa che sono un po’ tocca. Ad un altro bar ci aspetta il fido Arafat, l’autista palestinese che appoggia le spedizioni di MW e consiglia su quali siano i  check-points più “cattivi” da monitorare.  Questo cui stiamo andando è a circa 3 km da Kalandia, a est. Andiamo prima a vedere che accade da sotto il ponte (sul ponte c’è il posto di blocco), dal villaggio di Jabaa, che è isolato da tempo. L’unica strada di accesso è sbarrata da un mucchio di terra come al solito, sopra la gente ci ha tracciato un sentierino, ma niente macchine, tutti i pesi o valigie vanno trasportati a mano. Risaliamo e andiamo a piedi al posto di blocco contando  i veicoli in fila, ne contro più di 40, compresi camion e un autobus. Vicino c’è una by-pass road e la colonia di Adam, si vedono sulla collina le casette ben allineate. Le macchine israeliane passano dalla by-pass road e si infilano nello svincolo subito dopo il check-point, semplice e scorrevole il traffico. Invece sul tratto di strada palestinese che va da Kalandia allo svincolo stai fermo un’ora, forse più e forse meno. Quando arriviamo c’è una fila di uomini fermi appoggiati al gard rail, uno poi ci dirà che è lì dalle 2, cercavano di passare dalla scarpata e i soldati li hanno bloccati. Anzi, ad uno di questi un soldato butterà via il documento di identità, c’è vento forte, il poveraccio è costretto a cercarlo in mezzo ad una scarpata piena di pietre e sterpi, e non riesce a trovarlo. Le compagne di Machsom Watch riescono a convincere il responsabile del blocco a telefonare al suo superiore per avere l’autorizzazione a emettere un certificato che attesti che il documento di identità di XY è stato “smarrito”. Finalmente i 4-5 uomini riescono ad andarsene, ringraziano, scambiano numeri di telefono. Poi raccogliamo vari pezzetti di quelli che sembrano documenti strappati, alla chetichella, da cassette di cartone con gli scarti dei pasti dei soldati. Aia è particolarmente abile nel distinguere questi piccolissimi brandelli di carta  con i caratteri in arabo in mezzo alla spazzatura e alla polvere.

Quando, finalmente arrostite ben bene, ci avviamo per tornare verso Beit Hanina, alle 7 di sera, vediamo 3 giovani fermi ai lati della strada, vicino al check-point di Kalandia, con i soldati di fronte, uno di questi ragazzi ha i polsi legati con un legaccio bianco. Un soldato si avvicina con un coltello, gli spezza il legaccio. Ci avviciniamo. Sono appena stati liberati da un vicino campo di detenzione dopo varie settimane, ma non hanno un documento che attesti che sono GIA’ stati controllati e trovati “puliti”. Così si torna indietro, perché devono passare il check-point “cattivo” e si sospetta che verranno fermati. Infatti le mie compagne parlamentano per un’ora prima di riuscire a convincere i soldati a lasciarli passare. Ronnie commenta amara: li fermeranno al prossimo.

Sono le 8 di sera, torniamo a Beit Hanina, le altre si fermano per mettere a punto a caldo il rapporto per l’organizzazione, io procedo verso Gerusalemme, anche perché dopo 4 ore di lingua ebraica al sole ho la testa che ronza. Ronnie mi promette un riassunto in inglese.

Mercoledì 10 luglio: mattina riposo salutare (salto un possibile incontro con Karin di Ta’ayush), ma all’1.30 telefono a Jeremy dei Rabbi’s for Human Rights, si va a Ber Sheva alle 2 per una riunione con popolazione beduina di Hura, villaggio dove c’è stata una demolizione di casa qualche giorno fa.  E’ la zona dove vogliono mettere in piedi questo progetto di educazione speciale.

Jeremy si è procurato una vecchia macchina senza aria condizionata, ne sono felice. Con lui c’è anche Shulamit, che studia per diventare rabbina, è molto bella, di origine afgana e di nazionalità britannica. Simpatica ma politicamente un po’ tiepida. Discutiamo del boicottaggio accademico: Jeremy ed io siamo d’accordo per il boicottaggio di quegli accademici israeliani che ignorano la situazione disastrosa dei palestinesi e l’oppressione israeliana, lei è incerta anzi contraria (proprio la sera di mercoledì chiuderanno gli uffici dell’Università Palestinese di Al Quds e ci sarà una veglia  di protesta, ma noi arriveremo troppo tardi da Ber Sheva per parteciparvi, e poi non ne sapremo niente fino al giorno dopo).

Arriviamo a Hura, c’è una grande tenda scura e la gente (uomini) che arriva pian piano, tappeti sulla sabbia, ci sediamo. Shulamit ed io notiamo immediatamente che non c’è neppure una donna locale, neppure una. Ma ci sono molti ragazzini, tutti maschi ovviamente. Di ebrei israeliani c’è un professore di Ber Sheva e un americano che fa un PhD in loco e capisce bene l’arabo. Così scrive appunti di ciò che sente in inglese, sbirciando di traverso riesco a scrivere qualcosa pure io. Gli interventi sono numerosi, molto accalorati. Dietro ci sono le macerie della casa distrutta. E’ indetta una manifestazione per le 10 di mattina del giorno dopo a Ber Sheva davanti agli uffici del Ministero degli Interni. Jeremy parla, è applaudito, sembra commosso. Si ferma per la notte in modo da partecipare alla manifestazione, Shulamit ed io siamo accompagnate da uno dei partecipanti alla stazione degli autobus di Ber Sheva. Il nostro accompagnatore parla ebraico, e spiega a Shulamit che era sua la casa distrutta. Qualche notte fa alle 4 di mattina ha sentito un grande rumore, era con 4 dei 10 figli in casa, sono scappati di corsa fuori. Nessun preavviso: la giustificazione è stata che la casa era costruita fuori dal perimetro delle altre case. La casa c’era da 3 anni, era un po’ isolata. Il tipo è un costruttore edile, ha un’enorme Toyota (sulla quale viaggiamo) e non è certo un poveraccio….avrà i soldi per rifarsela, almeno quello, penso.

Prima delle 10 di sera siamo alla Central Bus Station di Gerusalemme, compriamo 3 pizze e andiamo a mangiarcele a casa di Shulamit, dove  abita con Judith, anche lei inglese, che studia composizione. Perché è venuta a studiare musica proprio qui? Dice: I love Israel, ribatto che io invece no, non lo amo, tanto meno in questo momento.

Giovedì 11 luglio: mi alzo presto e vado a Damascus Gate per recarmi a Hebron. Ho un appuntamento con  Zahi Jaradat, che è il field-worker di Al Haq al check-point di Beit Ainun (fonetico). Aspetto dalle 7.20 fino alle 8.45 che il taxi si riempia, cerco di mettermi d’accordo con le  5 donne che aspettano con me perché acconsentano a pagare 10 shekels, io metterò 50 shekels, per partire subito, ma l’autista non accetta, vuole tutti i suoi 130 shekels, io non voglio metterci 80 shekels e quindi si aspetta. Capirò poi che la gente sapeva che c’era coprifuoco e quindi  nessuno partiva. Quando arrivo al check-point sono le 9.30, e c’è una ambulanza ferma. Dentro ci sono due donne incinte, un bambino con un braccio fasciato e una vecchia che deve andare a fare dialisi. Parlo qualche minuto con l’infermiere accompagnatore, dall’altra parte arriva un’altra ambulanza, mi salutano, si avviano oltre il solito mucchio di terra che sbarra la strada. Non ho capito se vadano all’ospedale di Hebron o in un altro centro. Intanto cerco di telefonare da un cellulare gentilmente prestatomi da una persona che è lì ferma, così dopo qualche minuto arriva Zahi.

Zahi ha lavorato per Al Haq dal 1983 al 1997, poi ha interrotto e ha ripreso solo nell’ottobre 2000. Mi spiega che uno dei suoi compiti principali nell’area riguarda  il monitorare e denunciare la demolizione di case. Le ragioni addotte sono: niente licenza, ragioni di sicurezza, sospetto di infiltrazioni di feddayin. Anche scuole sono state distrutte o danneggiate, come una scuola costruita con fondi giapponesi. Da due giorni e due notti c’è coprifuoco ininterrotto e non si può entrare a Hebron. Si vede la by-pass road sotto, e i sobborghi irraggiungibili di Hebron sulla collina di fronte.

Andiamo in macchina  al villaggio vicino di Seir, 20.000 abitanti, tra Hebron e Betlemme. Mi porta a casa di un  ex insegnante di inglese, Mr Faroukh Ahmed, che ha una bella villetta piena di rose di fronte alla by-pass road. E’ molto amareggiato ovviamente, anche se riconosce che lui è privilegiato,  ha abbastanza da vivere con la sua famiglia. Vicino ci sono le colonie di Kharsina e quella storica di Kiryat Arba, che è nata subito dopo la guerra del 1967 ed è stata la prima nella WB. Dice che per andare dalla parte sud della città di Seir  al quartiere occidentale devono fare tutto il giro da fuori, perché la strada diretta è solo per gli ebrei e collega anche 3 piccole nuove colonie. Quindi devono fare circa 4 km di strada sterrata. Mi fa vedere le sue preziose riserve di acqua: solleva una botola tonda sul pavimento della sala, guardo dentro, c’è una cisterna sotterranea. Poi fuori c’è un altro pozzo. Dice orgoglioso che ha fatto tutto lui. Mi offre frutta e caffè, mi presenta i vari figli. Ringraziamo e salutiamo. Andiamo al villaggio accanto che si chiama Al Shloukh, 8000 abitanti. In questo villaggio vive un medico, Dr Sharif Al-Halayqa, pediatra, che ha studiato in Italia e ha la moglie italiana. Lavora quando lo fanno passare all’Alia Hospital di Hebron. Però come a Salfit anche qui hanno cercato di rimediare alla impossibilità di recarsi in ospedali esterni quando c’è coprifuoco costruendo un Centro Sanitario.

Andiamo alla villa del dottore, è molto grande e comoda, con un bel giardino. La moglie, Marcella,  ci viene incontro, è vestita all’araba con il fazzoletto chiuso sotto il mento, ma parla italiano con accento vagamente romanesco ed è gentilissima. E’ lì da 20 anni, dice che all’inizio è stata dura, il villaggio era piccolo e isolato e non si trovava niente. Ora si trova tutto, ma ci sono altre difficoltà. Loro stanno bene per fortuna, ma cercano di aiutare varie famiglie ridotte sul lastrico comprando sacchi di farina e altre cose e distribuendoli. So che uno dei doveri del buon musulmano è la zakhat, l’elemosina annuale, che consiste nel 2,5% del proprio reddito e nel dare il 10% dei prodotti della terra. Arriva il marito, mi porta a visitare il centro appena costruito. C’è un bambino di pochi mesi con la flebo, casi di disidratazione di 3° grado mi dice. Hanno l’ecografo ma sentono molto la mancanza di un apparecchio per radiografie anche usato, e una macchinetta per fare l’emocromo (blood count).  Il sistema che usano non è preciso.  Nella sala-parto una donna in travaglio passeggia su e giù con la madre. Hanno 4 medici, 4 infermieri e un’ostetrica 2 volte alla settimana. Il centro è stato costruito con fondi provenienti da banche islamiche. Poi mi portano a vedere i resti di quella che era la centrale telefonica, rasa al suolo dalla dinamite qualche settimana fa. Intorno le case sono tutte danneggiate, inabitabili. Le macerie sono state sgomberate, rimangono le lunghe dita contorte di tondino superstite  che spuntano dal cemento delle fondamenta. Ho finito il rollino della macchina fotografica, accidenti.

Ormai è ora di tornare a Gerusalemme, ma scopro che non ci sono più taxi collettivi diretti, devo andare a Abu Dis che non so bene dove sia. Per fortuna arriva un taxi privato da Gerusalemme, delle donne scendono e pagano, Zahi coglie al volo l’occasione, parla con il tassista che acconsente a portarmi a Gerusalemme per soli 10 shekels. Saluto e partiamo, credo di essere a cavallo ma…. Ad un certo punto vediamo due ragazzi che fanno l’autostop e il tassista si ferma e li carica dietro. Dopo qualche minuto, check-point! Ci fanno fermare, controllo documenti, i due ragazzi vengono messi da parte, idem per il tassista che non può ripartire. Parcheggia a lato della strada il taxi. Io sono libera di andare…a piedi. Protesto, questo era il mio taxi, niente da fare, ad un certo punto vedo un soldato che fa inginocchiare uno dei ragazzi, ha il fucile sollevato. Brrrrr. Per fortuna poi i due ragazzi vengono rilasciati, io non so che fare. Il tassista bloccato vede arrivare al check-point un taxi vuoto cui viene dato il permesso di passare, va a Gerusalemme ed acconsente ad accompagnarmi.

All’arrivo scendo e ringrazio ma il tassista mi chiede con mia sorpresa di essere pagato! Riesco a dargli solo i 10 shekels pattuiti con l’altro, prima faceva molto il solidale internazionalista, ora è un po’ incazzato per aver aiutato una international pezzente. Mah, “…il y a le bon et le mauvais partout”, dicevano gli algerini che mi davano passaggi quando facevo l’autostop in Algeria nel 78, con la mia amica Lucia.

Potrei averne abbastanza, ma telefono a Pnina Firestone di New Profile e combino una visita di commiato a casa sua. Pnina è attivissima pur essendo paralizzata su una sedia a rotelle da non so quanti anni, e mi dà un ottimo consiglio, di spedire tutto il materiale di Al Haq per posta per evitare storie all’aeroporto. Così faccio il venerdì mattina, poi ho un incontro con la direttrice di Hamoked, Center for the Defense of the Individual, Dalia Kerstein, all’American Colony Hotel, sempre molto accogliente e piacevole. Sedute in giardino mi racconta ciò che fanno. E’ molto orgogliosa di questa ultima iniziativa, la hotline che ora funziona  8 ore al giorno per 7 giorni ma presto funzionerà 24 ore su 24, per aiutare la gente bloccata ai check-points. Dice che l’anno passato c’erano stati pochi episodi di coprifuoco, ora è la norma. “Last year it was bad, now it’s worse, it seems there’s no limit”. Anche i bisogni della gente sono cambiati: evacuare i cadaveri, far arrivare la gente in ospedale,  un ospedale psichiatrico a Betlemme era senza cibo né medicine durante l’assedio. Mi racconta il caso di una famiglia  (mi pare a Betlemme), che a causa del fuoco incrociato che non mirava la loro casa specificamente hanno avuto le pareti distrutte. Non solo, la nonna e il padre sono stati uccisi, gli altri erano tutti rifugiati in bagno. Volevano portare fuori i cadaveri, ci sono voluti due giorni di mediazioni e discussioni con il comando militare. “This is war”.  Altro caso. A Jenin una famiglia era viva sotto le rovine della loro casa. Telefonano. Si fa di tutto per raggiungerli, ma non ci si riesce. Dalia dice che gli israeliani hanno le squadre di soccorso meglio addestrate al mondo per le emergenze terremoti. In Turchia si sono precipitati, tutti erano molto tronfi dei loro successi. Ma a Jenin niente ha funzionato. Quando infine sono arrivati i soccorsi per la famiglia sepolta viva, non c’era più niente, tutto era stato spianato.

Anche la chiusura dei villaggi è un danno enorme all’economia e alla sopravvivenza dei palestinesi. Non si possono vendere gli ortaggi, fare visita ai parenti, ogni cosa è bloccata, la vita è bloccata. A volte la gente cerca di passare per collinette, ma se la jeep li vede sono presi a fucilate.  Vogliono uccidere ogni forma di vita normale, dice Dalia.  Hamoked esiste dal 1988 ed ha 25 lavoratori e volontari.

Saluto Dalia e vado all’ultimo incontro qui a Gerusalemme, con Ronnie, con cui poi andiamo a Paris Square, per la consueta manifestazione delle Donne in Nero (e dei coloni). Oggi siamo poche, mi dispiace, io posso restare solo qualche minuto, ho un autobus alle 3.30 per Haifa, per andare a salutare i miei parenti. Faccio le ultime foto e via, a fare i bagagli e alla Central Bus Station. Arrivo con l’autobus per Haifa a Beit Lid, sulla sinistra c’è una grande prigione. Scendo, c’è mio cugino che mi aspetta vicino alla macchina, mi saluta con un abbraccio affettuoso e mi chiede: “Have you enjoyed it?”

 

BOICOTTARE L’OCCUPAZIONE, NON ISRAELE  

1.      Bisogna avere prima di tutto chiaro che i territori occupati con la guerra dei sei giorni del giugno 1967, cioè Cisgiordania e Gaza, furono conquistati militarmente. Ora, la legge internazionale dichiara illegale l’acquisizione di territori mediante la guerra, il che fu sottolineato nella risoluzione dell’ONU n. 242, che “chiedeva una pace “giusta e duratura” in M.O. basata su concessioni territoriali in cambio della pace” (B.Morris, Vittime, p.437). L’idea di barattare territori contro pace emerse già nel gabinetto israeliano nel 19 giugno 1967, e fu soffocata poi anche dall’intransigenza araba, rimpiazzata dall’”annessionismo strisciante” e dal caposaldo (da allora) dei “confini difensibili”. Il principio ribadito dalla 242 dello scambio tra pace e territori, mai realizzato, rappresenta il cuore del conflitto, ed è stato di nuovo proposto esplicitamente nel marzo scorso, dalla Lega Araba questa volta, e rifiutato di fatto da Israele.

2.      La colonizzazione israeliana illegale di questi territori, la cui occupazione appunto non è riconosciuta dalla legge internazionale, è iniziata da subito, ed è continuata incessantemente, anche sotto i governi laburisti, fino a Barak. Soprattutto è da sottolineare che pur essendo partito dal 1993 il processo di pace, la colonizzazione è continuata a passo accelerato, con lo smantellamento cosmetico di alcuni avamposti di tanto in tanto.

3.      Il protocollo di Associazione UE-Israele è in vigore dal 1995 e prevede alcuni privilegi  tra cui l’abbattimento dei dazi doganali per le merci “made in Israel”. Ora, per oltre due decenni la dogana di Israele ha certificato di routine i prodotti dei territori occupati, insediamenti israeliani compresi, come provenienti dallo Stato di Israele, in violazione del protocollo delle Regole d’Origine e della clausola territoriale dei suoi accordi con la C.E. E’ chiaro come tutto ciò sia illegale: i territori occupati NON fanno parte del territorio di Israele. E’ la stessa Commissione europea ad ammettere  "ulteriori indicazioni che i prodotti che avrebbero potuto essere originari degli insediamenti israeliani possono essere stati irregolarmente esportati verso la Comunità nell'ambito dell’accesso preferenziale stabilito nell'accordo CE-Israele", ma che "non sia stato possibile determinare con la certezza l'origine dei prodotti interessati". Ha inoltre riferito che sta ora considerando "una serie di idee sul come acquisire chiarezza sull'origine di prodotti dell'esportazione senza pregiudicare la posizione di una qualsiasi delle parti".

4.      Oltre a QUESTO tipo di violazione ne esiste anche un’altra. L’Art. 2 del Trattato Euro-mediterraneo  pubblicato sulla gazzetta ufficiale della Comunità n. L147 del 21 giugno 2000 ne subordina  la  validità al rispetto dei diritti umani e della legge internazionale. “ I Rapporti tra le parti, così come tutte le clausole dell’Accordo stesso, devono fondarsi sul rispetto dei diritti umani e dei principi democratici, rispetto che guida la politica delle parti sul piano interno e internazionale ecostituisce un elemento essenziale di questo Accordo” (corsivo nostro).

5.      E’ essenziale in tutta questa dolorosa questione tenere presente IL FINE di tutto ciò, che è di accelerare LA FINE dell’occupazione, la radice di tanti mali. Noi come ebrei riteniamo che il servizio peggiore che si possa rendere ad Israele sia di favorire le azioni, qualsiasi azione, che in qualche modo avvallino il prolungarsi dell’occupazione, che rischia di minarne la stessa legittimità  di fronte alla comunità internazionale e tante spaccature sta creando anche in seno al fronte “di sinistra”, ma che soprattutto sta distruggendo per la seconda volta un popolo e una cultura. A questo proposito è bene ricordare le parole di una lettera aperta di 21 ebrei israeliani  pubblicata sul Manifesto la primavera scorsa, tra cui Tanya Reinhart, professoressa di linguistica all’università di Tel Aviv: “Abbiamo appreso di un’iniziativa dei cittadini di Ann Arbor (in Michigan) perché il consiglio comunale lanci una campagna di disinvestimento dagli investimenti eventualmente fatti in compagnie o fondi che intrattengono rapporti con Israele. Noi appoggiamo con forza questa iniziativa… ….noi non vogliamo che la popolazione palestinese rimanga ancora imbottigliata, alla mercé di un’occupazione militare soffocante…..”. Ergo, Non si tratta di boicottare Israele IN QUANTO TALE, ma di boicottare appunto l’Occupazione.

6.      C’è anche da ricordare l’appello di Gush Shalom, il Blocco della pace israeliano, in favore del boicottaggio dei prodotti provenienti dai territori occupati.

7.      Ciò che in alternativa anche come ebrei contro l’occupazione possiamo fare è cercare di costruire o intensificare i rapporti con associazioni di produttori palestinesi e cercare di venderne i prodotti attraverso canali alternativi, come il commercio equo e solidale  

Stefania, 20/03/03


[1] La frase, slogan ufficiale del sionismo, è da attribuire non a Theodor Herzl, come spesso erroneamente accade, ma a Lord Shaftesbury, che la utilizzò scrivendo le sue memorie nel 1854. La frase fu poi ripresa da Israel Zangwill in un articolo del 1901 (Benny Morris, Vittime, Rizzoli, 2001, p. 60)

[2]  Originale in inglese, traduzione mia.

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