Mi hai portato i quaderni?

 

Mi salutò così la piccola Chantal, un giorno, vedendomi arrivare. Frequentava una scuola povera, di un villaggio molto povero, di un paese tra i più poveri del mondo: il Burundi.

La piccola Chantal aveva un sorriso vivacissimo, furbetto, occhi vispi e luminosi, ed era sempre curiosa e piena di voglia di fare e di crescere.

Ho passato un anno con lei, nel suo paese, lavorando con i suoi maestri e con altri 3500 bambini, in 15 scuole disseminate sulle meravigliose colline di questo paese dell’Africa dei “Grandi Laghi”.  L’Africa dei grandi esploratori, la regione in cui nascono alcuni tra i più grandi fiumi del mondo: il Nilo, il Congo, con il suo bacino immenso. L’Africa che era, un tempo, delle “grandi foreste”.

Il Burundi è un paese piccolo, soprattutto se paragonato alle dimensioni infinite di altri paesi del continente, come la Tanzania, il Sudan, l’Angola, che misurano varie volte l’Italia. E’ grande circa quanto la Sicilia, ed è un piccolo gioiello decorato da una vegetazione rigogliosa e inebriante, grazie alle piogge che cadono copiose e frequenti per molti mesi all’anno. Mentre percorri le lunghe piste che valicano le centinaia di colline, ti trovi a costeggiare le piccole coltivazioni che i contadini lavorano quotidianamente, fino ad ottenere quattro raccolti l’anno.  Appezzamenti con banani, piante di manioca,caffè, tè, papaia, maghi, e poi mais, miglio, grane, patate, ortaggi,… E quando scendi nelle valli, ti ritrovi sui meravigliosi marais dove crescono libere le ninfee, dove donne e bambini lavano in acqua pulita, e vacche le corna giganti si abbeverano e pascolano.

Il Burundi non sarebbe un paese povero, e non lo era fino a qualche anno fa. Grazie al cima della regione, non vi sono problemi di alimentazione perché la terra è molto ricca e può dare frutti abbondanti. E’ semplicemente un paese contadino, come lo era il nostro fino a qualche decina di anni fa, quando la macchina e la televisione erano cose per pochi ricchi e gli stipendi erano molto bassi, e tanti vivevano in case senza il bagno, con un gabinetto in cortile.

Ciò che ha sprofondato questo paese in una povertà in certi casi miserabile, è stata la guerra. Una guerra che ha coinvolto tutti, anche i poveri contadini, le donne i bambini, i vecchi, i disabili.

Non ci sono mai motivi sufficienti per arrivare a una guerra, “giustificazioni possibili” per prendere in mano le armi e uccidere, magari quello che era il tuo vicino di casa, il tuo compagno di giochi. Eppure l’intolleranza, la rabbia, l’incapacità di capire l’altro, portano l’essere umano a scegliere la violenza.  In Burundi è successo diverse volte nel corso degli anni, per varie ragioni: economiche, politiche, sociali, nonché etniche. La popolazione che abita il paese è composta infatti da tre etnie: gli hutu, i tutsi, i twa, che hanno origini storiche e geografiche differenti, ma parlano la stessa lingua, il kirundi, che è una lingua del ceppo bantu.

Non è facile andare d’accordo tra gruppi diversi, si sa. Eppure è necessario. I conflitti, le tensioni, sono inevitabili. Ma come ci insegna Nelson Mandela nella sua bellissima autobiografia, bisogna assolutamente evitare che le tensioni sfocino nella violenza e mantenere forme nonviolente per la soluzione dei conflitti. Quando si arriva alla violenza, il recupero sarà difficilissimo, perché gli animi si riempiono di odio, di sete di vendetta, in un vortice crescente. Questo è successo in questo piccolo, stupendo paese. Un vortice di odio che ha coinvolto tanta gente e ha portato anche persone umili e serene a imbracciare armi orrende. Gli hutu hanno ucciso i tutsi, i tutsi hanno ucciso gli hutu, e ancora si cerca di stabilire “chi ha più colpa, chi ha ucciso di più”, come se questo potesse riportare la pace. Tutti si sono dati alla fuga in massa. Migliaia e miglia di persone di persone sono scappate oltre i confini della Tanzania, del Congo, e hanno perso tutto: la casa, la terra, i beni che avevano, e hanno avuto tanti familiari morti.

Questo è avvenuto anche alla piccola Chantal che mi chiedeva i quaderni, e a tanti, migliaia di bambini come lei, che hanno dovuto abbandonare la propria casa per ritrovarsi a vivere in un campo di profughi o di sfollati, dove la “casa” è costituita da pochi rami messi su in fretta, coperti di foglie di banano e di un telo blu fornito dall’ONU, per riparare dalle piogge.

La guerra spazza via tutto. Sono state distrutte tante scuole, uccisi tanti insegnanti mentre molti altri sono scappati, così anche là dove c’è l’edificio della scuola non ci sono i maestri. “Che bello! Che fortuna!” direbbero forse tanti bambini europei, “costretti” ad andare a scuola tutti i giorni e a fare i compiti. Molti bambini del Burundi, ora, la scuola non ce l’hanno più, e non l’avranno ancora per molto. Non hanno libri, non hanno matite per colorare, non disegnano.  Non hanno nessuno che insegni loro a leggere e a scrivere, così non potranno fare niente altro che i contadini o i pastori, o altri mestieri molto umili e spesso servili.

E’ stato difficile lavorare con questi bambini. Spesso prende un nodo alla gola perché guardandoli ti chiedi quante speranze possono avere. Hanno davanti una vita faticosa, di stenti, senza soldi per comprare il sapone, una maglietta nuova, le scarpe. Non hanno libri n giornali, non sanno nulla di ciò che c’è oltre il confine del loro paese, a volte non conoscono neanche le carte geografiche del mondo. Fanno chilometri a piedi per prendere l’acqua, il minimo indispensabile.

Ho lavorato con loro credendo profondamente nel diritto di tutti i bambini – ovvero di tutti gli uomini e di tute le donne –ad avere un’istruzione, a conoscere, ad essere consapevoli dei propri diritti e capaci di farli rispettare. La scuola, l’istruzione, prima che un dovere sono un diritto, fondamentale, anche per far crescere un paese.

Per noi che viviamo qui, in un paese ricco, è importante ricordarci di quante cose abbiamo, che per noi sono scontate (i libri, le medicine, l’autobus, i rubinetti,…) mentre in altri paesi non sono neppure immaginabili. E’ importante avere la consapevolezza di ciò che la nostra società ha conquistato in positivo, spesso con anni di lavoro e di lotta, e possibilmente pensare a dare il proprio contributo affinché i diritti dei bambini siano realizzati ovunque.

Sarebbe bello se tutte le Chantal del mondo potessero mostrarci i loro quaderni, pieni di disegni colorati, con immagini di pace.

 

 

Silvia Montevecchi

Scritto nel gennaio 1998 su

richiesta della editrice Cetem di Milano,

e pubblicato nel loro libro di lettura

per le scuole elementari