"OGNI UCCELLO HA IL PROPRIO MODO DI CANTARE"

 

Alessandra Ferrario.  

Una maestra esperta di educazione interculturale,  tra Africa e scuole elementari italiane.

Vive a Saronno, fa l'insegnante di scuola elementare, da molti anni, ha 4 figli ed è grande appassionata di montagna.

Nel 1983 partì con il marito, per un progetto di solidarietà internazionale in Burundi, dove rimasero due anni; altri due anni vissero poi alle isole di Capo Verde, infine andarono  in Mali.

Sei anni in progetti di educazione alla salute, di programmazione e pianificazione  di attività di salute pubblica a diversi livelli . Alessandra in particolare si occupava di formazione di insegnanti, infermieri e personale sanitario per gli aspetti preventivi : educazione igienico-sanitaria, alimentare , sensibilizzazione alle mamme in gravidanza, vaccinazioni, controllo della crescita dei primi anni di vita dei bambini.  In Burundi nacque il primo figlio, Davide Nduwimana (piccolo dono di Dio) e nel Mali arrivò anche Filippo, di soli 40 giorni di vita..

Dopo sei anni intensi di lavoro e di relazioni fittissime con la vita delle popolazioni locali Alessandra un rientro improvviso per un tragico incidente d’auto..

Ripreso il lavoro come insegnante, con il suo consueto amore per il dialogo interculturale, da diversi anni è distaccata su progetti  di accoglienza e inserimento  per alunni stranieri..

Per l'affetto, la stima che ho per lei, e per le bellissime cose che fa, le ho chiesto di raccontarcele.

(S.M.) Alessandra, in questi anni a scuola hai tenuto un progetto di educazione interculturale incentrato sulle tecniche di tessitura e di decorazione del tessuto in diverse culture del mondo. Dove hai imparato queste tecniche?

(A.F.) Un po' le ho imparate sul posto, un po' le ho studiate. Alcune le avevo osservate in Africa. In ogni caso ho avuto voglia di approfondirle e di tradurle in esperienze didattiche. A volte poi è sufficiente cogliere da alcune immagini possibili sviluppi  per delle attività con i ragazzi. Per esempio la tecnica che si usa in Benin ( chiamata TENTURE: “l’arte della stoffa applicata”)  , si traduce molto facilmente in un'attività con i ragazzi che dà risultati immediati. Nella tecnica originale riportavano delle epigrafi storiche. Ogni periodo storico ha avuto le proprie immagini simboliche raffigurate sulla stoffa; quindi studiando questa tecnica, si studia una cultura. Vi sono immagini che rappresentano intere dinastie del regno di Abomey.  La tecnica poi da lì si è diffusa nel Senegal e nel Mali, come artigianato locale per cui venivano raffigurati anche altri oggetti, animali o situazioni particolari legate alla realtà del posto. Per esempio si raffiguravano sulla stoffa oggetti o animali simbolici ( i pavoni)  beneauguranti per gli sposi. Il collegamento su come proporre queste cose ai ragazzi è stato abbastanza facile. Soprattutto sono partita da fiabe e proverbi africani, per raffigurare certe immagini sulla stoffa. Si fa il progetto sulla carta, si ritagliano le sagome di carta e si riportano sulla stoffa.  . Viene usato il pannolenci e i soggetti  vengono incollati anziché cuciti perché, per i bambini, è più semplice. L'effetto finale è abbastanza simile a quello tradizionale anche se la lavorazione è stata semplificata.

Va bene, ora facciamo un passo indietro: raccontami un po' dall'inizio come cominciato questa passione per le attività interculturali nella scuola.

Ho iniziato circa quindici anni fa, quando avevo la classe, ma forse anche prima. Prima di partire per l'Africa. Era un po' una scommessa o un desiderio di tradurre didatticamente quelli che erano i miei valori e le mie passioni. Ho sempre frequentato organismi di volontariato legati a queste tematiche. Vent'anni fa si parlava in generale di educazione alla pace, non ancora di educazione interculturale, ma vi erano comunque filoni di questo tipo, solo che erano solo inseriti in circuiti di  volontariato. Non erano ancora riconosciuti dai programmi ministeriali ufficiali. Ho sempre avuto dei  colleghi  disponibili e motivati a  sperimentare anche prima di partire per l'Africa, e quindi ero riuscita a fare delle belle attività anche allora. Il percorso vero e proprio però è cominciato dopo il mio definitivo rientro, quando ho cercato di rivisitare i testi scolastici in chiave interculturale, specie in ambito storico e geografico, che più si prestano. Per esempio avevo fatto uno studio del medioevo associando il nostro medioevo allo studio dei regni del Mali. Una storia inedita e splendida che aveva affascinato i bambini, anche perché dava un'immagine completamente diversa di una zona d'Africa generalmente associata solo a grande miseria e difficoltà di vivere. Venne così il progetto intitolato "Un medioevo a dorso di cammello".

All'epoca erano difficili queste attività, perché la letteratura era davvero molto scarsa soprattutto per i bambini. Si trovavano testi per adulti, e a volte li trovavo neanche in italiano ma solo in francese. C'era quindi un grosso lavoro di preparazione per le attività con i ragazzi. Mi ha sempre affascinato accostare questi percorsi  anche perché mi permetteva di rompere i miei schemi culturali e mentali. È un modo per decentrarsi. Studiando fuori la storia antica di popoli africani, viene automatico chiedersi perché quella ricchezza culturale non è continuata. Come mai la realtà di oggi è così lontana da quel passato così prospero?  anche se non hai le risposte, hai però una grande quantità di domande e di provocazioni che lanci e speri stimolino la curiosità umana. Questo in effetti ho visto che si è verificato quasi sempre, perché il bambino è istintivamente curioso e ha voglia di conoscere. Questo per me è già molto importante perché spesso rimane un seme nei bambini con cui ho lavorato,  non posso sapere come e se verrà  sviluppato , ma è già sufficiente che ci si ponga con un atteggiamento diverso davanti allo straniero. Il bambino vedrà  dietro  ad ogni volto  una storia, ricca e complessa,si porrà domande... Quindi anche con un alone di mistero che starà a lui scoprire, a seconda di quanto sarà la voglia di porsi in comunicazione.  

Nel periodo in cui lavoravo con le classi, le attività interculturali non erano dei laboratori a se stanti, ma rientravano nella normale didattica. Poi è cominciata la forte ondata immigratoria e quindi vi è stata la richiesta da parte dell'istituzione di lavorare specificamente con i bambini stranieri  e nomadi, per garantire un’alfabetizzazione di base. Da qui la mia proposta di distaccamento su un progetto che mi sono inventata, in maniera intuitiva e sperimentale. Il Provveditorato lo ha apprezzato e accettato anche se numericamente non avevamo ancora, nel nostro comune di Solaro, una presenza percentuale di alunni stranieri  così alta come molte scuole della provincia di  Milano.

Il primo progetto interculturale si intitolava "Chaque oiseau a ça façon de chanter", un proverbio che io avevo conosciuto in Mali e che si usava nelle sedute di animazione con i contadini dei villaggi. Aveva proprio l'obiettivo di liberare la parola: che tutti avessero qualcosa da dire e la esprimessero. Questa era la prima fase delle riunioni, dopodiché si passava alla definizione dei problemi e delle possibili soluzioni. Ma la cosa più importante era proprio che ognuno dicesse la propria. Io quindi avevo scelto una copertina per il progetto con un grande albero e tanti uccellini sopra, diversi, dando proprio questo titolo come invito a ciascun bambino di esprimersi, e a ciascun popolo di raccontare la propria storia.

Recuperando l'immagine dell'albero abbiamo poi lavorato sulla mitologia dell'albero, come metafora, come immagine simbolica ricca di significato, sia nella psicologia del bambino sia nell'immaginario collettivo, con vari sviluppi. Abbiamo trovato tanti miti e storie, fiabe, leggende, legate all'albero. Questo è stato il primo anno il progetto interculturale.

Parallelamente c'è anche un percorso sul " libro animato " (da cui poi è nata la pubblicazione con la Emi).  Lavorando sull'intercultura, la fiaba è un po' un passaggio obbligato, oltre che fecondo. Con le mie colleghe per cinque anni avevo lavorato sull'animazione del libro e avevamo sperimentato tutta una serie di tecniche, di rilegature, ecc. su molti stili e linguaggi diversi ( libro-giallo, libro –game , poesia, letteratura, ecc). Il passaggio quindi tra il libro animato e la fiaba di altre culture è stato molto semplice e immediato. La fiaba africana poi per ovvi motivi era per me una molla molto coinvolgente, per cui l'avevo approfondita, studiata, smontata con una passione incredibile, e attraverso la fiaba africana avevo poi recuperato tradizioni anche di altre culture, trovandone i punti comuni.  

Era stato certo lavoro molto faticoso, perché la fiaba africana non ha naturalmente gli schemi per noi conosciuti, non segue le categorie di Propp, ma se ne trovano delle altre che colgono proprio elementi di una cultura orale. Ho quindi cercato prima di capire tutto questo e poi di definire il percorso evolutivo-educativo che quelle fiabe hanno nelle loro culture. Le categorie quindi possono cambiare, o le troviamo in parte, ma comunque nelle fiabe vi è tutto bagaglio di valori e di obiettivi volti alla formazione e all'iniziazione dell'uomo, in qualunque cultura e parte del mondo. Il testo sulla fiaba africana ha quindi lo scopo di aiutare chi vuole approfondire questa conoscenza, offrendo alcune chiavi di lettura, per non rischiare di cadere nell'esotismo.

Il mio studio sulla fiaba poi continua anche adesso. Mi sono concentrata sulla ricerca di punti comuni in culture diverse, non solo africane. Per esempio come appaiono alcuni elementi, naturali o meno, in fiabe di tradizioni diverse: il flauto è un motivo vagante in molte fiabe, dal nostro Pifferaio magico, ad una africana ed altre indiane del nord America che hanno sempre, come motivo risolutore, il flauto.  Attualmente sto lavorando su tre classi con tre fiabe diverse che hanno tutte il flauto come elemento comune. Divisi in due gruppi, un gruppo si occupa del linguaggio visivo, un altro del linguaggio musicale. Io seguo il gruppo del linguaggio visivo : stiamo facendo il libro animato sulla fiaba indiana (America del nord) che si intitola "Il flauto di Alce": un lavoro molto grande, con tende, ecc. mentre il gruppo musicale ripropone lo studio di ritmi e danze tipici del mondo degli indiani del Nordamerica. Finita questa fiaba indiana cominceremo lo stesso lavoro sulla fiaba africana. E attraverso la musica evocheremo luoghi,  colori, emozioni…

Quindi il laboratorio del tessuto e quello sulla fiaba si intrecciano.

Si, perché ogni anno possiamo proporre delle cose nuove ma non abbandoniamo quelle che abbiamo già sperimentato. I gruppi classe scelgono quale  laboratorio seguire. Io propongo questi tre filoni : la fiaba, i tessuti o linguaggi simbolici e l'autobiografia.

Quest'ultima è nata come richiesta di Graziella Favaro per un corso per docenti nel quale voleva che creassi un gioco parallelo a quello del marito Duccio Demetrio "il gioco della vita" che si rivolge agli adulti, però rivolto ad una fascia di età pari a quella della scuola elementare. Questo lavoro è stato fatto alcuni anni fa la prima volta con un gruppo di insegnanti di Lecco, durante laboratorio molto bello in cui abbiamo realizzato un gioco dell'oca molto grande, formato tappeto, immaginando che i bambini potessero sedervisi attorno, e con una quarantina di caselle per raccontare elementi della propria vita dalla nascita alle varie tappe della crescita: scuola materna, il passato la scuola elementare, altre caselle relative a fiabe che il bambino può raccontare, o sui cinque sensi quindi percezioni che il bambino può sperimentare direttamente o raccontare , ecc. La casella del gioco evoca esperienze, immagini ... per aiutare il bambino e stimolarlo nel ricordo e nella narrazione.

Come emerge in questo gioco l'aspetto interculturale?

Be' emerge in quanto l'autobiografia è l'identità, e l'identità è un pilastro dell'intercultura in senso lato. Che ciascuno sia se stesso e possa presentarsi. Nel momento in cui racconta prende consapevolezza di sé, della propria storia, delle proprie radici, della propria fatica e nel raccontarsi agli altri si acquisisce autostima, conoscenza reciproca, scambio, quindi crescita. Questo processo è molto importante per tutti, in particolare per chi sente il bisogno di ricucire degli strappi, come può essere per bambini che hanno subito uno sradicamento e un esodo in un paese straniero.

Vi sono poi anche caselle facilitanti e predisposte per bambini con questi vissuti. Questo gioco è stato pubblicato insieme al libro

"Alfabeti interculturali", Guerini. Oltre al gioco collettivo, essendo un percorso molto identitario quindi molto personale, stiamo elaborando un ulteriore passaggio, alcune caselle del gioco diventano le pagine di un libro personale, il "libro del bambino". Lo sto costruendo con un gruppo di insegnanti di Reggio Emilia , molto motivati e creativi , in un corso di aggiornamento organizzato da “Prometeo”

Come fate quando vi trovate, se vi è successo, di fronte a delle caselle o delle pagine che per un bambino sono particolarmente problematiche, magari perché hanno costituito di traumi, dei lutti?

Innanzitutto va detto che il gioco è basato sul rispetto della parola ma anche del silenzio. Il bambino può parlare ma può anche non parlare, e può anche mentire. Si ma se succede che vedete per esempio bambino stare male, come succede quando si lavora con l'autobiografia anche con adulti...? Per esempio bambino si trova davanti il vissuto di un abbandono, di una separazione, di una morte... Queste caselle ci sono, a livello molto simbolico. C'è proprio la casella sulla morte. Noi abbiamo deciso che è importante affrontare anche temi così difficili con i bambini, ma non ci siamo mai trovati in situazioni di forte disagio da parte di un bambino. Comunque è lasciato libero di esprimersi o no, e a diversi livelli.

Quindi comunque l'obiettivo del gioco è la presa di coscienza, non evidentemente una terapia.

Certamente. È una narrazione, una presa di coscienza di " chi sono ". Per sé e per gli altri. È un percorso per bimbi piccoli, anche per la scuola materna. Alcune caselle sono studiate proprio per bambini stranieri: per esempio quella del "passaggio". Vi è un ponte su cui passare, e questo può essere raccontato sia in termini simbolici che come passaggio fisico reale. Un cambiamento di paese, scuola, di amici, ecc. Vi è una casella sulla posta: che cosa porta il postino? quindi è una rappresentazione di affetti, legami, amici lontani,... oppure la cassetta della posta "scrivo a chi". Il bambino con un pezzo di carta scrive e proprio messaggio invia. 

Rispetto questi laboratori, quali sono i risultati che vedi, le risposte che ha mai da parte dei ragazzi e dei bambini? Cosa ti colpisce di più? Come sono coinvolti, si divertono?

L'approccio è sempre molto coinvolgente per i bambini, si divertono a fare cose pratiche. Anche con l'autobiografia, ai bambini in generale piace parlare di sé. Anche se certo non è per tutti, e non sempre. Abbiamo  lasciato delle caselle libere proprio perché in questo caso il bambino può raccontare quello che vuole, se vuole, qualunque esperienza gli venga in mente.

A volte lavoriamo poi  su delle caselle specifiche: per esempio un anno abbiamo posto l'accento sulle paure. A seguito del 11 settembre e della guerra in Afghanistan abbiamo lavorato molto sulle paure pensando che potesse emergere la paura della guerra. Invece abbiamo visto i bambini hanno parlato di tante altre paure mentre quella della guerra non è neppure emersa. È chiaro quindi che tu fai degli ipotesi e poi i risultati possono essere completamente diversi.

Per quanto riguarda il lavoro sui tessuti, il coinvolgimento dei bambini è stato davvero enorme ; questo mi ha stimolata molto a proseguire e investire. Come materiale ho trovato molto per quanto riguarda la conoscenza storica e culturale delle varie opere, ma praticamente nulla invece per gli aspetti didattici. Dovendo quindi fare da sola, ho scelto di approfondire alcune tecniche. Ho fotografato diversi manufatti in casa da parenti e amici, altre immagini le ho prese dai libri, mi sono documentata sul linguaggio simbolico che è dietro a ciascuna espressione artistica, e questo significa proprio come decifrare un segreto che il tessuto contiene. Tutto per tradurlo poi in un linguaggio proponibile ragazzi. La cosa sta funzionando proprio bene. Tra l'altro anche nel caso dei tappeti come già per le fiabe, ritrovi dei codici comuni che partendo dall'Asia si diffondono poi in tutto il mondo, in modo più o meno inconsapevole. Per esempio nei disegni dei tappeti orientali, vi sono simboli che definiscono un tappeto come sacro. Riprodurre questi simboli con i bambini è stato un lavoro molto affascinante, che ha consentito fra l'altro di affrontare il tema del dialogo interreligioso. Dai simboli dei tappeti sacri, che ogni bambino ha scelto liberamente e riprodotto nei laboratori, si è passati alla scelta di preghiere di popoli e religioni diversi, molto semplici ma molto evocative dell'equilibrio con il cosmo e la natura, le energie dell'universo, ecc. A partire dalle preghiere che ciascuno ha scelto, ogni bambino dipinge poi il proprio spazio sacro. Questo lavoro viene fatto con la tempera, e ciò che ne è uscito è stato davvero molto bello. Anche il clima che si è creato intorno a  questa creazione, era un clima molto rilassato e concentrato allo stesso tempo. Mentre i bambini dipingevano avevamo messo musiche di sottofondo, rilassanti e stimolanti la riflessione e la meditazione. Una volta dipinto il proprio spazio sacro, a loro volta i bambini hanno scritto delle loro poesie e delle loro preghiere, che sono state raccolte in un libretto di classe. In questo modo, loro hanno creato in classe un loro spazio per la meditazione e la riflessione, in cui porsi in silenzio all'ascolto di energie lontane.

Altre volte abbiamo lavorato con il telaio, e ogni bambino ha prodotto il proprio pezzo di tessuto colorato, rappresentativo di ciò che lui aveva scelto. Messi insieme i vari pezzi si è creato un grande tappeto comune, della classe, che ha il significato simbolico racchiuso nell'intrecciare i fili, costruito con la pazienza, il tempo dedicato, il lavoro, le energie,... di ciascuno e di tutti.

Questo per quanto riguarda il tappeto e la tessitura. Altre tecniche sono invece legate più alla colorazione. Oltre a quella che dicevamo sopra presa dal Benin, abbiamo lavorato con la tecnica dei Kuna della Colombia. In questo caso si tratta di oggetti che le donne fabbricavano per la propria dote, in preparazione al matrimonio. In altri casi abbiamo studiato dei tessuti ricamati dall'India, e altri ancora. Anche in questo caso non è stato bello vedere le caratteristiche comuni e al contempo come certe lavorazioni uguali hanno preso significati diversi nel corso delle migrazioni.

Il batik ha una storia che una simbologia particolarmente ricche e pregiate. Anche questo è stato molto apprezzato dai ragazzi e li ha molto coinvolti. Abbiamo proiettato diapositive di batik indonesiani e poi i bambini hanno riprodotto certi simboli di essi. Anche in questo caso si è vista l'emigrazione di una tradizione dall'Asia all'Africa, con le diverse caratteristiche. Queste diventano un vero e proprio linguaggio, soprattutto per le donne, per la loro autonomia personale. Con i bambini abbiamo cercato di riprodurre questa tecnica piuttosto complicata, rendendola più semplice e adatta a loro, e per loro è stato un grande divertimento e una grande soddisfazione indossare le magliette che si erano fatti da soli. (foto magliette )  In relazione ai colori utilizzati e agli affetti cromatici che ne risultavano, i bambini anche in questo caso hanno scritto poesie e testi. Con la quarta e la quinta elementare, abbiamo sperimentato anche la tecnica classica del batik con la cera. Ogni classe scelto un disegno collettivo da poter riprodurre; una classe ha scelto di fare un campo di girasoli. Ogni bambino ha disegnato un girasole su un grande lenzuolo, tutti i fiori, l'erba, il sole, sono poi stati ricoperti con la cera. Una settimana successiva viene tolta la cera, e ne risulta un effetto cromatico molto bello.

È molto importante in questi laboratori il fatto che bambini sperimentano la pazienza, la lentezza, il tempo che ci vuole a produrre qualcosa con le proprie mani. Anche questo fa capire meglio cosa significa utilizzare la propria energia, le proprie giornate, in attività che in molti casi sono o erano proprio dei riti.  

I  bambini secondo te recepiscono questi significati?

Si. Li assorbono. Anche perché generalmente accompagno questi lavori a delle letture specifiche. C'è tanta narrativa, ci sono tante fiabe, in cui si parla proprio del tempo passato a tessere e a lavorare tessuti. Quindi il lavoro manuale continuamente si intreccia con la narrazione.

Con queste attività manuali i bambini colgono il significato del lavoro, dell'applicazione paziente, per arrivare a un risultato voluto. Questo a sua volta è garantito, e quindi ti ripaga della fatica fatta.

A volte è più faticoso o più difficile coinvolgere gli insegnanti che non i bambini. Però il risultato che si ottiene con i manufatti, e così coinvolgente che l'entusiasmo spesso si contagia, e sono gli stessi bambini a chiedere agli insegnanti di partecipare. A volte si coinvolgono anche i bidelli!

Sia in apertura che in chiusura del laboratorio sui tessuti, vi è una finestra che si intitola " tessere speranze ". Questo è un po' l'obiettivo e la conclusione insieme, e si riferisce a tutte le pratiche di tessitura nel mondo. Per esempio colleghiamo il discorso della tessitura a quello dei diritti umani, laddove sappiamo che in molti paesi oggi sono proprio i bambini che vengono schiavizzati per produrre tappeti. Con queste finestre cerchiamo anche di dare delle prospettive ai ragazzi per capire come possono impegnarsi per migliorare le situazioni di ingiustizie che ci sono nel mondo.

Il lavoro quindi artistico è preliminare ma introduttivo ad un discorso di educazione sociale ed etica. Spesso invitiamo degli esponenti dall'esterno a parlare di determinate problematiche, per esempio persone che lavorano con organizzazioni umanitarie in progetti per la tutela dell'infanzia e contro lo sfruttamento minorile.

Credo che questi siano piccoli fili che si intrecciano, o piccoli mattoni che si sommano, nella prospettiva di una consapevolezza dei ragazzi e spero quindi anche del loro impegno futuro.

Alessandra, adesso faccio un passo ancora più indietro . Puoi raccontarmi qualcosa dei tuoi ricordi degli anni passati in Africa?

Oh! Andiamo davvero indietro con gli anni. Certi valori, certe idee, e certe spiegazioni le ho sempre avute fin da ragazzina. Ho anche avuto la fortuna di potermi confrontare con persone che avevano vissuto certe scelte, e quindi hanno sostenuto e stimolato le mie passioni, fino a farle diventare concrete. Ho fatto sempre molto volontariato qui nella mia zona. Poi sono partita per l'Africa con progetti di volontariato diversi: prima in Burundi, poi a Capo Verde, e infine in Mali. Soprattutto mi sono occupata di prevenzione ed educazione sanitaria, a livelli diversi. A parte questo però soprattutto è stata per me l'occasione per approfondire e sperimentare quello che da tanti anni sentivo e pensavo. Il doverti rapportare con culture così diverse, rompe tutte per le tue certezze, i tuoi schemi mentali. Cambia anche gli obiettivi iniziali. Nel corso degli anni, ti rendi conto che cambia la tua percezione delle cose, dei problemi, quindi il tuo modo di dare risposte.  

 

   Nella foto: Davide appena nato, in Burundi

 

 

 

Sicuramente l'aspetto particolare della mia esperienza in questi paesi, è stato il fatto di farla come famiglia. Ci siamo sentiti molto vicini alla realtà della gente e tutt'oggi ci sono persone che, dopo tanti anni, ancora mi scrivono. Soprattutto le mamme, un ragazzo che faceva il baby sitter al nostro piccolo Davide, un'amica che ha fatto la madrina al suo battesimo, in Burundi,... Le persone più semplici, spesso anche analfabete, sono quelle con cui sono rimasti i legami più forti. Il fatto che noi fossimo lì come famiglia, che la gente mi abbia vista col pancione, che abbia partecipato alla nascita di Davide, che si andasse insieme a fare la spesa,... tutto questo ha creato dei legami forti. Una profonda intimità, che rimane ancora dopo 15 anni. Per esempio ogni anno, a Natale, mi arriva un regalino dalla madrina di Davide: piccolissimi cestini fatti a mano, di paglia, con dentro le noccioline che a lui piacevano.

Davide si ricorda ancora qualcosa?

Del Burundi no, perché era piccolissimo. Del Mali e di Capo Verde ha delle immagini sfocate o relative alle fotografie e alle mie narrazioni. Ricorda invece ancora alcuni grandi amici, come Thomàs che era un muratore che lavorava all'ospedale della capitale di Capo Verde, ed era stata una persona per noi una persona molto cara perché senza famiglia, e noi lo avevamo ospitato per un periodo. Così Davide si era legato molto a lui . In quel periodo Thomàs aveva deciso di frequentare la scuola serale, perché non sapeva né leggere né scrivere. Qualche volta si portava dietro Davide, perché si sentiva grande a portare questo bimbo bianco di tre anni, e loro tornavano a casa ripetendo tante parole portoghese, pieni di gioia. Per Davide era una cosa da grande, per Thomàs era un incentivo in più ad andare a scuola. Si era creata fra loro una complicità splendida, tanto che Davide aveva imparato bene sia in portoghese che il creolo. Andavano insieme in tanti posti. Io augurerei a qualsiasi bambino un'amicizia come quella.

Non avrebbe voglia di tornarci ogni tanto in Africa?

Io avevo promesso a Davide che per il suo diciottesimo compleanno li avrei regalato un mese di viaggio in Burundi, il paese in cui è nato. L'anno scorso ne ha compiuti 17 e si è ricordato di questa promessa. Sono contenta se me lo chiede. Ora vedremo se quest'anno avrà voglia darci, dopo la maturità. In Burundi l'aspettano a braccia aperte! Certo aspetterebbero anche me, ma io credo , che per Davide sia meglio andarci da  solo.

Tu, a volte, hai nostalgia?

Mah, è difficile. Sai, per me l'Africa è soprattutto "starci per viverci", non per andarci in periodi di vacanza. Quest'anno forse con degli amici andremo in Marocco, dove non sono mai stata. Sarà un primo approccio per tornare nel continente africano, anche se una zona molto diversa, dopo tanti anni.

Anche in questo caso andiamo come famiglia, con amici che hanno dei bambini, e a me è una cosa che interessa perché ho molti bambini  di origine marocchina a scuola, e quindi vado con indirizzi e contatti, non solo a fare turismo. È una vacanza pensata sempre all'interno di un percorso che mi interessa. Certo mi piacerebbe anche tornare in Mali. Vedremo se i bambini ne avranno voglia, un giorno, e poi comunque c'è sempre anche l'aspetto economico, perché spostarsi in tanti ci costa una barca di soldi!

Ho amato moltissimo il deserto del Mali, che ho attraversato soprattutto nel nord, per andare in Burkina. Mentre ho solo sfiorato la parte dei Dogon, e mi è rimasta la voglia di conoscerli più a fondo. Infatti poi quando ho potuto ho riproposto, nel mio lavoro a scuola, tutta la cultura e la cosmogonia Dogon ai ragazzini.

Come fai a gestirti tra le tante cose che fai e una famiglia con 4 figli?

Eh, con fatica. Però anche a questo proposito, il confronto con la realtà africana mi ha insegnato moltissimo. Quando io e Paolo andammo in Burundi, pensavamo di aspettare a fare figli. Gli africani ci chiedevano come mai non avessimo ancora, visto che per loro era la cosa più naturale e ovvia del mondo. Noi spiegavamo che volevano aspettare il tornare in Italia, ma nel dirlo ci rendevamo contro che non aveva molta logica. Poi io sono rimasta incinta mentre ero lì, e allora abbiamo capito che quelli erano solo nostri schemi mentali. Ricordo che quando annunciammo la nostra attesa ci fu come un grido di gioia degli amici africani, che ridevano e ci guardavano come a dire " Ah, siete capace anche voi!". Tutte le nostre spiegazioni infatti per loro erano proprio assurde.  A quel punto il rapporto tra me e le altre donne, le altre mamme, cambiò nettamente e ci fu una complicità meravigliosa. La gravidanza stupenda e io potevo andare con una loro per le colline, camminando per chilometri per fare le vaccinazioni, le visite prenatali,... il camminare con loro ha creato inconsapevolmente una bella vicinanza, che si espresse soprattutto durante il parto, che fu poi un parto molto difficile. Ci fu la fila delle mamme per donarmi il sangue e dare la benedizione a me e al bambino.

All'epoca può in Burundi era ancora un paese felice...

Sì. Certo la differenza etnica c'era già, ma non vi erano state tensioni, guerre, tantomeno il genocidio. Si stava davvero bene, anche se lo sviluppo era molto arretrato. L'umore era buono. Non vi era ancora stata la sofferenza delle anni 90, che ha visto violenze terribili, famiglie sventrate... noi abbiamo sempre lavorato insieme, con una convivenza pacifica e fiducia generale.

Sei felice delle cose che fai a scuola?

Sicuramente quando lavori in "terra di missione" ti senti molto più utile ed è più facile trovare un senso delle cose che fai. Però poi l'Africa ha senso se lavoriamo anche qua in un'altra dimensione. Il progetto interculturale è stato per me il ponte che mi ha permesso

di portare avanti il mio percorso personale e soprattutto di trasmettere le energie positive che quei popoli mi hanno dato. La loro carica ed esplosione di vita. E questo penso di riuscire a trasmetterlo, ne ho il riscontro, e questa per me è la soddisfazione più grande.

Non avendo più una classe mia, purtroppo non mi riesce più di vedere il cammino che bambini fanno, quindi non riesco ad avere il riscontro reale perché ogni insegnante continua poi a modo suo. Però per ciò che riesco a vedere, vedo dei risultati positivi anche in termini di carica vitale. Credo poi profondamente nel fatto che la presenza straniera possa offrirci una sfida, perché la presenza di un bambino diverso ci costringe riflettere sulla necessità di fare una scuola a misura di OGNI bambino. Per il resto...Insh'allah!

Grazie Alessandra, per tutte le belle cose che fai e ci regali!

 

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©SilviaMontevecchi