Silvia Montevecchi IL DOLORE E LA VERGOGNA Nei Territori Occupati della Palestina
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I fatti
descritti qui sono tutti veri. I nomi, evidentemente, quasi tutti
inventati. Spero che questa lettura possa dare un contributo, anche minimo, alla comprensione di ciò che è la prigione palestinese. Lo stato di vita sotto una soglia umana di normalità, che tante persone come noi (madri, nonni, bambini, agricoltori, commesse, medici, falegnami, portatori di handicap...) sono costrette a vivere. Sarò grata a quanti aiuteranno nella diffusione di questi scritti, per dare informazione e non lasciare solo il popolo palestinese. Foto di copertina del reporter palestinese Akram Safadi. Torna alla home page. Altri miei scritti e foto dalla Palestina clicca qui
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1 Cosa devi fare oggi?
Devi andare a trovare Paola a Faenza. Ah
sì, me lo avevi detto. E’ stato
il compleanno di tua cugina due giorni fa. Vai in macchina? Se parti in tarda
mattinata non troverai molta fila al check point.
E’ peggio la mattina presto, all’ora di punta, con tanti pendolari. Non ci sono check point per andare a Faenza? Ah, sì, è
vero. Scusa. Ormai i check point ce li ho nel cervello. scusa scusa scusa!!! Sì
lo ammetto, certe cose fanno diventare matti. Sai com’è. Sì, certe cose
fanno proprio diventare matti. Tutti. Un paese intero, è possibile. Un’intera
nazione. In certi posti vedi una tale follia che ti sembra di toccarla. Ne senti
l’odore. Sono in Italia
adesso. Okay. Tutto bene. Paese libero. Democrazia. Libere votazioni. Libertà
di parola pensiero opinione espressione movimento persino di sesso. Non mi
ricordavo più. Non c’è follia qui. Non credi? Sai, nei Territori Occupati non
potevi mica andare a trovare tua cugina come ti pareva. Nessuna libertà. Né
espressione né opinione neppure sesso. Niente. Sempre sotto controllo. E la
libertà di movimento? Movimento?! Quale movimento. Qualunque movimento è
sospetto. Hai le telecamere ovunque, gli aerei spia che vedono anche dentro casa
tua, anche se vai al cesso, se scopi, se mangi, cosa mangi, cosa guardi alla
tv… Tua cugina? Devi andare a trovare
tua cugina? Il suo compleanno? Beh, vaglielo a spiegare ai check point che era
il compleanno di tua cugina. In ogni caso stai lì in fila. Sole o pioggia. Non
si sa per quanto. Per andare da Bologna a Faenza ti ci vorrebbero almeno sei
ore. Ogni volta prendi un mezzo, contratti con l’autista, arrivi al paese
dopo, qual è? Ah sì, Castel San Pietro Terme. Arrivi. Scendi, fai un pezzo a
piedi, primo check point, fila. Sole, caldo, sete da morire. Aspetti. Ti
trattano un po’ a pesci in faccia e poi passi. Altro pezzo a piedi. Altro
mezzo. Se va bene arrivi diretto fino a Imola, all’entrata, vicino al
cimitero, come si chiama? Lì dove c’è lo svincolo per Montecatone, sì
l’ospedale famoso per la fisioterapia e la riabilitazione di chi ha avuto
traumi ossei, lesioni fratture ecc. Lo
conosco bene. Ogni volta che ci passo mi viene in mente la mia amica Elisabetta.
Incinta del quarto figlio al sesto mese. Incidente in macchina. Schiena spezzata
in due. Perde completamente l’uso delle gambe e delle braccia. 25 anni. Passa
mesi in rianimazione, fino al parto. Tracheotomia. Poi a Montecatone. Riacquista
un po’ l’uso delle mani. Per mangiare le mettono il cucchiaio legato alla
mano con un laccetto. Così. Ma questo non c’entra. Non interessa a nessuno. Lì
c’è un altro check point, e della tua amica con la schiena rotta proprio non
gliene frega niente a nessuno. Pezzo a piedi, sole, caldo, sete, fila. Tanta
fila. Tanta gente stanca. Ti trattano di nuovo come un pezzo di straccio, (dico
straccio per non dire parolacce, che non sta bene, insomma, non troppo spesso)
come un pezzente, che ci fai lì, dove vai, a fare cosa, a trovare chi, perché,
chi è tua cugina, come si chiama, quanti anni ha compiuto, vediamo se è vero,
abbiamo tutto sotto controllo, noi. Vai, vai al diavolo. Brutto palestinese
di…! Passi. Altro pezzo a piedi. Sole caldo sete. Altro mezzo, sempre un
pulmino stipato di gente stanca. I poveri della terra. Fai tutto il giro di
Imola e se va bene arrivi a Castel Bolognese senza interruzioni. Lì scendi,
altro check point. Cosa fai, dove vai, a trovare chi, perché, quando torni, che
mestiere fai, cos’hai in quella borsa, apri il pacchetto, fa vedere.
Potenziale terrorista, palestinese schifoso. C’è una camicetta. Documenti in
regola. Vai, vai avanti. Veloce! Spostati! Avanti il prossimo, dai muoviti: chi
sei dove vai a fare cosa da chi perché quando torni perché… E tu cerchi un altro mezzo.
Possibilmente fino a Faenza. A volte mettono altre interruzioni anche tra Castel
Bolognese e Faenza. Tanti pulmini: Ravenna, Bagnacavallo, Conselice. Faenza!
Sali. Sete, caldo, adesso anche fame. C’è il chiosco delle piadine, ne compri
una. E da bere un frullato. Fresco. Refrigerio. Respiri! Dai, è l’ultimo
pezzo, sei quasi arrivato. Si riparte. C’è molto traffico. La stradale ferma
per controllare il pulmino. Le gomme, lo sterzo, i freni, passa mezz’ora
d’orologio. L’autista del pulmino è stremato. Un vecchietto smilzo, umile,
che se potesse si nasconderebbe sotto i pedali, sotto il sedile, sotto le ruote,
pur di non affrontare quell’aggressione. “Le gomme non sono gonfie al punto giusto”. Deve pagare una multa. Fermarsi al distributore lì vicino e farle
gonfiare comme il faut. Finalmente si riparte. Non s’arriva più! Ecco l’indicazione. Svolta a sinistra per il centro. Ultimo
check point. Tutti giù dal pulmino. Pezzo a piedi. Caldo, sole, sete, stremato.
Intanto la borsa si è rotta e il pacco regalo
ti scivola da tutte le parti. Fila.
Documenti. Perché sei qui, dove vai, a trovare chi, perché, a fare
cosa, quanto ti fermi, cos’hai nella borsa, fa vedere, aspetta. Non si può
entrare! Ci sono delle operazioni in corso. I carri armati sono entrati in città.
Coprifuoco. Non si può far niente, aspetta. Quanto? Aspetta e taci. Non fare
domande, cane. La città è chiusa. Abbiamo tutto sotto controllo, noi. E’
colpa vostra. Siete un branco di terroristi voialtri. Tutti fottuti terroristi
di merda. Cani. Cani bastardi. Sì è vero. Siamo in Italia.
Niente check point tra Bologna e Faenza. Anzi, neppure fino a Reggio Calabria.
Di più: fino al parco dello Zingaro, in punta alla Sicilia. Tanta strada,
nessuna domanda! Anche se vado all’insù: fino a Bolzano, nessuna domanda.
Posso addirittura passare il confine. Arrivare fino ad Amburgo, fino a
Stoccolma. Nessuna domanda. Unione Europea. Libertà, diritti civili, privacy. Anche se sei davvero un pezzente,
un assassino, uno schiavista, un mafioso, nessuna domanda! Nessun controllo. Qui
si dice che “fino a che non sei dimostrato colpevole di qualcosa, sei
innocente”. Giusto. Paese
democratico. Rispetto dei diritti umani. Ci metterai massimo un’ora,
dipende dal traffico, dalla nebbia. Nessuno ti chiede i documenti. Sicuro? No,
nessuno. Non ti chiedono cosa vai a fare e dove e da chi e perché? No nessuno.
Niente domande. Cos’hai nella borsa? No, non te lo chiedono. Vado dove mi
pare, a fare quello che mi pare, a trovare chi mi pare. Incredibile. Ho molti amici a Ramallah che non
sanno proprio cosa sia “quello che mi pare”. E’ un oggetto non
riconoscibile, mai visto. Non se ne sa l’esistenza. E se non se ne conosce
l’esistenza, probabilmente non c’è. Logico no? Infatti, non ti è proprio
possibile fare quellochetipare. Libertà di pensiero parola espressione
movimento… Tutti oggetti sconosciuti. Persino conservare fotografie è
diventato un atto sovversivo. Non si sa mai chi era quello con te nella foto…
E tanto meno puoi decidere i tuoi interessi, gli hobbies, dove andare in
vacanza. Figuriamoci: non puoi andare da tua cugina, cosa credi di poter
decidere liberamente del tuo viaggio di nozze?
Il mio amico Marwan voleva fare il viaggio di nozze in Grecia. Non lo
hanno lasciato uscire dai Territori. Come dire: tu sei a Bologna e puoi prendere
l’aereo a Roma o a Milano. Solo che: 1. a Roma non puoi andarci perché
non ti fanno proprio uscire dall’Emilia Romagna. 2. a Milano neppure perché non ti
fanno entrare in Lombardia. Ma io devo prendere un aereo!
Davvero? Guarda, non gliene frega niente a nessuno, proprio come del compleanno
di tua cugina o della tua amica con la schiena spezzata in due. Se sei nato nei
Territori, sei in gabbia. 1. A Tel Aviv non puoi andarci
perché non puoi uscire dalla Palestina. Potresti prendere un aereo da Amman, ma
… 2. ammenoché tu non abbia il passaporto giordano, in Giordania non ci entri. Sai com’è, ormai sono pieni di rifugiati, non ne vogliono più. Dunque? Sì ho capito. Va bene! Scusa
scusa scusa….!!! Insomma non puoi pretendere. Io ci
sono stata lì. Ho visto quella gente. Miei amici. Ho visto persone meravigliose
trattate come canibastardidimerda. Ho impiegato 5 ore per fare circa 60 km.
perché le domande, e i check point... Caldo sole sete stanchezza pianto, gente
che non ne può più. Io li ho passati i check point, e sai, io avevo il mio
passaporto rosso: Unione Europea, categoria A. Libero accesso sempre comunque
ovunque (quasi). Ti dicono persino Come va? Cosa fa la Nazionale e come stanno
Baggio e Vialli e Totti ecc? Ah, italiana, a Berlusconi piace Israele! Un pugno
nello stomaco. Mi sforzavo di ridere. Che bella battuta! Ho pianto. Ho pianto
tanto. Ho sentito tanti di quei pugni allo stomaco che ancora un po’ e lo
lasciavo lì, ai check point. Insomma, lo so che qui non è così.
Ma tu non lo sai. Te lo volevo dire. C’è
una marea di cose che non ti puoi neanche immaginare. Perché è proprio vero,
si sa, la realtà supera sempre la fantasia. E non c’è mai limite. Mai limite
al peggio. Perché? Non lo so perché. Ma è
così. E io ho visto tanti posti, tanti paesi, dove tante persone meravigliose
soffrono all’infinito, e la Palestina, dove sono trattati come
canibastardidimerda. E ogni volta mi sento che lo stomaco vorrebbe uscire e
rimanere lì. Perché non ce la fa più a stare al suo posto. *** Fino ad ora sono
riuscita a
farlo rientrare. A volte l’ho sentito a metà strada. Sì, era quasi fuori.
C’ho messo parecchio a farlo ritornare a una posizione accettabile. Ho avuto
conati di vomito per anni. Sì, perché è uno schifo. Voglio dire: come fai ad
andare al mare, in vacanza, o a fare compere e tutto il resto, quando tu hai
visto? Non sei più normale sai? Non
sei più normale. E la gente non lo capisce. Me ne rendo conto. Pazienza. Mica
si può sempre pretendere la comprensione. Quelli che non hanno visto, come
fanno anche solo a immaginare il tuo mal di pancia? Mi basta essere lasciata in pace,
con il mio stomaco a metà. Tanto non è che si vede. Cioè, qualcuno magari sì.
Quelli che hanno maggiore spirito di osservazione. Gli altri vedono sempre che
è tutto ok. Ma va bene lo stesso. Il posto del mio stomaco è un affare
personale. Lo metto dove mi pare. Sono in Italia, paese libero. Però lascia almeno che ti
racconti un po’ di cose! Tanto ormai per il compleanno sei in ritardo. Era due
giorni fa. Voglio parlarti del dolore. Il
dolore senza fine. E della vergogna. La vergogna di tutti. Anche di chi non lo
sa. Sì sì, anche la tua. La mia.
Di tutti! Te ne parlo certo in modo
disordinato. Forse anche molto disordinato. Abbi pazienza. Senza un ordine cronologico. Senza una linea continua, ma con
tante curve e zig-zag. Non riesco a fare diversamente. Non posso mettere ordine a delle immagini di dolore infinito.
Come se queste avessero una logica. Non ce l’hanno. Perché devo cercarla io?
E poi perché si deve sempre dire-fare cose con un ordine? Dov’è
l’ordine, la logica? C’è una
logica nella situazione israelo-palestinese? Nella guerra all’Iraq? C’è una
logica nel dolore di milioni di persone, da decenni? C’è forse un ordine nel
mondo attuale? E allora perché io,
così piccola, dovrei andare controcorrente?
Non sto neppure cercando spiegazioni. Non credo ce ne siano. Voglio solo esprimere il dolore della Palestina. Quello che
ho visto, conosciuto, toccato, respirato, incorporato.
Che sento ancora adesso, da lontano. Ma poi lontano non è. Quando delle persone ti diventano amiche, sorelle, fratelli,
il loro dolore è il tuo, e non c’è più distanza, confine, aereo,
passaporto, che possa tenerlo lontano. E’ un tutt’uno che ci lega. Come uno
è il sole, e uno è il cielo. Khalid quando mi scrive e-mails si firma Your brother.
Lo ringrazio. Sono felice di avere fratelli e sorelle palestinesi. Sono così
felice! Ho amato quella gente così tanto. Penso spesso a loro, in diversi
momenti della giornata. Cerco di immaginarli, nel loro stillicidio quotidiano. Sono nella mia città natale, Bologna. E’ una bella
giornata di fine estate e fa ancora caldo. Posso ancora andare tranquillamente
in bicicletta. Adoro la bicicletta. Ci sono andata anche a Ramallah, e
praticamente tutta la città rideva! Lì gli adulti non la usano, tanto meno le
donne. Sembra considerata un giocattolo, una cosa da bambini. I grandi vanno in
macchina. Provo ancora molta nostalgia. Fino a pochi giorni fa
camminavo e amavo perdermi nelle vie della Città Vecchia, a Gerusalemme. Il
mercato era così pieno di cose belle che se fossi rimasta ancora avrei comprato
una marea di oggetti artigianali, per la gioia dei commercianti, ridotti quasi
alla fame, dall’inizio dell’Intifada. Avrei voluto fermarmi lì. Diventare parte di quei muri e di
quelle pietre. Che meraviglia, le pietre della Città Vecchia di Gerusalemme!
Con tutta la loro storia, il pathos, il mito ancestrale di tante religioni,… E
l’odore delle spezie, e quell’artigianato da farmi girar la testa. (Mi succede spesso questo processo di identificazione con
delle cose che amo. Forse è un po’ patologico, ma chi se ne frega. In Burundi
avrei voluto diventare parte degli eucalipti che avevo intorno. Erano
meravigliosi! Me li ricordo ancora. Credo che se ci tornassi sarebbe uguale ). Ma forse è meglio così. Essere tornata a casa. Accogliere
l’invito di Khamal: vai a casa e parla, racconta, scrivi!
Noi palestinesi non abbiamo bisogno di voi occidentali qui. Le competenze
le abbiamo anche noi per far andare avanti il nostro paese (…se solo ce lo
dessero!!). Abbiamo bisogno che voi che siete stati qui e avete visto, torniate
a casa e parliate e scriviate. Questo è quello che ci manca: che il mondo
sappia. Gridate, gridate quello che avete visto, la nostra sofferenza, la nostra
vita da bestie. In nome della “sicurezza” israeliana. Questo, è ciò di cui
abbiamo bisogno, perché le informazioni dalla Palestina non arrivano in
occidente! Ci sto provando. Raccolgo le voci dei tanti Khamal, dei Nadi,
dei Khaled, dei Fathy, dei Mohammed, delle Khadija, delle Mariam, delle Rahmeh…sperando
non so nemmeno io cosa. A cosa può
servire parlare con te? A nulla?
E allora? Non facciamo niente? Solo andiamo al mare, e in vacanza e a
fare compere come se tutti al mondo stessero meravigliosamente? Non posso. Non mi è possibile. La capacità di vivere
nell’ignoranza e nell’indifferenza per le sfighe che mi aleggiano intorno
non mi è proprio stata data con il patrimonio genetico. Non fa parte di me. Magari qualcuno sentirà. Almeno per capire anche solo un
minimo del dolore che si nasconde dietro quello che qui viene sbrigativamente
definito “terrorismo”. Perché
qui da noi, alla fine, non si sa nient’altro della Palestina: che è piena di terroristi,
che uccidono i bambini degli altri usando i propri. Fanatici che credono nella
guerra santa ecc. Come se la follia potesse mai trovarsi da una parte sola.
Come se ci si ammazzasse per divertimento. O se una famiglia provasse un gusto
gratuito ad immolare i propri figli più giovani per la libertà. *** Il dolore. Ci sono così tanti
tipi diversi di dolore… E con
delle quantità così pazzesche. Io mi sono chiesta tante volte
perché mai tra i milioni di persone che fanno ricerche, al mondo, nessuno mai
abbia studiato un sistema per trasformare il dolore in energia. Cioè, non lo
so, ma non mi risulta che qualcuno l’abbia mai fatto. Di certo, non abbiamo i
risultati. Eppure, perché nessuno studia il modo per misurare i sentimenti? Si
possono misurare tante cose: le onde elettromagnetiche, la velocità, il calore,
la forza, le energie prodotte da un corpo,… perché i sentimenti no? Se noi
misurassimo i sentimenti, e se potessimo trasformare le emozioni forti e
fortissime che viviamo nel tempo della nostra permanenza in terra, se potessimo
trasformare in energia tutto questo, sono sicura che avremmo risolto ogni
problema di crisi petrolifera e quindi tutti i conflitti che da decenni ne
derivano. Utilizzando come fonte energetica il dolore del mondo, avremmo
ovviamente un’energia pulita, e certo, purtroppo, assolutamente inesauribile,
rinnovabile. Perché anche per il dolore, ahimé, non c’è mai limite. Anche la felicità non è
misurabile. Nessun sentimento, non solo il dolore! Sì, hai ragione. Però, chissà
perché, ho l’impressione che se usassimo la felicità potremmo far funzionare
al massimo qualche lampadario, che poi potrebbe anche spegnersi
all’improvviso. Se usassimo il dolore, potremmo far andare un’intera
fornace, giorno e notte, instancabilmente. Pensa quanto lavoro per tanta gente,
a costi bassissimi. Ci guadagneremmo tutti!
2
Trovo che sia una poesia bellissima. Dello scrittore
israeliano Yitzchak Laor (cito dal libro delle edizioni del Manifesto “Meglio
carcerati che carcerieri”, tradotta da Gaja Cenciarelli, ma le virgole sono
una mia aggiunta, l’autore mi perdoni!) che nel 1972 fu uno dei primi
obiettori di coscienza di Israele, rifiutando di svolgere servizio nei territori
occupati, e per questo subendo una dura condanna, come poi molti altri negli
anni a venire. E’ strano, è incredibile quasi, vedere, sapere che in
Israele sono tanti gli ebrei pacifisti, eppure è la logica del braccio di ferro
quella che va avanti da tanti anni. Sharon è stato democraticamente eletto,
dalla maggioranza degli israeliani. Dunque
la maggioranza è per l’occupazione. Del resto, tanti marciavano nel mondo contro la guerra
all’Iraq, ma la guerra c’è stata lo stesso. Il mondo gestito da Braccio di Ferro… Loro non saranno perdonati. E credo non saranno perdonati nemmeno tutti coloro che sono stati a guardare, in silenzio. Perché il problema “non era il loro”. In realtà, la Palestina è da anni l’ombelico del mondo,
suo malgrado. Gran parte dello scontro mondiale tra occidente e musulmani nasce
proprio da lì: da un’ingiustizia perpetrata da anni sotto gli occhi di tutti,
in barba a tutte le dichiarazioni dell’Onu che Israele calpesta e butta nel
cestino. (Un giorno in Palestina mi sono sentita cinicamente dire che
“il mondo è governato dagli ebrei”. Certo, detto da un palestinese,
sembrava un’ovvia forzatura. Se però si pensa alla centralità di quel
conflitto nel mondo, e al fatto che Israele ha da sempre l’appoggio americano
per via della grande lobby ebraica e della sua posizione geografica… ). *** Il muro della vergogna. L’ultimo giorno che ho passato in Palestina, ho preso un
taxi per fare un giro in Galilea. Gerusalemme, Gerico, Tiberiade. Giro del lago. Nazareth.
Gerusalemme. E mentre percorrevo, sulla via del ritorno da nord a sud, la
superstrada riservata alle targhe gialle, mi immaginavo di essere
sull’autostrada che dalla mia città, Bologna, porta a sud, verso Roma. E immaginavo che corresse parallela ad un lungo muro, proprio
come in Galilea. Alto. Insondabile. Che chiudesse come in un bunker,
chessò, tutta la regione
Marche, con tutti i suoi abitanti. Che non potessero più uscire. E noi entrare. Proprio come
avviene lì, con il muro che chiude la Cisgiordania e Gaza: chi è dentro è
dentro, chi è fuori e fuori. E
quella superstrada per le targhe gialle, che vi corre parallela. Nessuno esce.
Solo i militari entrano. E ho pianto. Il mio stomaco era a pezzi. Il taxista non se
n’è accorto. Lui ci è cresciuto in questa follia. Non si accorge neanche
di esserci in mezzo. Per lui è norma. Si è abituato a tutto. Ad essere sempre di serie B. Per la sua carta di identità. Per il nome arabo. Per
qualunque cosa. Scendi che controlliamo la macchina. Sono vostri i bagagli?
Nessuno vi ha dato niente? E’ tranquillo lui. Sopporta, pazientemente. Persino col
sorriso. Non può vedere il mio groppo in gola. E mentre noi siamo lì, tranquilli, con la targa gialla delle auto israeliane, poco più in là si sta consumando la vergogna. Quello è il lager. E’ il forno. Dove i
palestinesi possono
anche morire (e muoiono, tanti) nel silenzio del mondo. Questo non ci viene detto. Ci viene detto solo quando un
palestinese fa saltare un autobus israeliano. E’ una cosa tremenda, certo. Ma chissà com’è,
dall’inizio della seconda intifada ad ora, i morti israeliani sono meno di
700, quelli palestinesi più di 3000. E noi non ci rendiamo conto di volare.
Mentre quelle persone a cui voglio bene sono ancora – da
anni – dentro la loro gabbia, costruita “per la sicurezza” di Israele, noi
siamo qui, al sole dell’ultima estate. E non ci rendiamo conto della nostra fortuna. Di cosa vuol
dire l’essere nati qui, casualmente, senza averlo scelto. Mentre i miei amici Yousef, Khalid, Marwan, …vivono da
profughi (anzi, come canibastardidimerda) con quella carta verde che non
consente loro neppure di vedere Gerusalemme, noi possiamo muoverci liberamente. Loro, trattati tutti da terroristi. Dentro la gabbia. Non
possono prendere un aereo a Tel Aviv. Non possono prendere un aereo ad Amman. Sono dentro la recinzione. E chi è dentro è dentro… Quante volte, mostrando loro le foto dei giri che avevo
fatto, Jaffa, il deserto di Giuda, … mi sono sentita dire, con tanto amaro in
bocca, Conosci il mio paese meglio di me… Hai visto posti dove io non posso
neanche pensare di andare. Settembre. Prendo il treno per Macerata, passo il week end con il mio
amico Maurizio, grande musicista e amante della montagna, che tra poco parte per
una spedizione in Tibet. Prendo il sole nel bellissimo parco dell’Abbadia di Fiastra,
tra acacie e biancospini. Ascolto la sua musica, i suoi voli. Poi vado tra i miei amici Elfi, nel bosco dell’Appennino
Tosco Emiliano delle mie radici. Vado con Fabio e il suo bellissimo bimbo a
camminare nel sole e nelle ombre tra querce e castagni antichi. Ascolto i miei
voli, i nostri voli. Tra breve andrò a Bolzano, tra le montagne del mio amico
Andrea, altro alpinista, Poi andrò a Napoli a trovare Ettore, di ritorno come me dai
territori occupati. Da Nablus, assediata un’altra volta. Girerò tra i vicoli
del centro. E ascolterò i suoi voli. Andrò nelle montagne friulane, quelle di Mauro Corona,
di Rigoni Stern, che mi iniettano cariche di bellezza ogni volta che li
leggo. I loro voli. Il volo della martora. Il bosco degli urogalli. E con loro,
volo di nuovo anch’io. Vado a Trieste da Giorgio, che da anni lavora e lotta per la
pace in Medio Oriente. Abbiamo parlato tanto a Ramallah, cenato insieme nei
localini del centro. E mi racconta dei giorni al Festival di Salisburgo, e poi
dell’ennesimo viaggio in Libano. Ascolto i suoi voli. Siamo nati in un paese libero. In un continente libero.
Possiamo volare, e respiriamo, assimiliamo il volo di altre persone, ricche,
meravigliose. E non ce ne rendiamo conto. L’immagine degli amici che non possono volare. Che non
possono vedere il mare, neppure per un week end, questa… non mi si toglie
dagli occhi. Questa è una vergogna per l’umanità intera. Tenere un paese in gabbia… e poi recitare il mea culpa per
la shoà, questa, questa è l’ipocrisia di oggi. Ieri siamo stati sordi ciechi
muti. E oggi siamo sempre sordi ciechi muti. Con i sensi di colpa, magari si va dallo psicanalista, ma non
si risolvono i problemi. Infatti i palestinesi sono sempre lì, chiusi dentro al
recinto, martoriati dai check point, … anche con i soldi degli americani. La signora odiava i gatti.
Arrivata a casa dopo tre mesi in Palestina, trovo nella
posta un libretto realizzato da un’associazione culturale di Prato, che aveva
realizzato un concorso di brevi racconti intitolato “Un Prato di fiabe”.
Avevo partecipato anch’io, ma la mia fiaba non è stata presa in
considerazione, e non è inserita nell’opuscolo. Ho chiesto comunque che mi
mandassero il libretto, e ne trovo una bellissima, scritta da Gianluigi Zottoli,
un bambino di 7 anni che frequentava a Prato la 2a elementare.
Appena tornata dal conflitto che infiamma il Medio Oriente, non potevo
non trovarvi delle associazioni, e mi sono commossa. Te la leggo. C’era
una volta una signora che odiava i gatti e si chiamava Marzia. Aveva gli occhi
in fuori, era un po’ grassottella e portava degli occhiali rossi. Che dire?
se gli adulti avessero la saggezza dei bambini… Certo, il piccolo Gianluigi, autore di
questo splendido racconto, è un bambino cresciuto in pace. Non ha conosciuto
guerre, odi, rancori, sete di vendette. E il suo racconto è insieme un inno
alla comprensione e un grido di ironia, perché vi è anche l’arguzia dello
stratagemma, laddove ci saremmo aspettati la risposta cattiva, vendicativa del
giovane Claudio verso l’arpia Marzia. Gianluigi è cresciuto in pace, e può
scrivere di pace, con pace dentro di sé. Un bambino che nasce nell’odio,
probabilmente scriverà più facilmente di odio, o di dolore, a meno ché non
abbia la fortuna di incontrare davvero dei bravi maestri di vita, che gli
facciano vedere la possibilità dello stratagemma, oltre la faccia gretta
dell’arpia che si trova davanti. Ma gli adulti che governano il mondo, non
avrebbero il dovere di possedere almeno questa
competenza? Coloro che si pongono a capo di un paese intero, che può avere
qualche milione di abitanti, come Israele, o centinaia di milioni, come la
Russia, gli Stati Uniti, la Cina,… chi vuole fare il “leader” di mandrie
di tali portata, non dovrebbe conoscere le arguzie per risolvere i conflitti,
anziché crearli o protrarli all’infinito?!?! Caro Gianluigi, chissà che un giorno tu
non ti dia alla politica, e non contribuisca a risolvere in modo pacifico le
controversie che altri non hanno saputo risolvere… Allora ci ricorderemo di
te, e di quella signora alla quale facesti anche amare i gatti.
3.
Sai, le storie atroci vissute dai
palestinesi sono tante. Tante. Ma non è che solo le storie atroci sono quelle
importanti. Anzi. Non sono le cose eclatanti quelle
che determinano la rivoluzione. L’odio. No. E’ il dolore quotidiano, lo
stillicidio. L’umiliazione di ogni momento, di ogni giorno. Quel tipo di
dolore che ti consuma, come le mani dei pellegrini hanno consumato nei secoli
marmi preziosi a forza di strofinare statue di santi e di madonne. Mille mani
oggi, mille mani domani. Certi luoghi sono consumati dallo strofinare millenario
di milioni di ginocchia in preghiera. E’ una corrosione tanto lenta quanto
implacabile. Non si può restaurare. Cosa fai, ci metti una pezza? Non puoi restaurare dei cuori
corrosi. Hanno una piaga costante, generalmente silenziosa. A volte esplosiva. Quella silenziosa è quella che mi
ha fatto più male. Sì, per la seconda volta nella vita mi sono resa conto –
e ho dovuto accettare – che proprio “non ho il fisico” per certe cose. La prima volta mi capitò in
Sierra Leone. Vidi talmente tanta violenza e dolore che il mio stomaco andò
letteralmente in frantumi. Sono
rimasta così quattro anni (anche per altri motivi ovviamente, non solo per la
Sierra Leone). Quattro anni in cui mi sono
sentita come il guerriero ferito e abbattuto, a terra, nel fango, mentre tutti
gli altri intorno a lui continuano a combattere, e lui non ha neanche le forze
per rialzarsi. Dopo quattro anni si è alzato, e ha ripreso la battaglia.
Ricordo quel momento molto bene. Sai, quei click che capitano in qualche momento
particolare. Fino ad allora eri completamente sconvolto, non riuscivi quasi a
muoverti, e poi succede qualcosa per cui in un botto trovi le energie e decidi
di rimetterti in piedi. Che è ora di essere nuovamente nella partita. In Sierra Leone
ho conosciuto per la prima volta la paura, benché non fosse la prima
volta che mi trovavo in situazioni di guerra. Ho avuto per la prima volta
problemi di sonno. Mi svegliavo all’improvviso, e ho continuato anche dopo,
per parecchio tempo. Ho verificato che “non c’ho il fisico”, nel senso che sto davvero troppo male. Non riesco a mettere il tipico
filtro tra me e le cose, un po’ come il chirurgo, che se vuole operare mica può
piangere per le sofferenze del suo paziente. Ecco, io non avrei mai potuto fare
il chirurgo. La violenza fisica-e-non
conosciuta a Freetown mi portò ad un’immagine completamente nichilista del
mondo e della vita. Lo schifo di cui parlavo sopra. Non è che mi sia passata
del tutto. In Palestina ho riverificato le
stesse reazioni. Non riesco a “fare l’abitudine” alle cose. Devo dire che
neanche ci provo. Non voglio abituarmi. Anche se questo significa continuare a
stare male. Voglio continuare a scandalizzarmi, a provare vergogna e orrore. A
soffrire per il dolore degli altri, con gli altri. Che sono così spesso persone
meravigliose. Semplici. Fratelli e sorelle davvero. Anche adesso sai, mentre te ne
parlo. Il solo tornare con la mente a certe situazioni e condizioni di vita. Mi
sento male di nuovo. Sento uno scompenso. Consumo un casino di energie. Come il
calore di un’intera fornace che brucia (ecco,… se potessimo trasformarlo in
elettricità …!) . E già immagino che tornerò dal
mio terapeuta di medicina cinese e lui nuovamente si metterà le mani nei capelli e
mi dirà, come qualche anno fa, buttandosi sulla sedia con sconforto: “Ma come
fai a ridurti così?! Non hai cielo!”. Ha
verificato la mia “tendenza alla fusione”. Io non gli avevo detto niente, e
rimango di stucco. Come ha fatto a indovinarlo?
Come fa a sapere che volevo fondermi con gli eucalipti del Burundi, e con
i muri di Gerusalemme Vecchia?! Misteri
dell’insieme corpo-mente umano. Meraviglioso. Stupefacente. Se è così, mi
sento un po’ meno strana. Insomma, ognuno è quello che è. Possiamo scegliere
solo in parte. Ed è bello che sia così. Mi piace pensare che sono-ciò-che-mi-è-stato- donato. C’era un disegno. E ognuno ha un suo compito. Forse. Dove eravamo? Ah sì, alle piaghe
silenziose. Quelle che a me fanno stare peggio. Io mi ci rifletto. Vedo la gente
che subisce, in silenzio. Ed entro in quel silenzio. Lo ascolto. Mi parla di
sofferenze indicibili. Di cuori umiliati abbattuti imprigionati per decenni. Di
voci che vorrebbero urlare. Di gambe che vorrebbero scappare via lontano. Di
sogni che vorrebbero volare. Di mani che vorrebbero lavorare, dipingere,
accarezzare, amare, coltivare piante ornamentali, suonare il violino…
Dedicarsi alla bellezza. Come le nostre, di noi che abbiamo il passaporto rosso.
Unione Europea: categoria A. Puoi dedicarti alle passioni che vuoi. Carta verde:
Palestinese. Paese non riconosciuto dalla comunità internazionale. Non esiste.
Possibile terrorista bastardo. Fottiti tu e le tue passioni. Quali passioni? Per
i palestinesi, tutti uguali, c’è solo la guerra santa. Tutti fondamentalisti.
Vado nel pulmino che mi porta a
Gerusalemme. Abbiamo appena passato il check point che secondo gli accordi di
Olso ci mette dalla fascia A alla B. Il pulmino fa qualche km e poi
c’è il prossimo check point, tra fascia B e fascia C. Vediamo se puoi
entrare. Di nuovo lo screening. Il setaccio. Un colapasta per far rimanere fuori
i rifiuti. Tu
puoi passare e tu no. Ogni giorno. Ogni giorno devi dimostrare se vai bene o se
sei un rifiuto. Se puoi entrare nell’enclave della razza eletta o no. Per me che mi sono infiltrata in
quel cuore silenzioso è già abbastanza per sentirmi male. Lì nel pulmino. Ma
come fanno a stare così? A subire continuamente, per anni, senza una parola? Io
mi incazzerei, non potrei sopportarlo, farei la rivoluzione! Io… Qualcuno mi
fa notare che l’hanno fatta. Ma l’hanno persa. E continuano a lottare, ma lo
squilibrio è totale. Da una parte gli aerei spia che vedono in casa anche cosa
metti nel piatto, cosa guardi alla tv, con chi scopi. Che ti ascoltano le
telefonate. Dall’altra, giusto le pietre contro i carri armati. O i corpi dei kamikaze. Il pulmino riparte, ma qualcuno è
rimasto a terra. E’ unpossibileterrorista. Mica gli è concesso vedere la Città Santa! Chi l’ha deciso, i
soldati israeliani.
E poi ogni giorno queste file. Sotto il sole o la pioggia. Anche se sei vecchio,
stanco. Un giorno, torno da Gerusalemme a
Ramallah. Arrivo al check point ma l’entrata a Ramallah è libera. Passo
tranquillamente. Invece, è l’ora di punta per l’uscita dei pendolari. C’è
il sole. Una marea di gente in fila. Neanche una tettoia. Mi sento dentro tutta
la loro rabbia, il loro sconforto, la loro stanchezza. Per me è impensabile
vivere piegando la testa. In fondo, non era questo che si imponeva ai torturati
dei campi nazisti? Essere padroni delle loro vite.Togliere la libertà di
esistenza pensiero sentimento. Dai zitto, non sei padrone della tua terra, il
tuo paese non esiste neanche. Non avete un governo decente, un passaporto. Cani
rognosi. Terroristi. Fondamentalisti che fanno esplodere i bambini. Mi vergogno. Vorrei sprofondare.
Guardo quelle fila di persone inermi, innocenti. Che sono uomini e donne e
giovani e cinquantenni che sono andati a lavorare, che non sono
canibastardidimerda, che non hanno diritto ad essere trattati così, perché i
check point non dovrebbero esistere, da nessuna parte, sono solo il frutto di
una società malata, perversa, che deve difendersi ma da se stessa, perché è
in se stessa che crea i propri ghetti e continua a ghettizzarsi, giudei dentro
gentili fuori, crea le proprie metastasi, e si sta mangiando da sola, con un
odio senza fine e il terrore che la angoscia, terrore di tutto e di tutti. Mi
vergogno da morire. Come fa il mondo a sopportare tutto questo?!?! E poi ogni
anno celebriamo il ricordo e il mea culpa per shoà! Nossignori. E’ comoda.
E’ veramente troppo comoda. Io non c’entro niente con la shoà. Io non
c’ero nel 1920, neppure nel ’30. Io non ho votato nessun governo
responsabile di genocidi. Non mi sento in colpa di niente. E’ del presente che
posso solo sentire vergogna: dell’essere parte di un mondo che non si muove.
Che accetta gli olocausti di oggi senza vederli, senza gridare, senza muovere un
dito. E continua a dire “mai più” senza vedere che l’olocausto è adesso.
Qui. Davanti ai nostri occhi, ogni giorno. Lasciare che esseri umani così,
nostri fratelli e sorelle, siano trattati come neanche le bestie sono trattate
nei nostri allevamenti da macello… Mi sento male. Guardo, penso, ascolto quel dolore
maledettamente silenzioso e sto per svenire. Ho conati di vomito. Ho bisogno di
piangere, di urlare, la camicia mi si appiccica addosso. Sto per cadere. Il
militare del check point di fianco a me col suo fucile in mano, con la sua
solita aria sprezzante, non vede come sto. Non voglio neanche che mi veda. Mica
ti do la soddisfazione di vedere che sto male grazie a te. Non cadrò in terra,
merda, devo reggermi in piedi. Poi
quello chissà cosa pensa. Che sarò lì per fare un attentato, per fingere
chissà cosa, prima di capire che sono straniera,… Mi reggo in piedi, vado
avanti qualche metro. Sono a pezzi. Che fatica. Mi vergogno. Mi vergogno da
morire. Perché esistono i check point? Perché il mondo non fa niente??? La
fila è sempre lì. Ci saranno 80 persone che aspettano. In tempi normali
Ramallah-Gerusalemme si faceva in pochi minuti di macchina. Sono 15 km. Adesso
se va bene ci vuole un’ora. Complimenti, avete fatto davvero progressi nella
gestione della situazione. Una volta si poteva andare tranquillamente a fare
compere nella bellissima Damasco. In giornata. Almeno una generazione fa.
L’odio è cresciuto a dismisura. Tutto chiuso. Dentro ci stanno solo gli
eletti, tutti gli altri fuori. Siriani, palestinesi, libanesi. Tutti terroristi?
Asse del male? Ma non è che il male ce l’hai tu nel cervello? Possibile che
tutti gli altri siano i cattivi e solo voi i buoni? Non è che puoi pensare a
vedere le cose diversamente? Chissà, magari se pensassi che hai occupato la
casa d’altri… Che stai distruggendo il quotidiano di milioni di persone, da
generazioni,… Possibile che tu non ti faccia domande, Israele? No certo, non generalizzo. Moltissimi si fanno le domande, e
si danno anche le risposte. Mica tutti gli Israeliani sono uguali. Molti sono i
pacifisti. Quelli che lottano ai check point per il rispetto dei diritti umani.
Quelli che vanno in carcere per aver fatto obiezione di coscienza. Le donne israeliane che vanno a monitorare il comportamento dei militari, e
molte altre azioni ancora. Per carità. Anche con il loro dolore ci si
nutrirebbe una centrale elettrica. Però i più hanno eletto Sharon, la sua
occupazione, il suo braccio di ferro. I più vorrebbero che i palestinesi non
esistessero proprio. I più non si ricordano che vivono in territori occupati
nel pieno diniego degli accordi internazionali. In case occupate con la
violenza, spedendo via a calci quelli che le avevano costruite e abitate per
anni, e che ora vivono - o meglio, sopravvivono - in campi profughi, da decenni, in altri
paesi, senza carta di identità, o senza un passaporto, senza neanche uno
straccio di aeroporto da cui possano scappare via. Sono fondamentalisti? Sono tutti
terroristi senza possibilità di redenzione? Perché non ti fai qualche domanda,
Israele, e provi a ricordarti che eri venuto nella Terra Promessa per creare un
luogo di pace, di latte e miele, e hai creato il posto peggiore che esiste oggi
sull’intero pianeta?!?! L’unico posto al mondo in cui un intero popolo vive
in gabbia, controllato da aerei spia, da check point per filtrare cattivi e
buoni, un posto dove se hai la targa gialla puoi andare su una certa strada, ma
se hai la carta verde non puoi prendere la targa gialla, quindi due persone
parenti o amici se uno ha la macchina con la targa gialla ma l’altro ha la
carta verde, non possono viaggiare insieme, prova a pensare Israele, era così
prima che arrivassi qui? Esisteva questa follia? Esisteva l’apartheid in Terra
Santa? Esistevano i kamikaze??? Quali sono i risultati della tua politica di
difesa-preventiva-assolutamente-giustificata? E da chi e da cosa ti difendi,
realmente? Perché nel resto del mondo non c’è bisogno di check point, aerei
spia, muri di separazione? Ce l’hanno sempre tutti solo con voi? E perché, se
fosse così? Sai, credo che se io andassi a
rompere le uova nel paniere in casa del più pacifico essere che esista,
sicuramente anche lui diventerebbe meno pacifico, verso di me. Naturalmente, al
tuo posto, griderei contro il suo “antisemitismo” perché non vuole
lasciarmi stare a fare il padrone in casa sua!
E’ quello che si sente dire tante volte da molti israeliani: “Noi
volevamo vivere con gli arabi, pacificamente, sono loro che non ci vogliono”.
Già, strano che per vivere pacificamente vi siate messi in casa loro e quelli
che avete mandato via, adesso, le loro vecchie case non le possono neanche
vedere. Guai ad aprire il capitolo del ritorno dei profughi. Quello sì, che fa
paura! Sarebbe stato così
semplice: costruirsi case nuove un po’ più in là. Rispettare i diritti di
tutti. Non farne per forza una questione religiosa. Lasciare che anche i
contadini arabi potessero usufruire delle fonti d’acqua, anziché portargliele
via insieme ai terreni migliori, per poi dire al mondo che “abbiamo fatto
fiorire il deserto”. Mica siete stati i primi, a portare l’acqua nel
deserto! Vabbè, basta. Mi sono già
arrabbiata troppo. Lo vedi? Non ho il fisico. Mi arrabbio per niente. Fanno
meglio quei tanti turisti e pellegrini che vanno sui luoghi santi a pregare, e
chissà cos’è la causa palestinese. Come quelli che vanno in Africa nei
villaggi turistici e nei grandi parchi naturali, poi tornano declamando che
l’Africa è meravigliosa, la nostra origine primigenia eccetera e loro sono
stati sconvolti dalla mitica febbre. Già,
magari se vanno a vedere come si vive in qualche baraccopoli metropolitana gli
passa subito. Ok basta. Ora ti racconto un’altra storia.
4 Si chiamava Munir.
Anzi, si chiama ancora, perché grazie a Dio è ancora vivo e sta
abbastanza bene (cioè: bene come può stare bene un palestinese, che sta male
vista la situazione allucinante in cui è costretto a vivere, ma diciamo che
gode buona salute), anche se io non lo vedo più. Ogni tanto ci scriviamo. Lo conobbi a una cena fra amici e
ci mettemmo subito a parlare di cose piuttosto personali, con molta tranquillità.
Mi raccontò di essere stato sposato diversi anni con una donna europea, di
avere la madre in coma, a casa, da oltre un anno, e un bambino piccolo che
riesce a vedere molto poco perché vive con la mamma, nel suo paese. Soprattutto mi colpiva la profonda
bontà che quell’uomo esprimeva. Una grande capacità di amare usciva dalla
sua bocca. Il modo in cui parlava
di quella madre che lui giornalmente accudiva, spalmandole la crema per il corpo
dopo averla lavata, affinché non le si seccasse la pelle. L’affetto estremo
con cui parlava della ex-moglie (“l’amica più importante della mia vita;
l’amore non finisce solo perché finisce la relazione sessuale”). Mi
risultavano caratteristiche di una grande rarità. Generalmente si sente parlare
con rabbia e con rancore di quello che è stato un ex-coniuge, e non avevo mai
visto prima un uomo accudire un genitore in fin di vita con tanta tenerezza come
quella che Munir esprimeva, e che ebbi modo di constatare di persona, un giorno
che andai a casa sua, con quella donna da oltre un anno stesa in un letto,
attaccata tutto il giorno a una qualche flebo, e che lui accarezzava come una
bambina. Non l’ho rivisto molte volte, ma
ogni volta vedevo una persona con una grande capacità di dare, ed ebbi modo di
notare che questa sua generosità era conosciuta: tutti parlavano di lui come di
una persona profondamente buona. A questo si associava un
temperamento collerico che a volte spaventava, a volte faceva sorridere. Sai,
come certi bambini che si arrabbiano e fanno la faccia imbronciata per dire in
realtà che ti vogliono bene. Un giorno per esempio, ero a
Gerusalemme e volevo comprare uno dei tipici vestiti che si trovano lì e che mi
fanno impazzire: in realtà non hanno nulla di mediorientale, sono fatti in
India, li avevo amati già nell’Est-Africa, e ne ho comprati diversi, sia per
me sia da regalare. Quel giorno Munir non stava bene,
o potrei dire che era davvero a pezzi, con una bronchite e un catarro che
tossiva in continuazione. Andai a trovarlo, e quando dissi che andavo al mercato
a comprare vestiti, lui fece la sua tipica espressione arrabbiata/corrucciata, e
con gli occhi scuri mi disse “devo venire con te, non puoi andare da sola,
vuoi scherzare, altrimenti ti trattano come una turista, ti fregano, ti fanno
pagare tre volte quello che valgono!” E così dicendo, si fece con me su e giù
il giro della Città Vecchia, alla ricerca di abiti indiani, che poi
effettivamente comprai, ad un prezzo più che conveniente.
Io stavo meglio di lui, sia perché
non avevo la bronchite, sia – soprattutto- perché non essendo palestinese non
avevo la minima parte dei suoi casini. Così ogni volta che lo vedevo cercavo di
dargli il mio sorriso, la mia pace. Un po’ ci riuscivo. Almeno quando stava
con me lo vedevo rilassarsi. La sua faccia corrucciata si stendeva un po’, e
alla fine anche lui accennava un sorriso. Anche quel giorno, nonostante il
malessere, lo vidi un po’ più sereno, dopo due ore insieme a girare nel suq. Dire che avesse dei casini
naturalmente è un eufemismo. Lui diceva di avere “una marea di problemi,
ognuno dei quali è un’enciclopedia”. Era vero, e dunque non si poteva
pretendere una faccia meno triste, o meno arrabbiata, o meno carica di tensione. Come per la maggior parte dei
palestinesi, le sue enciclopedie erano cominciate da piccolo. Non so esattamente in che anno e
in corso di quali scontri, lui era circa tredicenne, una bomba scoppiata vicino
a casa sua lo ferì ad una gamba che ne fu squarciata, tenuta insieme solo da un
pezzo di pelle penzolante. Passò un anno a letto e subì una marea di
interventi. Ovviamente rimase a lungo a casa da scuola, dovette fare molte
terapie, ed è rimasto claudicante e pieno di cicatrici. Un giorno, non molto prima che noi
ci conoscessimo, aveva ricevuto una lettera dal Ministero della Salute
israeliano, in cui lo si informava che doveva pagare una certa somma di
arretrati di assistenza sanitaria che non aveva pagato, per alcuni anni. Si
trattava di diversi milioni, che lui certo non aveva. Era rimasto allibito e,
alquanto incazzato, si presentò agli sportelli del Ministero per protestare.
“Scusate, ma a me in tutti questi anni non è mai stato detto che dovevo
pagare questa tassa. Come facevo a pagare se non lo sapevo? Come fa uno a pagare
il telefono, o l’elettricità? La paga perché gli arriva la bolletta! Ma se
non gli arriva niente come fa a sapere cosa deve pagare? Voi non mi avete mai
mandato niente, e adesso pretendete i soldi tutti in una volta!!!” Naturalmente la risposta fu che
“Sì, pretendevano i soldi tutti in una volta”. Poteva anche fare un
pagamento rateale ma in tal caso doveva essere sicuro di portarlo a termine
perché non avrebbe potuto interromperlo. E lui non poteva permettersi né una
cosa né l’altra, visto che le sue entrate erano estremamente esigue, come per
moltissimi (sia palestinesi che israeliani) dopo che il turismo è crollato per
via della situazione politica. E’ veramente triste girare per Gerusalemme (ma
per tutta la Terra Santa in genere) e vedere tanti negozi senza clienti,
ristoranti senza clienti, alberghi chiusi perché non hanno clienti. E la vita
in Israele costa come in Europa, alcune cose anche di più. Gli affitti sono
alti, l’elettricità costa cara, anche gli alimentari. Questa era solo una delle
enciclopedie di Munir. Anzi, sono già due: la mancanza di entrate che
consentano di vivere decentemente, e la tassa da pagare al Ministero della
Salute. Questa rimaneva lì, nella lettera che custodiva dentro un cassetto, che
mi fece vedere, con un insieme di rabbia, dolore, esasperazione. Poi naturalmente vi era il
problema della madre. Munir ha altri fratelli, ma solo in due sono rimasti a
Gerusalemme, e l’altro ha famiglia. Lui è dunque quello che ha più tempo a
disposizione. Tornato dall’Europa si è risistemato dalla madre, per
occuparsene, visto che non potevano tenerla in ospedale per un tempo così
lungo, come malata terminale. Così lui si è ritrovato pressoché da solo,
costantemente con la morte in casa. Questa donna che non parla, che non
riconosce più nessuno, che spesso grida ma non si capisce perché, di cosa
abbia bisogno, se ha bisogno di qualcosa o sta solo sognando. E a cui ogni
qualche ora occorre cambiare la flebo, quindi bisogna sempre essere nei paraggi.
Non è che puoi andare a fare un week end per riposarti da qualche parte. Era
stanco Munir. Si riconosce, una persona che vive con la morte in casa, anche se
non te lo dice. E poi c’era il problema del
figlio in Europa, e questa era la cosa più esasperante. Sì, perché
normalmente, in qualunque paese uno viva, è libero di muoversi come vuole,
tanto più se è cittadino europeo. Questo naturalmente non è vero se sei
palestinese. Munir ha la cittadinanza del paese
della ex-moglie, dove ha vissuto e lavorato molti anni. Ma devi sapere che
Israele non accetta che un palestinese abbia la doppia cittadinanza, perché se
ce l’ha… può anche andarsene. Come dire: “sei cittadino francese, danese,
italiano, ecc… e allora stattene in Francia, Danimarca, Italia…!”.
Infatti, i palestinesi che hanno un doppio passaporto, se lo dichiarano perdono
i documenti israeliani e quindi la possibilità di tornare a casa liberamente.
Ci tornerebbero da turisti stranieri. Dunque, cercano di non dichiararlo. Questo
significa però che non possono usare il loro passaporto straniero a casa loro,
e che di conseguenza se vogliono tornare in Europa… devono chiedere il visto!
Come un qualunque cittadino extracomunitario. E questa era esattamente una delle
pesanti enciclopedie di Munir: voleva tornare in Europa, per fare un po’ di
vacanza e soprattutto per vedere suo figlio, che adora, ma non poteva usare il
passaporto europeo per uscire da Israele, quindi doveva andare all’ambasciata
a chiedere un visto come un qualunque straniero in visita, e per fare il visto
doveva andare ogni volta a Tel Aviv, perdere ore di tempo, fare salti come un
trapezzista per organizzare l’assistenza a sua madre, e poi sentirsi trattare
a pesci in faccia, che il visto non glielo davano perché non potevano darglielo
adesso eccetera, e quindi tornare un’altra volta, e poi un’altra volta, e
poi un’altra ancora… Alla fine lo ha avuto, ma dopo
mesi di lotta, di giri a Tel Aviv, di file e attese e pesci in faccia, mesi in
cui stava male perché ovviamente non sapeva se e quando glielo davano, mentre
lui è cittadino europeo e avrebbe potuto venire in Europa liberamente, se non
fosse stato per il governo israeliano, grande democrazia, anzi come alcuni
sostengono, “unica democrazia del Medio Oriente”. Un giorno era così esasperato che
quando gli chiesi “cosa fai se non riesci a partire in estate?” mi rispose
“Cosa vuoi che faccia? Mi metto una bella bomba nello stomaco e mi faccio
saltare in aria! Tanto è solo questo il linguaggio che capiscono gli
israeliani, non capiscono nient’altro!”. Vedi, questo è quel tipo di
dolore per cui ti dicevo che io soffro con le persone. Me la sentivo addosso la sua
esasperazione. Lo capivo. Io non sopporto la mancanza di libertà. Puoi
togliermi tante cose, soldi, beni materiali, ma non la libertà. E capisco molto
bene che una persona (o un popolo) a cui togli la libertà, voglia solo farsi
saltare in aria. Probabilmente, in una tale situazione di esasperazione, quando
ti vengono posti solo problemi e nessun aiuto, anch’io non ce la farei, e mi
eliminerei in qualche modo. E questo è il motivo per cui si fa saltare in aria
la maggior parte dei palestinesi che lo fanno. Perché sono esasperati, e forse
anche perché hanno avuto dei morti in famiglia per mano di Israele, e vogliono
in qualche modo riscattarne la memoria. Una volta Munir venne a trovarmi a
Ramallah. Mi disse che non ci era più stato dall’inizio dell’Intifada. Che
a Ramallah ci andava spesso una volta, che aveva molti amici lì e anche
parenti, ma che non ci era più andato da dopo che la situazione si era così
inasprita, perché lui non poteva sopportare quei check point maledetti, e che
probabilmente si sarebbe incazzato
a tal punto che magari si sarebbe messo a litigare coi militari, e ci rischiava
anche la pelle. Poi si decise a venire, andammo a
mangiare fuori, salutò persone che non vedeva da tempo, andò tutto bene. Tornò dopo circa un mese, ma
successe che al ritorno, al check point di Calandia, rimase in coda (come
succede quasi sempre) per più di due ore. Quando lo rividi era furioso. Pieno
di rabbia, di odio, e mi disse “ non ci torno più! neanche se me lo chiede il
mio parente più caro, nemmeno se me lo chiede Arafat! Io NON POSSO passare quei
check point. Lo capisci? Non posso! Se ci vado un’altra volta, finisce che mi
sparano, perché io non posso accettare di stare in fila per due ore, in
Palestina, che è casa mia, capisci? Casa mia! E loro ci hanno piazzato i check
point!!! Questa era tutta Palestina, era tutta casa nostra, e loro sono venuti
qui, e vogliono fare i padroni. Ci ammazzerebbero tutti se potessero.
Sterminerebbero tutti i palestinesi, per realizzare il loro sogno sionista. No
mi dispiace, non mi chiedere più di tornare a Ramallah!”. E in effetti, ci siamo rivisti poi
poche volte. Separati da 15 km, e da due check point. So che è riuscito a rivedere suo
figlio. Sono contenta per lui. L’anno prossimo, per rivederlo, dovrà risubire
nuovamente, per mesi, la stessa trafila, lo stesso trattamento, la stessa
esasperazione. Comunque Israele è UDM: l’Unica
Democrazia del Medioriente. *** Non mi fraintendere, quando ti
dico che capisco l’esasperazione e le scelte che ne conseguono. Mi conosci,
sai bene che la mia repulsione della violenza è totale. Non solo la grande
violenza, la lotta armata eccetera. Io non sopporto neppure la violenza verbale,
o l’aggressività che si trova nel quotidiano. Non sono neppure capace di
litigare! Quando ho a che fare con gente aggressiva, per esempio sul lavoro
(come succede tante volte) divento piccola piccola, e alla prima occasione giro
i tacchi. Non riesco a farvi fronte, e poi.. non ne ho neppure voglia. Mi sembra
tutta energia sprecata. Figurati dunque se posso considerare la violenza come
uno strumento di risoluzione di qualcosa. Non lo è. Nel caso del Medio Oriente poi
questo è ben evidente, da decenni. Chi tra i palestinesi crede nella lotta
violenta non fa altro che stimolare ogni volta di più il giro di vite
israeliano. Chi in Israele crede che il braccio di ferro serva a sedare i
violenti, non fa altro che aumentare l’esasperazione del popolo e quindi
stimolare altra violenza. Tuttavia, è pur vero che se non
credo nella violenza, non posso neppure dire che la scelta nonviolenta sia
sempre-e-comunque quella vincente. Non lo è. E questo è davvero triste. Vi ho
pensato a lungo quando ero in Palestina, perché mi sarebbe piaciuto poter dire
alle persone che parlavano come Munir che la scelta nonviolenta avrebbe dato
migliori risultati, ma non potevo dirlo. Gandhi è molto, molto lontano. Mi riferisco per esempio al caso
della lotta del popolo saharawi, tra i cui profughi sono stata e di cui ho
scritto. Il popolo saharawi e il Fronte Polisario, occupati come i palestinesi
da un paese straniero, e da trent’anni in esilio in Algeria, hanno da molti
anni scelto la resistenza pacifica, la lotta politica, diplomatica. Per questo,
hanno avuto grandi riconoscimenti e aiuti internazionali. Sono sostenuti dall’Onu,
dall’Unione Europea, dall’Unione Africana. E poi? Sono forse venuti a capo
di qualcosa? No. Continuano a lottare disperatamente, abbandonati come sono a
vivere nel deserto algerino. Nessuna vittoria loro, nessuna vittoria i
palestinesi. In più, i saharawi non li conosce quasi nessuno, perché non
buttano bombe sugli autobus. A loro vantaggio, vivono più liberi, quelli che
sono profughi, se non altro viaggiano con passaporto algerino e possono muoversi
liberamente. Dunque, ne risulta solo una triste
deduzione: indipendentemente dal fatto che la lotta sia armata o nonviolenta, se
essa non interessa i paesi più ricchi e più forti (o addirittura se questi
hanno interessi contrari!), è comunque una lotta senza speranza. O quasi. Ad
ogni modo, non se ne vede la fine. E quanti soldi spesi inutilmente,
per decenni: aiuti internazionali, conferenze Onu, migliaia di persone
stipendiate, migliaia di viaggi aerei, di alberghi…. E quante vite sprecate. E quanta
sofferenza. Quanta sofferenza! Che a trasformarla in energia, non avresti
neanche più bisogno di costruire dighe e sfruttare la forza delle cascate dei
fiumi. Ce l’abbiamo dentro la forza
delle cascate, dei reattori nucleari. Dentro ai cervelli, dentro ai cuori. Se
solo riuscissimo a spenderla saggiamente, anziché a giocare a Braccio di Ferro.
(Che poi Braccio di Ferro, anche
se vince, cosa vince? A parte il gusto di dire “avevo i muscoli più potenti
dei tuoi”, cosa vince? Io non lo so. O forse sì, solo che non riesco a
trovare che sia un premio interessante).
5 Brigitte è una missionaria laica
che vive nella West Bank dagli anni ’60. Ha letteralmente dato la sua vita
alla Palestina. Persona semplice, che parla poco pur conoscendo varie lingue,
lavora a sostegno di donne povere. Era
andata nei territori palestinesi prima della loro occupazione nel ’67,
arrivando direttamente con un viaggio a Ramallah, senza passare da Israele.
Sicché sul suo passaporto non aveva il visto israeliano. Un giorno, dopo l’occupazione,
ebbe bisogno di andare a Gerusalemme, ma quando arrivò alla linea di confine le
chiesero il visto. “Non ce l’ho” disse. “Come sarebbe a dire che non ce
l’hai? Come fai ad essere qui, ad essere entrata in Israele?!” Lei,
candidamente, rispose “Io non sono mai entrata, siete voi che siete entrati in
Palestina!!!”. La rispedirono al mittente, e da
allora non ha mai più potuto andare in territorio israeliano, se non chiedendo
l’autorizzazione, come i palestinesi. E come i palestinesi ha avuto la mitica
carta di identità verde, con la quale non puoi oltrepassare la Linea Verde. La Palestina è diventata la sua
nazione di appartenenza, e probabilmente ha già passato lì più della metà
della sua vita. Un giorno, con lei e un’altra
amica straniera, volevamo fare un giro a Betlemme. Avevamo un’auto con la
targa gialla, che è quella israeliana, mentre le auto palestinesi hanno la
targa verde. Ora, devi sapere che per una concezione degna di un artista dei
sistemi di tortura, nella Terra Santa è complicatissimo viaggiare in compagnia,
mettendo insieme targa gialla dell’auto, e carta di identità verde di una
persona. Le targhe gialle possono
andare in Cisgiordania, ma non dappertutto. Le auto verdi ovviamente non possono
andare in Israele, e tanto meno sulle superstrade israeliane, anche se sono in
territorio palestinese. Su queste poi non possono neppure andare quelli con la
carta verde, anche se sono su una targa gialla. Se ti beccano uno in macchina
senza il permesso, possono sbattere in galera tutti, e tanti auguri. Dunque, noi eravamo in due con un
passaporto straniero, lei come palestinese, e auto con targa gialla. Non potendo
fare le strade israeliane, causa la presenza di lei, europea arabizzata, abbiamo
fatto le strade contorte e spesso sterrate che i palestinesi sono costretti a
fare (nb: sono a casa loro, ma devono fare percorsi forzati). Ci si mette
parecchio tempo in più evidentemente, ma tant’è. Passiamo i check point, tutto
bene, non le fanno storie particolari. Siamo quasi arrivate a Betlemme e quando
pensiamo ormai che sia andato tutto al meglio, troviamo un altro check point. Ci
fermano. Non potete proseguire. Perché? Per la targa gialla. Cosa?! Come
sarebbe a dire? Perché ora una targa gialla non può fare questa strada? E’
così e basta, tornate indietro, passano solo le targhe verdi. Ma per favore …
l’altra amica comincia a far vedere i suoi vari tesserini da operatrice
sanitaria, croce rossa e quant’altro, insiste che deve assolutamente andare,
che ha fretta eccetera ma niente da fare. Il soldatino si sta pure incazzando.
Tornate indietro, veloci! Toglietevi
di mezzo. Via. Via! Dunque, cosa succede? Succede che
noi due che abbiamo il passaporto europeo e la targa gialla non possiamo
proseguire per quella strada e dobbiamo tornare indietro, fino a Gerusalemme,
prendere la mitica superstrada israeliana e poi andare verso Betlemme. Lei no.
Lei al contrario non può venire per quella strada, così siamo costrette a
lasciarla lì. A piedi. A farle prendere il pulmino di tutti i poveracci
palestinesi a cui le strade e le auto sono precluse, e darci appuntamento alla
città della Santa Grotta ad un’ora x. Questa è una cosa che avviene
quotidianamente in Palestina. Non puoi viaggiare con chi vuoi, se vuoi viaggiare
con certe persone non puoi fare certe strade e viceversa. Io per andare da Ramallah a Nablus
ho impiegato 5 ore (60 km) con i mezzi pubblici passando 5 check point. Avrei
potuto fare più fretta, con la mia targa gialla, sulle strade israeliane. Ma in
tal caso …i miei amici non avrebbero potuto viaggiare con me e io avrei dovuto
andare da sola! Ti rendi conto? Come a dire –
chessò? -che tu per andare da Bologna a Faenza non puoi fare l’autostrada se
in macchina con te c’è uno che non è emiliano-romagnolo. Se invece tu sei un
locale, al contrario, non puoi fare la via Emilia, perché… è troppo
pericolosa! Dunque tu e il tuo amico non
potete in alcun modo andare a Faenza insieme, in macchina; se volete fare il
viaggio insieme, andate con i mezzi, come ti avevo detto all’inizio, passando
tutti i check point. Brigitte sale sul pulmino e dopo
mezz’ora di strade accidentate è a Betlemme. Noi dobbiamo fare il giro del
mondo e ci arriviamo dopo oltre un’ora. In tutto abbiamo impiegato 3 ore per
andare a Betlemme da Ramallah: una
distanza di poche decine di km. che in tempi normali si faceva in 30-40 minuti. Questo è dunque solo un altro dei
tanti esempi di quello stillicidio quotidiano che ti dicevo all’inizio. E se ci pensi, è dovuto a
meccanismi così assurdi, arzigogoli così perversi e maniacali, che penso
nemmeno il Sudafrica di Botha li avesse potuti ideare. Vedi? Quando ti parlo della
sofferenza palestinese, non è che intenda cose pazzesche, come le morti per
mano israeliana, o le distruzioni, la demolizione delle case abitate, ecc. Queste cose rappresentano
“solo” la proverbiale cima
dell’iceberg. Poi vi è l’iceberg. Il tutto. Sommerso. Ma non invisibile.
Potentissimo. Che se si schianta, ti cola a picco un Titanic. In effetti, quando
l’esasperazione scoppia, arriva anche a far saltare un autobus con 30 persone
dentro. Ed è la tortura quotidiana, per di più in casa propria, che porta a
questa esasperazione. Naturalmente gli israeliani
sostengono il contrario: che la tortura quotidiana sia una conseguenza degli
atti sconsiderati, violenti, terroristici dei palestinesi. Questione di punti di
vista. Di fatto, i palestinesi sono
quelli occupati, non gli israeliani. Questo è un dato, non un’opinione né un
punto di vista. Altro fatto: gli israeliani sono liberi. Vanno e vengono come
vogliono dal loro paese, ci girano dentro come vogliono, possono fare dai giri
in barca al parapendio al trekking. I palestinesi non sono liberi di
prendere un aereo, né di andare da una città all’altra, né di andare a
trovare un parente, o a una festa di compleanno se è in una città diversa da
quella dove vivono, né semplicemente di andare in un pub a Gerusalemme o a
Giaffa, se sono della Cisgiordania. Come a dire che tu, da Bologna,
non ti puoi muovere. Città bellissima, piena di vita, di locali, di fiere, di
università, di librerie… Ma hai presente, starci tutto l’anno? Non poterti
muovere per un week end? Non poter andare al mare, che è a un tiro di schioppo,
o sull’Appennino una domenica, o a Firenze, o al castello di Ferrara, in
bicicletta, … Niente. Neppure Casalecchio, perché c’è un check point anche
lì. Covo di terroristi. Sempre solo Bologna. Perché? Per
questioni di sicurezza. Resta lì, zitto, mosca. Fino a che c’è gente che fa
attentati ai nostri autobus non esci da Bologna. Ma io cosa c’entro? Niente,
ma fa lo stesso. Siete tutti uguali, tutti terroristi, tutti fanatici. Tutti
pronti a immolare i vostri bambini. Credo che non si possa disquisire
o filosofare su chi è in gabbia e chi no. Su chi viene esasperato e chi no. Su
chi è umiliato e chi no. Su chi non vede rispettata la minima risoluzione delle
Nazioni Unite. Su chi non vede rispettato neppure il minimo dei diritti umani.
Ma si sa: è una questione di
sicurezza. E gli ebrei, bisognava pur metterli da qualche parte, dopo tanti anni
di sofferenza e peregrinazioni.
6 E’ evidente infatti che se non ci fosse stata la shoà, la
storia sarebbe stata ben diversa. Le tensioni tra arabi ed ebrei vi
erano certo ben prima del ’48, ma probabilmente le generazioni di palestinesi
nate dopo l’epoca nazista si ritrovano a pagare più di tutte le altre, (e più
di ogni altro gruppo sociale al mondo) per l’orrore dell’olocausto.
Se il mondo non avesse sulla propria coscienza il senso di colpa per il
punto di svolta che è stato il secolo ventesimo, probabilmente ora la
situazione mediorientale sarebbe tutta un’altra. E, conseguentemente, non solo
quella mediorientale. Lo sterminio degli ebrei (e di
tutti i diversi: zingari, omosessuali,…) nel 1900 ad opera della Germania nazista è
stato uno dei momenti peggiori dell’intera storia dello sviluppo umano da che
se ne abbia memoria. Ed è stato talmente grande, talmente profondo, una
vergogna talmente abissale, che già per me è difficile nominarla, parlarne,
anche solo pensarci. E ancora dopo decine d’anni non possiamo esserne fuori.
Così, è difficile esprimersi contro un governo israeliano senza essere
tacciati di antisemitismo (anche se le due cose non c’entrano niente). Ed è
difficile essere sereni e critici verso le scelte ebraiche, senza cadere nei
sensi di colpa. Oltre a questo, resta un alone
strano. Un senso di colpa più ampio, non legato solo alla shoà ma alla lunga
peregrinazione, millenaria, degli ebrei. Tale per cui spesso si sente dire, da
chi propende per la causa israeliana, “sì ma loro avevano pur diritto di
andare lì; quella era casa loro già 2000 anni fa!”. Come se loro avessero davvero un
diritto religioso a stare proprio in quella fetta di mondo lì (tutti insieme, anziché
mescolarsi ad altri, come fanno tutte le altre religioni), e anche a danno di
chi ci fosse già. Diritto spesso
riconosciuto anche da chi non è ebreo, né religioso, né in alcun modo può
credere nella Promessa di un Dio al suo popolo eletto. *** Certo, penso che il sogno sionista
dovesse essere davvero affascinante all’inizio del secolo scorso. Anche senza
avere subito discriminazioni e persecuzioni per secoli, doveva comunque
risultare incredibilmente travolgente l’idea in sé di fondare un paese, una
società nuova, per tutti quei giovani che si recavano in Galilea da tante zone
di mondo diverse, con degli ideali comuni, a fondare i kibbutz, che nascevano da
un’immagine intrinsecamente socialista del mondo, della vita, del futuro. Tutto doveva essere messo in comune,
la proprietà privata abolita, e si mettevano le basi per la creazione di un
nuovo stato, che doveva essere la culla di un uomo nuovo. La terra promessa.
Dove tutto sarebbe stato meraviglioso. Credo che lo avrei fatto anch’io. Mentre ero a Ramallah mi è
capitato di vedere un film francese sul sogno sionista, e sul cinquantenario
dello stato di Israele. Era davvero molto interessante: filmati d’epoca, con
bellissime immagini di vita campestre, con quel bianco e nero un po’ rovinato
dal passare del tempo, che rendeva ancora più mitica l’immagine dei pionieri
venuti da tutt’Europa e oltre, per lavorare una terra incolta, vivendo
insieme. Quante persone, a vent’anni, hanno lasciato la loro famiglia nella
prima metà del ‘900, senza sapere se l’avrebbero mai più rivista. E
partivano in nave, verso l’avventura. E in effetti… molti la famiglia non
l’hanno rivista mai: decimata dalla shoà. Da un lato è molto bello leggere
i racconti di quel sogno collettivo. Migliaia di pagine di scrittori israeliani
ce ne parlano. Amos Oz, con la sua recente autobiografia (dire bellissima non
rende) ci apre le porte al mondo degli ebrei lituani ed ucraini, per circa 5
generazioni, ormai scomparso e solo immaginabile, cresciuti, educati in quel
sogno. Grazie ad esso, molti di loro hanno avuta salva la vita, mettendosi in
nave prima che l’ecatombe invadesse l’Europa. Prima che il mondo conoscesse
il baratro. Al contempo, l’amarezza è immensa per coloro che, ormai anziani,
hanno dovuto incassare il durissimo colpo del fallimento di quel sogno. Il mito
del kibbutz non ha resistito a tre generazioni. Per i nati nella comunità
socialista è diventato una gabbia. La mancanza di proprietà privata, quindi di
autonomia, è diventato il sinonimo dell’appiattimento individuale. Molti
giovani ne sono usciti per andare a cercare altro. Mentre guardavo quel film sui 50
anni di vita di Israele, dove più generazioni erano intervistate al contempo, pensavo
con un po’ di pena alla similitudine (quanto è assurda la vita!) tra i
giovani palestinesi, in gabbia da una parte, e quei giovani nati nei kibbutz,
che parlavano di un altro tipo di gabbia, culturale, familiare, ancestrale, da
cui uscivano con estrema fatica, con lotte psicologiche difficilissime, crisi di
identità. Esci dal kibbutz per fare cosa, diventare cosa, andare dove eccetera.
Tanta fatica per arrivare in Israele, e poi i nonni vedono i nipoti che
con altrettanta fatica cercano, in tanti, di andarsene. O almeno di conoscere
altro. Ma era bello, il sogno sionista.
Era davvero bello. Addirittura la sfida di creare una nuova lingua. E
l’hanno vinta. E se poi si pensa al sentirsi addosso da sempre
l’etichetta della diversità indesiderata, all’antisemitismo crescente
intorno agli anni ’20, era ben concepibile che chi apparteneva ad una
minoranza volesse avere “un posto tutto per sé”. “Quella storia è finita. E’
finita una volta per tutte. Cioè, qui non ci succederà più… Di nemici
ovviamente ne abbiamo ancora. Ci sono guerre. C’è l’assedio, e subiamo non
poche perdite. Certo. Non si può negarlo. Ma non ci sono persecuzioni. Questo
no. Niente persecuzioni, niente umiliazioni, e niente pogrom. Niente sadismo da
subire. Tutto questo non tornerà mai più. Non qui. Ci aggrediscono? E allora
noi rendiamo il doppio di botte”. Così,
alla fine degli anni ’40, spiega al piccolo Amos suo padre, giunto anni prima
dalla Russia. E più oltre, il racconto di una zia “I polacchi… umiliavano e
angariavano, così che piano piano ce ne andassimo tutti in Palestina, senza
farci più vedere. Per questo incoraggiavano persino l’educazione sionista e i
licei ebraici: perché tutti noi diventassimo una nazione, certo, perché no?
L’importante era che ci levassimo dai piedi…
La paura che abitava in ogni casa ebraica, una paura di cui non si
parlava quasi mai, ce la iniettavano solo di striscio, come un veleno, una
goccia ogni ora, era la paura terrificante che forse eravamo davvero delle
persone non abbastanza monde, forse eravamo davvero troppo fastidiosi e
invadenti, troppo intelligenti e avidi di denaro… Era una paura mortale…”
“Pensavamo che entro breve tempo, qualche anno appena, gli ebrei sarebbero
stati la maggioranza, e allora avremmo dimostrato a tutto il mondo come ci si
comporta in modo esemplare con una minoranza. Così avremmo fatto noi con gli
arabi: noi, che eravamo sempre stati una minoranza oppressa, avremmo trattato la
nostra minoranza araba con onestà e giustizia, con generosità, avremmo
costruito insieme la patria, diviso con loro tutto… che bel sogno” ([1]).
Ed è continuato, per lungo tempo.
“Nella mia famiglia Israele rimase sempre presente, era per i miei
genitori un motivo d’orgoglio e di sicurezza, un punto fermo: leggevano con
avidità qualsiasi articolo riguardasse Israele, seguivano qualsiasi notizia su
Israele, forse per allontanarsi definitivamente dal ricordo delle persecuzioni
razziali, per crearsi una nuova identità di ebrei liberi, padroni del proprio
destino. In questo clima siamo cresciute noi tre sorelle e non per caso nel
’68, un anno dopo la Guerra dei sei giorni, feci la prima grande scelta della
mia vita e partii per la “terra promessa”, dopo aver conosciuto e sposato un
giovane israeliano …”. Così racconta Manuela Dviri, l’italo-israeliana
che dopo la perdita di un figlio in Libano nel ’98 ha imbracciato la lotta
pacifista (ritrovandosi ancora una volta ad essere minoranza…). “Mi chiedo,
quando guardo i miei figli e nipoti, se non ho sbagliato decidendo di farli
nascere qui. Che futuro avranno in questa terra i loro figli e i figli dei loro
figli? Stanno pagando loro per le mie scelte, per i miei ideali di sionismo e di
socialismo, di cui ormai non è rimasto più nulla?” ([2]) *** E’ comprensibile, è
affascinante, il sogno sionista. Anche se, lo ammetto, per chi come noi non è
mai stato minoranza, e tanto meno minoranza odiata e fustigata, è difficile
capire il bisogno di identificarsi costantemente all’interno di un gruppo
chiuso. Più volte, leggendo racconti come questi, emerge questo fortissimo
senso di appartenenza ed esclusione. Ebrei da una parte, e i gentili, gli altri,
tutti gli altri, dall’altra parte. Noi e loro. Questo mi è difficile
comprenderlo. Ancor più mi è
difficile pensare una nazione che si identifica sull’appartenenza religiosa.
Se fosse giusto così… dovremmo pensare ad una nazione per i testimoni di
Geova, una nazione per gli Hare Krishna, …? Allora anche una nazione per i
cattolici? Una per gli anglicani? Una per i musulmani? Allora avrebbero ragione
a rivendicare l’unità della nazione islamica, …dal Marocco a dove, l’Indonesia? Perché si è voluto creare una
nazione sull’identità della fede? E questo poi, a distanza di poche decine
d’anni, si porta dietro delle contraddizioni enormi: perché ci sono gli
israeliani arabi, ci sono gli immigrati di altre fedi, ci sono gli ebrei che non
sono ortodossi e non vogliono una nazione ortodossa, ci sono gli israeliani
atei, ci sono quelli omosessuali, in aperta lotta con gli ortodossi …
La diversità non è contemplata. Perché,
ancora oggi, l’identità ebraica è ovunque così forte, quasi come fosse
davvero, ancora, concepita come una razza, una seconda pelle, inamovibile? Me lo sono chiesta tante volte,
specie quando ho conosciuto persone, colleghi di lavoro, altre con cui sono
diventata amica, e solo dopo molto tempo ho saputo che erano di famiglia ebrea.
E mi dicevo più o meno “e allora? Poteva anche essere buddista, non è che mi
cambiasse nulla”. Tra l’altro,
per me la sfera del sacro appartiene ad una dimensione talmente personale e
profonda, che di rado ne parlo. E mi piace che resti così, ognuno ha la sua
fede, e ...guai chi gliela tocca. Per questo non sopporto le esternazioni forzate,
per dimostrare la propria appartenenza (un certo abbigliamento, un certo segno
marcato sul viso ecc.). Faccio fatica a capire perché debba esistere oggi uno
stato fondato su un’appartenenza religiosa. Anzi, non lo capisco proprio.
Credo che la vera libertà sia piuttosto quella (come per i cristiani
e i buddisti ecc.) di abitare ovunque, lavorare ovunque, avere amici ovunque. Una cosa
è la fede, …tutt’altra cosa è il passaporto. Del resto, sono poi tanti gli
ebrei che dentro e fuori Israele riconoscono il loro bisogno – ormai – di
autoghettizzarsi. Come ha scritto
Uri Avnery in un bell’articolo apparso sul Manifesto proprio mentre l’ONU si
dichiarava totalmente contraria alla costruzione del Muro e il governo Sharon
rispondeva che andava avanti a costruirlo lo stesso “…il muro esprime in
realtà le antiche paure ebraiche. Nel medioevo gli ebrei si circondavano di
muri per sentirsi sicuri, molto
prima che fossero costretti a vivere nei ghetti. Uno stato che si circonda di
mura, è uno stato-ghetto. Un ghetto molto forte certo … ma sempre un ghetto,
che si sente sicuro solo dietro mura, torrette di guardia, filo spinato. Israele
non arriverà mai alla pace a meno che non si liberi di questa mentalità del
ghetto. E il primo passo non potrà essere che la distruzione del muro”. *** Oltre a questo, cioè al fatto che
Israele abbia la “sindrome del ghetto”, come la chiamano sul posto, mentre
ero lì pensavo alla stranezza, anzi al paradosso che quel muro costituisce,
nella misura in cui, contrariamente a ciò che è sempre avvenuto da quando
esistono le città, il muro fatto dagli israeliani non chiude se stessi, ma
pretende di chiudere gli altri. Aspetta, mi spiego meglio. Normalmente, se tu
hai paura dei ladri, metti le inferriate alle finestre per far sì che non
entrino, l’allarme in casa ecc. Nel medioevo, borghi e castelli si facevano
delle mura intorno, per lasciare eventuali nemici fuori. Ora, ciò che avviene
tra Israele e Palestina è che Israele fa il muro non intorno a sé, ma intorno
al nemico, per far sì che lui non possa muoversi da lì. Come a dire che per
tenere fuori i ladri da casa tua, metti le inferriate a tutta la strada, o a
tutta la città, così “se ci sono dei ladri” non possono muoversi. Non
chiudono per proteggere se stessi, chiudono per ingabbiare gli altri. Quel noi e
gli altri che ritorna inesorabilmente. Gli ebrei e i gentili. E naturalmente, “per sapere se
ci sono dei ladri” cosa fai? Parti dal presupposto che tutti siano potenziali
ladri. Noi e il nemico. Ecco qua. A meno che non siano proprio parte della tua
casa, gli altri sono tutti potenziali nemici. Da qui ad essere società malata
il passo non è breve, è brevissimo. Tutto il libro di Manuela Dviri
non fa che parlare della costante paura degli israeliani. La morte, sempre
presente. Non si può giocare per strada. Non si prende l’autobus. Non si va
in quel bar. Non si mandano i bambini a scuola per un certo periodo. Scorte di
cibo, di maschere antigas ecc. Un incubo. La paura non è passata neppure con la
realizzazione del sogno sionista. E
la persecuzione continua. In casa propria. *** E come fai a sapere se l’altro,
che è un potenziale nemico, è un nemico davvero o no? Come fai a decidere se
farlo uscire dall’inferriata – muro – cortina di ferro – check point? Ci sono i documenti, prima cosa.
Poi ci sono gli interrogatori. La scrittrice italo-israeliana racconta di essere
stata sottoposta ad un interrogatorio mai avuto prima, il giorno in cui si è
presentata all’aeroporto di Tel Aviv in compagnia di un’amica palestinese.
Sai, questo fa parte dell’equazione: l’amico del nemico è mio nemico. Anche
se è mio parente. Anzi, anche se è ebreo come me. Come dire: se quello è un
potenziale ladro ed è in compagnia di mio fratello, anche mio fratello è un
potenziale ladro. Fuori dall’inferriata tutti e due! E così Manuela si è trovata,
nonostante il passaporto israeliano, a dover rispondere ad una quantità
incredibile di domande: dove vai, perché, chi è questa palestinese con te,
come vi conoscete, ecc. Tutto controllato ai raggi x, pezzo per pezzo, ogni
vestito, ogni mutanda. Puoi immaginarti cosa è successo
a me (e succede a tantissimi) quando mi sono presentata all’aeroporto per
partire da Israele. E ho dichiarato di lavorare per l’Unione Europea! Unione
Europea? Finanzi il nemico? Allora SEI il nemico! Ho creduto di finire i miei giorni
nelle file dell’aeroporto di Tel Aviv. “Morta per sfinimento” avrebbe
potuto essere il ricordino sulla tomba. (No, grazie. Date via i miei organi
decenti e che tutto il resto venga cremato). Appena dichiari di essere
straniero, e tanto più di essere lì per questioni di lavoro, vieni subito
convocato nella zona dei trattamenti privilegiati. L’anticamera della cortina
di ferro. Che poi non ho capito perché ci devi passare anche quando esci! Posso
capire quando chiedi di entrare, ma per andartene via… Vabbè, ci sono tante
cose che non hanno senso in quella terra folle. Una più una meno non modifica
la sostanza. Però è una conferma! Sul bellissimo libro di Terence
Ward, Alla ricerca di Hassan (te lo consiglio, un bellissimo viaggio nel mondo dell’Iran) ho
trovato una frase ad hoc: “Il
carcerato sarà liberato prima o poi. Il carceriere resterà in prigione per
sempre”.
7 Non te lo immagini? Perché vale sempre la solita
equazione: ...l’amico del potenziale terrorista, è un potenziale terrorista.
O… dimmi con chi vai e ti dirò chi sei, eccetera. Di nuovo: la
differenza non è contemplata. Noi e gli altri. Buoni da una parte cattivi
dall’altra. Bianco e nero. Nessuna possibilità di grigio. (Figuriamoci
poi se ti piacciono i colori…) Allora, siamo in fila. Siamo
tanti. Tutto il salone dei check-in è pieno di gente in partenza. E’ la fine
di agosto, tanti sono venuti qui in vacanza, a trovare parenti e amici, e
tornano a casa. Purtroppo non posso dire che vi siano molti turisti, perché non
vengono più, come ti ho detto. Difficile pretendere che qualcuno decida di
andare in galera per trascorrere le ferie. O anche per pregare. Certo, è abbastanza incoerente.
La solidarietà bisognerebbe portarla nei momenti di sfiga, non quando va tutto
bene. Ma questo è un altro discorso. Ognuno fa le sue scelte. Dunque, sono in fila. Dove vai? In
Italia. Cosa fai qui? Lavoro con l’Unione Europea. Ah, okay, vieni con me. Ed ha inizio l’inquisizione.
Quaranta minuti circa. Impietosi. Allucinanti. Cattivi. Anche stupidi. Perché
le domande sono cattive ma anche stupide. Cosa fai, com'è il tuo lavoro, spiega esattamente, non ho
capito, fai corsi, quali corsi, come si svolge e-s-a-t-t-a-m-e-n-t-e il tuo
lavoro, quali sono gli argomenti di questi corsi, chi sono i partecipanti, (e
poi di nuovo: non ho capito, spiega e-s-a-t-t-a-m-e-n-t-e, che lavoro fai, dove,
con chi...) perché sei stata giù tanto tempo, non c'era bisogno di tanto tempo
per fare queste cose, il tuo biglietto dura sei mesi, ne sono passati tre
(complimenti, non lo sai che il visto che mi avete dato dopo tre mesi scade?! Mi
mangio la lingua e mantengo la calma; soprattutto, evitiamo che s’incazzino!)
perché torni adesso, quando hai deciso di partire adesso, quando torni, quando
lo decidi quando torni... hai incontrato dei palestinesi, sei stata nelle loro
case, sì rispondo, il parroco di Ramallah! come si chiama, sei stata in case di
israeliani, ... e casa mia: con chi vivi, quanto paghi d'affitto, perché paghi
tu e non l'UE, perché non vivi in albergo, sarebbe più comodo l’albergo, no
non mi piace l’albergo preferisco una casa ... e d’accapo: perché sei
venuta qui. Ci lavoro. Sì ma perché proprio qui, qui si sta male, c’è la
guerra è pericoloso, perché sei venuta Bagagli aperti. Tutto fuori. Pezzo per pezzo, vestito dopo
vestito, mutanda dopo mutanda. Libro dopo libro. Prima borsa. Posso rimettere
dentro? No, assolutamente! Ferma così! Non toccare niente! Seconda borsa. Pezzo
per pezzo eccetera. Macchina fotografica: da smontare. Tolto l’obiettivo.
Raggi x. Telecamera digitale. Aperta. Raggi x. Computer. Aperto. Smontato. Tolta
la batteria. Raggi x. Adesso accendilo. Penso che voglia anche vedere i miei
file! No, vuole solo assicurarsi che sia tutto okay, perché se lo hanno
danneggiato ripagano. Corretti. Posso rimettere dentro? No,
assolutamente! Ferma così! Non toccare niente! (L’ha imparato a memoria?)
Vieni con me! Camerino. Altro setaccio. Ci manca solo la visita
ginecologica, o una gastroscopia. Togli le scarpe! Se le porta via. “A piedi
nudi nel camerino” titolo di un vecchio film (a no, era un parco; mi sa che
era più bello). Passati ai raggi x anche i miei sandali con plantare anatomico.
Meravigliosi. Non contengono armi. Grazie. La perquisizione-inquisizione è
finita. Adesso puoi rimettere tutto dentro. Non mi abbandonano un attimo. Vengo letteralmente scortata al
check-in, la ragazza aspetta con me che la registrazione sia finita. Ben attenta
che non incontri nessuno, lungo il percorso, che nessuno mi dia niente. Mi
scorta fino al cancello che mi immette nella zona “extraterritoriale”. Ho
passato la cortina! Zona franca! Credo di essere invecchiata di 12 anni in un
sol colpo. Sono appena in tempo per non perdere l’aereo. Non vedo
neanche dove sono. Corro al gate e mi imbarco. Aiuto! Sono fuori? Sono veramente
fuori? Finché non lo sento decollare ho ancora dei dubbi. Anzi: ce li ho fino a
che non atterra a Fiumicino. Dormo. Penso. Sbollo. Ma sono matti? Ma cosa
vogliono? Ma cosa credono di trovare? (…che se davvero ci fosse un kamikaze da
sventare, nel tempo da quando uno entra nel salone del check-in a quando
decidono di farlo passare, fa in tempo a farlo saltare dieci volte
l’aeroporto!). Provo pena. Se questi a 20 anni sono addestrati a vedere in
tutti un possibile nemico (e chissà quante belle persone ci sono fra le tante
che passano da un aeroporto internazionale, quante belle cose si potrebbero
dire, e sorridere) come saranno a 30, a 50,..? come cresceranno i loro figli? Se
questo è il livello di malattia oggi, cosa sarà domani? Come pensano di poter
costruire la terra promessa così? Cosa faranno quando si renderanno conto che
neanche il Muro basterà ad esorcizzare le loro paure??? Sono sfatta. Una colite tale che la pancia mi è lievitata e
sembro incinta. Stanchissima. Sbarco a Fiumicino. Aspetto il volo per Bologna. Da un
pianeta all’altro. Anzi, come avessi compiuto un viaggio dantesco, dalle
viscere dell’inferno alla superficie, al purgatorio. Al gate per Bologna,
aspetto un paio d’ore. Dopo mesi
tra i check point, il dolore, la vergogna, mi ritrovo catapultata fra gente
abbronzata di ritorno dalle vacanze. Già, è fine agosto. Non mi ricordavo che
è un periodo di vacanze. Tutti contenti-sorridenti-rilassati. Quelli con i
souvenir in mano. Quelli con la maglietta “Messico” per far sapere a tutti
dove sono andati. Quelle con l’ombelico in mostra. Quelli che urlano perché
anche loro vogliono far saper a tutti dove sono andati. Quelle tutte truccate
attillate tacchi alti eccetera. Non mi ricordavo più. Io pantaloni palestinesi,
camicia palestinese stile Ramallah perché tra i musulmani non si portano camice
scollacciate. Sudore, stanchezza, borse sotto gli occhi. E ancora la paura
addosso. Uno zombi. Adesso la diversa sono io. Mi sento orribile. Guardo questa gente abbronzata scollacciata con le magliette
Messico e i tacchi eccetera, e mi prende il nodo in gola. Ridono. Sono liberi.
Sono stati in vacanza. Dove volevano. Mi sento male. Di nuovo lo stomaco che si rimette ad andare
in giro. Perché non possiamo
essere tutti così? Vorrei che
anche i miei amici di Ramallah (di Nablus, di Jenin, di Gaza…) potessero avere
tutto questo. I bambini con cui ho lavorato. Quei bambini cresciuti
nell’assedio e senza poter uscire dal Muro. Potranno mai comprare una
maglietta “Messico”? 8 Classica ironia
della sorte. Mi viene da ridere. Con tutta
questa gente… proprio io, qui! Ci mettiamo a parlare. Mai stato a
Bologna. La seconda volta in Italia. Venticinque anni. Nella mia città a fare
cosa? Veterinaria. Già iscritto? Sì.
Conosci qualcuno? No. Come mai qui ? (…questa volta l’interrogatorio lo
faccio io, iuhùù!) Sai com’è, io ho già fatto 4 anni di servizio militare,
e noi fino a 45 anni d’età dobbiamo rimanere a disposizione come riservisti.
Un mese all’anno. Ma siccome io sono ufficiale, dovrei farne tre. E non ne ho
proprio voglia. Così devo studiare all’estero. Lo ammetto, ho una sensazione di
invasione; un ufficiale israeliano nella mia città! la mia città pacifista! di
quelli che stanno anche ai check point a controllare serie A e serie B, tu puoi
entrare e tu no... Quelli che ti dicono ah italiana, a Berlusconi piace Israele
eccetera…! Dio mio! Vabbè. Andiamo avanti. Parliamo
per tutta l’ora del volo. Mi dice che lui “ai suoi uomini” comandava di
trattarli bene, i palestinesi. Ma
comunque sono proprio stupidi. Ti rendi conto? E’ per i soldi sai che si fanno
saltare in aria. Tutto grazie ad Arafat! Promettono
dei soldi alle famiglie dei cosiddetti martiri, e quelli si fanno saltare in
aria. E’ tutta una questione di soldi. Sembra convinto. E continua con la solita teoria:
noi volevamo vivere pacificamente con i palestinesi. Sono loro che non ci
vogliono. Sai già dove andare a dormire?
No. Quando arrivo vado alle informazioni e
chiedo l’indirizzo di un ostello. Gli faccio notare che arriviamo in
piena notte, forse alle informazioni turistiche non ci sarà nessuno. E comunque
l’ostello di Bologna (dopo il Pilastro) è lontano decine di km
dall’aeroporto, non ci arriverà con l’autobus a quell’ora. Dovrà cercare
un alberghetto. Mi chiede il prezzo. Beh, gli alberghi a Bologna sono cari. Penso già ad incastrare il mio
amico Gigi. Venuto a prendermi da Modena, si ritroverà un militare israeliano
in macchina! Bisogna pur dimostrare la nostra solidarietà! Lasciamo in piena
notte un ragazzo di 25 anni a dormire all’aeroporto? Uno straniero? Che non
conosce la nostra lingua?! Mica sono razzista io! Io non vedo in bianco e nero!
Io amo i colori. Mille colori. E pazienza se ha trattato male dei palestinesi.
Non faccio il giudice di nessuno! Mica sono Dio! Io prendo posizione, ho le mie
idee, ma mica discrimino a priori. E poi lo sai cosa faccio? Voglio fare con lui
quello che ho imparato proprio dai palestinesi: quante volte mi sono sentita
dire, anche da persone appena incontrate “questo è il mio numero di telefono, per qualunque cosa,
chiama tranquillamente” . E’ l’antica ospitalità beduina, tipica dei
popoli nomadi. Di quegli uomini del deserto, figli di Isacco e di Giacobbe, che
mai rifiutavano la tenda al forestiero. Perché il deserto è pericolo. La vita
del deserto è dura. Quando scendiamo, ecco Gigi. Lo
saluto appena e poi… guarda chi c’è qui: è un militare israeliano, cerca
un posto per dormire. Aspetti un attimo? Il
futuro veterinario va a chiedere le informazioni, gli danno il numero
dell’ostello. Telefono io con il suo cellulare (organizzatissimo il giovane,
viene qui per la seconda volta, e ha già un cellulare italiano). Segreteria
telefonica. L’ostello chiude alle 24. Sono passate da trenta minuti! E adesso? Mi viene un’idea!
Conosco un Bed & Breakfast, carino. Ma non ho il numero e non ricordo
neppure il nome! Bisogna andarci.
E’ dall’altra parte della città, ti ci portiamo se vuoi. Carichiamo il soldatino-futuro
veterinario in macchina. La sua valigia a stento ci entra. Gli illustro dove
siamo sulla sua grande mappa, gli spiego la mia città, che come diceva Lucio
Dalla “non ci si perde neanche un bambino”.
E arriviamo che è già l’una. Tiriamo la signora giù dal letto. Sì,
ha posto. Prezzo okay. Tu non lo sai, ma quello che ho
fatto con te l’ho imparato dai tuoi nemici palestinesi. Scarichiamo la valigia gigante.
Mi ringrazia moltissimo. Gli spiego dove siamo, dove sono i localini per
mangiare. E’ contento. L’arrivo
è stato fortunato. I bolognesi si sono dimostrati accoglienti.
9. "Volevo diventare ebreo" Una cosa che mi piace molto di
questo libro, è che chiude come si apre. Comincia parlando delle chiavi
dell’armadio, e finisce parlando delle chiavi dell’armadio. Un cerchio che
si chiude. Mi sono sempre piaciuti moltissimo
i libri così. Non lo so perché. Non è solo una questione stilistica. Forse
perché il cerchio che si chiude mi dà l’idea di portare un ordine alle cose.
In questo mondo disordinato, caotico, spesso folle, troviamo ordine almeno in un
libro. Un quadro compiuto. Un senso. Uno dei libri che più mi
colpirono per questo fu “Insciallah” di Oriana Fallaci. Comincia con i cani
randagi che invadono le strade della città, e dopo seicento pagine di racconto
(in cui più volte altri cerchi si aprono e chiudono, in un incastro artistico
che mi impazzire) si ritrovano i cani randagi che invadono le strade della città.
Sono passati molti anni. Per molto
tempo ho citato quel libro come uno dei più belli che avessi letto. Poi, ho
avuto la fortuna di leggerne moltissimi altri. Amo leggere ogni giorno di più.
E ormai amo anche “collezionarli” i libri. Mi piace comprarne in paesi diversi, avere libri che in
Italia non si trovano. Quando guardo la mia libreria sono felice! Leggere… ti
procura tante vite in più. Entri
in tanti mondi. Viaggi nello spazio e nel tempo. Ti immergi nei cuori delle
persone. Quest’anno però, l’autore che
mi ha coinvolta di più è stato senz’altro Mauro Corona. Ho letto tre libri
suoi uno dietro l’altro, e ne ho anche regalati (…giuro che non ho la
percentuale!). Ma addirittura ho fatto una cosa che non avevo mai fatto: ho
preso con me in Palestina un suo libro che avevo già letto (con le mie debite
sottolineature e commenti eccetera, come faccio in ogni libro!). Quando si
viaggia, si cerca sempre di portare il minimo di peso necessario, e così certo
non mi ero mai portata un libro già letto, ma caso mai una scorta di libri
nuovi. Partendo per i Territori Occupati,
sapevo che sarei andata in una situazione molto difficile, e così ho voluto
prendere con me uno dei suoi libri, perché leggerli era stato come assorbire bellezza.
Va bene. Però volevo parlarti del
libro di Kashua. Scusa la parentesi. Mi piace parlare di cose belle e le parole
mi scivolano da sole. Sayed Kashua è un arabo
israeliano, cresciuto in una scuola ebraica, divenuto giornalista lavorando in
ebraico. Nessuno, leggendolo, può immaginarsi che sia arabo. Avevo cercato il
suo libro in inglese a Gerusalemme Est, ma non c’era, e neppure conoscevano il
nome dell’autore! Credo che per ora si trovi solo in
italiano e tedesco, oltre all’originale ebraico. Il suo racconto, ti fa entrare in
un altro tipo di dolore ancora: quello appunto degli arabi di Israele. E per me
questo libro è pieno di un dolore profondo, terribile, benché scritto con
tanta ironia. Fa anche sorridere. Non è certo un libro strappalacrime. Ma il
dolore, mica è solo quello delle lacrime. Dell’urlare e strapparsi i capelli
dalla testa eccetera. No, anzi. Te l’ho detto. Quello silenzioso, dimesso,
occultato, è per me forse il più atroce. Nel caso di Kashua, alcune pagine
le trovo semplicemente strazianti. In Israele, da parte araba, quello che io ho
potuto conoscere personalmente, quasi toccare con mano,
è stato il dolore dovuto alla convivenza forzata con il nemico. Come nel
caso di Munir. Un nemico che non solo ha invaso la tua terra, mandato via
migliaia di persone, che controlla i tuoi movimenti, ma detiene anche tutti i
servizi su cui devi pagare le bollette e le tasse. Insomma, tutta la tua vita,
ogni giorno. Il libro di Kashua ci parla di un
dolore diverso, non solo dovuto
alla convivenza col nemico, ma alla lotta per la propria identità.
Profondissima, debilitante. Per anni. “Volevo diventare ebreo”.
E ancora “ero diventato un esperto in simulazione di identità… ringraziavo Dio
che non mi avessero notato”. Sbalzato dalla
sua comunità a quella dei bambini ebrei, di cui non conosce neppure la lingua.
Sembra il racconto di un migrante. E in effetti, a pensare una crisi identitaria
così profonda, mi viene in mente la vastissima letteratura di chi sulla propria
pelle ha vissuto la contraddizione dello sradicamento. Penso al romanzo autobiografico di
Tahar Ben Jelloun, Lo
scrivano, alla sua lacerazione – e alla
schizofrenia che ne deriva, per molto tempo - nel passare dal Marocco alla
Francia. Penso a quello, più famoso e più
datato, di Cheikh Hamidou Kane, L’aventure
ambigue, un classico della letteratura
senegalese. La “tentazione dell’Occidente” nel momento in cui l’Africa
manda i suoi bambini alla scuola degli europei, e così facendo, essi
dimenticano poco a poco il mondo dei padri. Sono sempre pagine strazianti. Di
perdita. Di non sapere più cosa sei. Quando leggo di questo
sdoppiamento, di questo dolore soprattutto in persone molto giovani, rivedo come
fosse ora il viso di un bambino che avevo a scuola qualche anno fa. Veniva dal
Bangladesh, in casa sua nessuno parlava italiano, e lui lo stava imparando, con
i compagni, poco a poco. Io a volte stavo proprio male nel
vedere la sua fatica (è una bella balla quando si dice “i bambini imparano
subito”, certo imparano subito le parole essenziali, l’ABC della lingua, ma
PARLARE è ben altra cosa, e sentirsi parte del gruppo è ben altro ancora!).
Una volta, per cercare di aiutarlo, andai a chiamare un altro ragazzino del
Bangladesh, più grande di lui, di un’altra classe. Li chiamai entrambi da una
parte, e chiesi al più grande di farmi da interprete. Improvvisamente, vidi il
mio piccolo con le lacrime agli occhi. Si vergognava! Non voleva parlare la sua
lingua davanti a me. Me ne andai. Li lasciai soli. E da
lontano, oltre un vetro, vidi che parlavano, e che lui aveva ripreso a
sorridere. Più tardi, quella paura gli passò. Ha imparato a convivere con
quella doppia identità. Ma quanta fatica! Vedi? Quanta sofferenza! Sempre.
Anche per piccole cose, che ci sembrano banali. Quante volte i bambini immigrati
si vergognano della loro diversità. E anche loro simulano di
essere altro da ciò che sono. E pensa un piccolo bimbo arabo…
in mezzo a tutti compagni israeliani ebrei. Con tanti esempi di discriminazione,
continua Kashua “Quel giorno capii che non sarei mai diventato un
pilota. E non per mancanza di meriti. Non avrei proprio neanche potuto darli,
gli esami di ammissione”. “… a un certo punto l’arabo pensa di essersi
completamente confuso con gli
ebrei. Una volta anch’io credevo che questo fosse possibile e ora,
ripensandoci, mi sento un idiota”. Ma quanta sofferenza prima di
arrivare a capire dove mettersi, da che parte stare, se-cosa-quanto rigettare
della propria appartenenza. Prima di arrivare a capire chi sono gli altri da te,
che sono nemici, ma qualcuno è anche amico. Che puoi anche provare amicizia per
un nemico, addirittura volergli bene, e lui a te. Che bel casino! Dev’essere
davvero dura essere adolescente in Israele, qualunque sia la tua "razza". Dover
decidere su un’identità, come se fosse un vestito. Avere voglia di cambiare,
e poi capire che cambiare non si può, perché non è un vestito. Sgomento!
E rendersi conto che sei sì
palestinese, ma sei israeliano. Ecco un’altra delle aberrazioni
della situazione mediorientale. Anche qui, credo che l’arte dell’assurdo
abbia superato di parecchio le condizioni dell’apartheid sudafricano. Almeno,
credo che lì i neri fossero considerati tutti uguali. Invece in Israele ci sono
i palestinesi di là dal muro, e quelli di qua dal muro, che non si chiamano
palestinesi ma arabi israeliani, perché hanno il passaporto israeliano, e la
carta di identità blu, mentre quella palestinese è verde. Qual è la
differenza? Non si sa. Però gli uni sono dentro la gabbia, gli altri sono
fuori. O meglio, sono in un altro tipo di gabbia. Quella della discriminazione
continua. Giornaliera. E in più, c’è la logica del divide et impera. Sono
fratelli, le stesse famiglie, cugini e parenti, gli stessi cognomi, ma non
possono frequentarsi. Non possono viaggiare insieme per quella storia che ti ho
detto targhe-gialle-carte-verdi eccetera. E così si creano odi anche fra di
loro, perché quelli con la targa gialla sono (si fa per dire) “liberi”,
possono persino prendere un aereo a Tel Aviv e andare dove vogliono, e gli altri
no. La discriminazione
innanzitutto.
E naturalmente, quanta gente bella
si incontra in questi ghetti. Perché la gente bella c’è dappertutto, sai? Sì.
Non ce lo dicono. I telegiornali ci parlano sempre solo dei più bastardi.
Di quelli che fanno attentati, degli altri che fanno guerre,… Ma il
mondo è pieno di gente bella. Ultimamente ai tg ci hanno parlato
di quella missionaria laica italiana – Annalena Tonelli - che ha passato la
sua vita a fare il medico tra i somali, e che a ottobre 2003 è stata uccisa.
Forse per la sua battaglia aperta contro l’infibulazione, che lì è
considerata un dogma. Io ero vicina a casa sua a Bòroma, ma non l’ho mai
conosciuta. Me ne avevano parlato più volte, conoscevo il suo lavoro. Ma ci sono tante persone così
sai, sconosciute, magari fino a quando non balzano alla cronaca per fatti
cruenti, come lei. Ci sono tante persone che lottano per gli altri, per i
diritti di tutti. Tanti che hanno fame e sete di giustizia, ad ogni angolo di
mondo, in ogni religione. Ho avuto la fortuna, il privilegio, di conoscerne parecchie, e questo riabilita un
po’ la mia immagine del mondo. Io credo che – se potessimo
contarli – i buoni al mondo sarebbero certamente di più dei cattivi. Solo che
i cattivi fanno tanto più casino. Altrimenti non sarebbero cattivi. Ovvio. Tra le persone belle che ho
conosciuto in Palestina, certamente devo annoverare il parroco di Ramallah.
Padre Ibrahim, il beduino, come amava definirsi, non senza un punta di malizia. L’ingresso della sua casa, un
lungo corridoio centrale con stanze a destra e a sinistra e la cucina in fondo,
è pieno di grandi piante. Considerando che a Ramallah c’è così poco verde,
già solo l’entrare in quella casa ti dà una sensazione almeno momentanea di
riconciliazione con l’ambiente. Padre Ibrahim mi ha accolta
davvero come una sorella. E per tutto il tempo che ho passato in quella città,
si è comportato come un fratello. Un fratello vero, che si preoccupa per te,
che vuole fare il possibile per farti stare al meglio. Sapendo che vivevo da sola e a
mezzogiorno stavo quasi sempre in ufficio, lui si preoccupava sempre che non
mangiassi abbastanza (non sa che sono riuscita ad ingrassare anche lì!). Da
subito mi disse “la domenica vieni da noi, questa casa è la tua casa”. Ed
effettivamente andai spesso a passare il pranzo della domenica lì in
parrocchia. C’erano sempre molte persone, e molte erano davvero poliglotte. I
religiosi parlano quasi sempre un sacco di lingue! Una volta potei pranzare
insieme al Patriarca di Gerusalemme e al suo aiutante, entrambi conoscono
l’italiano. Nel viso del
Patriarca, che è palestinese, si leggeva la sua fatica. La fatica del vivere
lottando per una causa così dura, così lunga, così
senza vie d’uscita, come quella del suo popolo. Anche lui boicottato (o
si può dire angariato) da Israele, che se potesse lo spedirebbe via, non
importa dove ma via. Perché non è uno che fa sconti, e da tempo ripete
instancabilmente che tutti i problemi tra arabi e israeliani dipendono
dall’occupazione della Palestina da parte di Israele. Finché essa non finirà,
non potrà esserci pace in Terra Santa. Dunque… nemico numero uno. Oltre al pranzo della domenica però,
era buffo padre Ibrahim, era tenero, perché se io andavo a trovarlo nei giorni
feriali, di pomeriggio, a volte ancora prima di dirmi ciao mi diceva “Hai
mangiato? (e senza aspettare la risposta) vai in cucina, apri il frigo, prendi
quello che vuoi!”. Pochi parroci in Italia sono stati
altrettanto accoglienti, anzi: ti guardano dall’alto al basso, ti selezionano,
chissà che tipo sei eccetera.. E per questo lui, giordano di nazionalità,
figlio del deserto, amava ripetere che lui è un beduino, e per lui
l’ospitalità è sacra. Non solo perché è cristiano, ma perché è cresciuto
tra dune di sabbia. E ci tiene a ricordarlo. Mi diceva (un po’ scherzando e un
po’ no) “guarda che mangiamo con le posate perché ci sei tu, da noi queste
cose si mangiano con le mani!”. La sua aiutante, sempre sudata,
tra i fornelli, di corsa a preparare ogni giorno per molte persone, cucinava
tante varietà di chicche mediorientali. Mi piaceva mangiare lì!
Feci la fotografia, che ho ancora, ad un piattone gigantesco, centrale,
del tipico riso preparato con grossi pezzi di carne, arachidi tostate e spezie,
a cui poi ciascuno nel suo piatto aggiunge il cremoso yogurt di lì. Che buono!
..quasi quasi mi prende un po’ di nostalgia. Vedi? E’ talmente un delirio
entrare e uscire da Israele… che uno si chiede inevitabilmente se sarà mai
possibile sedersi di nuovo alla stessa mensa di un fratello. Potrò mai tornare
a Ramallah? A fare un giro anche solo per pochi giorni? Rivedrò mai quelle
persone? Quando arrivi all’aeroporto di
Tel Aviv, non è mica scontato che ti facciano entrare. Ti chiedono mille volte
cosa vai a fare-dove-da chi, e-s-a-t-t-a-m-e-n-t-e! Tantissime volte capita che
gruppi interi di persone non vengano ritenuti “idonei” o meglio
“graditi”. Non lo so in base a
cosa. Mentre ero a Ramallah per esempio,
i ragazzini del centro giovani con cui lavoravo aspettavano da mesi un gruppo di
giovani musicisti francesi, che andavano lì a fare animazione, musica eccetera,
durante l’estate. Me lo dicevano così eccitati!
Si sentivano importanti a dirmi “Vedi?
Tutte queste persone vengono qui per noi, da tanti paesi diversi! Dalla Francia,
dal Canada…” Quei francesi
arrivarono a Tel Aviv, e furono reimbarcati sul primo volo per Parigi. Mai
usciti dall’aeroporto. Tanti biglietti pagati per niente. I bambini che
aspettano a vuoto, e chissà dopo come ameranno gli israeliani… Sempre a
confermare che Israele è la maggiore (o l’unica) democrazia del Medio
Oriente… Normalmente in un paese democratico ci si entra tranquillamente.
Perché no? E’ un crimine andare a fare musica tra dei ragazzini di un campo
profughi? Certo quel campo può essere un “covo di terroristi”, ma a maggior
ragione dovresti dar loro la possibilità di conoscere altro, conoscere la
bellezza. Magari sarebbero in meno a farsi saltare in aria. Comunque sono parecchie le persone
che vengono rimandate indietro. Per esempio è successo ad un fotoreporter
europeo, sposato a una palestinese. Lui certamente è uno che negli anni ha
fatto parecchio rumore. Insomma, uno che dà fastidio. E ha avuto la bella idea
di andarsene in vacanza. Al ritorno… lo hanno mandato letteralmente a quel
paese. Così, sua moglie con un figlio è in Palestina e non può uscire, e lui
non può entrare. Casi così ce ne sono moltissimi, perché tante sono le coppie
miste tra i palestinesi. Molti sono stati a studiare all’estero e sono tornati
con la moglie da un altro paese. Spesso le mogli non ottengono il visto di
entrata anche per anni. Ho conosciuto un medico sposato a una russa che da 4
anni non vedeva moglie e figlio. E tutte le mogli straniere che ho conosciuto lì,
stanno ben attente a tenere un profilo molto ridotto, onde evitare di essere
considerate fastidiose e scomode. Se vuoi stare in Palestina, non puoi dire più
di tanto quello che pensi, quello che vivi. Mah,
sorry. Mi sono persa. Volevo
parlarti di cose belle e sono ricaduta a parlare di quelle negative e tristi.
Sai com’è, non è facile tenerle separate. Si intrecciano continuamente. Padre Ibrahim per esempio, essendo
una bella persona e oltretutto un parroco, si ritrova sempre circondato da tante
persone piene di problemi. Ogni tanto mi accennava qualcosa, allora metteva via
la consueta aria scherzosa che poteva permettersi con me, e diventava molto
serio e triste. E’ evidente che lui non potesse
essere ottimista rispetto alla situazione generale, e neppure rispetto alla
famosa Road Map. Mi disse: “Questa che chiamano mappa, in realtà è un mappa
senza rotta, che non va da nessuna parte. Non è concepita per fare giustizia. E
se non c’è giustizia, non c’è nessuna soluzione”. Speravo si sbagliasse nel suo negativismo, ma purtroppo i
fatti gli hanno dato poi ragione, e nel giro di pochissimo. Mi raccontava di famiglie
disperate. Di gente completamente senza lavoro, che non sapeva più come fare ad
andare avanti, mancava di tutto. Mi parlava di persone con malattie gravi, che
non potevano essere curate, per via dei check point. Mi parlava di famiglie
separate, sradicate, dove genitori fratelli figli non si vedevano da moltissimo
tempo. Mi parlava di gente innocente, giovani che lui conosce uno a uno, in
carcere da mesi e mesi. Mi parlava della sua fatica a far andare avanti la sua
scuola, nonostante tutto. Continuando a fare caparbiamente educazione alla pace,
perché se non educhi alla pace che educatore sei? (e in quel momento pensavo
alle nostre bandiere della pace, in Italia, a certi genitori che si sono
incazzati perché hanno visto le bandiere appese nelle scuole dei loro figli,
… alcuni sono arrivati a denunciare degli insegnanti per avere fatto
“attività politica” a scuola, e miei colleghi da sempre impegnati per la
pace si sono trovati l’inquisizione tra i banchi, gli ispettori dei
provveditorati a fare il processo alla programmazione scolastica…). Che mondo
assurdo. Certo che anche se i cattivi sono meno, dei disastri ne fanno davvero
tanti. A tanti livelli. Dai più vistosi a quelli più sottili. Come bambini che
non possono vedere degli amici musicisti… E così, ancora, quanta sofferenza!
Quanta sofferenza inutile!!!
11 E poi ricordo
Mohamed e Khalid, e altri trentenni
come loro, impegnati come volontari a lavorare per i bambini e i ragazzini del
campo. Un campo profughi… dal 1948! Hai
presente quanti anni sono passati dal 48? Tanti
ne sono passati. Proprio tanti. Io non ero neanche nata, e ormai non è che sono
più giovanissima… Gente che un bel
giorno si è ritrovata gli israeliani in casa, e tanti saluti.
Molti arabi sfrattati nel ‘48, nel ‘67, hanno ancora in tasca le
chiavi di casa. E’ un simbolo forte la chiave in Palestina. A volte se ne
trovano di antiche nel mercato di Gerusalemme, quelle chiavi lunghe, pesanti,
delle porte di un tempo lontano. E’ un simbolo di dolore, di separazione, di
morte, ma anche di lotta. “Quella casa era mia, lì sono stati concepiti i
miei figli, lì è morto mio padre…” E
non la possono più neanche vedere. (…gli ebrei avevano dei diritti
ancestrali…). E poi, hai
presente cosa vuol dire essere in un campo profughi? Innanzitutto vuol dire essere catalogato internazionalmente
come un caso a parte. Hai i documenti diversi, delle scuole “apposta per te”
eccetera. Ma fra l’altro
vuole anche dire vivere in un posto che non può cambiare. Il perimetro di un
campo profughi infatti mica può crescere!
Fai conto che sia grande come un campo da calcio: dopo cinquant’anni è
sempre grande come un campo da calcio. Ma, per quanto possa sembrare
incredibile, anche i profughi si amano e si riproducono. Sì, fanno figli. I
quali, analogamente, si amano e si riproduco. Eccome. E così se in quel campo
ci stavano 1000 persone, dopo ce ne devono stare 2000, e poi 3000, e poi… E
dove vanno? Quelli che possono si comprano casa altrove, altrimenti, non potendo
allargarsi, il campo si moltiplica in altezza. Un piano oggi un piano domani, le
case crescono sempre un po’ di più, diventando come tanti termitai con
rispettive antenne e panni da asciugare, con le vie che sono sempre le stesse,
sempre strette, ma intanto sono arrivate le automobili (è cambiato il mondo,
dal ’48) e così non ci si muove più… Insomma: l’ambiente ideale per far
crescere bene le future generazioni. Anche Khalid e Mohamed sono nati lì.
Khalid era l’unico con cui potevo parlare inglese. Che tristezza non
poter parlare con tutti, perché non conosco l’arabo (come ci si sente
ignoranti, quando si viaggia! Ma va bene così, ricordarsi della propria
ignoranza è tutta salute). Un giorno ho cercato qualcuno che potesse farmi da
interprete, e così ho intervistato Mohamed. Volevo conoscere la sua storia,
almeno un po’. Non è facile con un interprete. Soprattutto mi colpiva il suo
impegno, volevo capire perché mettesse tanto del suo tempo dopo il lavoro a
disposizione dei ragazzini. E così mi rispose che lui, da piccolo, quando il
campo era in condizioni ben peggiori, non aveva avuto proprio il minimo spazio
per giocare, per fare cose adatte alla sua età. E voleva fare in modo che i
bambini nati dopo di lui avessero qualcosa in più. Un posto in cui mettersi. Un
posto in cui sperare. Mi diceva orgoglioso che quel centro giovani creato da lui
e alcuni altri già diversi anni fa, era l’unico disponibile anche fuori dal
campo, e quindi lo frequentano anche bambini da altri quartieri di Ramallah e Al
Bireh. E noi (noi europei intendo, con le nostre tasse) in quel momento lo
stavamo sostenendo, visto che lavorava con fondi dell’Unione europea: teatro,
internet-café, corsi di vario genere, attività estive per bambini, e varie
altre cose ancora. Era davvero bello vedere il
rapporto tra i “vecchi” e i nuovi ragazzini. Mi colpiva la tenerezza, la
fisicità tra gli uni e gli altri, diversa dalla nostra. Mi piaceva il fatto che
il centro fosse frequentato da tante età diverse, bambini piccoli, meno
piccoli, ragazzini, adolescenti, di ambo i sessi. C’è meno separazione che da
noi (qui non conosco luoghi in cui siano sia bambini di 6 anni che ragazzi di
17) e si aiutano gli uni gli altri. Un giorno, durante il campo
estivo, abbiamo fatto una gita tutti insieme, per portare i “topi” in
piscina. Feci un bel filmino con la mia telecamera digitale, comprata pochi mesi
prima. E’ un bel documento quel
filmino: infatti si vede cosa sono costretti a fare quei bambini per andare in
piscina, dato che la strada era stata chiusa sempre dagli amorevoli soldati, non
con un check point bensì con una vera e propria barricata in terra, che era
impossibile arginare in auto o pulmino. Bisognava
andare a piedi, oppure fare un gran giro su strada sterrata, ed è quello che
facemmo. Così nel filmino vedi i bambini che scendono, che vanno a piedi per un
bel pezzo nella terra, perché altrimenti il pulmino si impantana… Alla fine
arriviamo, e passiamo una bella giornata tra l’acqua e gli alberi intorno. I
bambini si divertono, ridono, e si dimenticano dei soldati, almeno per un po’. Vedi, pensando a quei bambini e
ragazzini, che erano pieni di vita e di voglia di fare, le ragazzine briose e
civettuole proprio come le nostre, anche se ben più pudiche visti i
restringimenti della morale musulmana, mi viene in mente un programma in tv di
qualche tempo fa. Ottoemezzo, condotto da Giuliano Ferrara e Barbara Palombelli. Lo guardo a volte, visto che nella tv italiana è tra le poche cose
un po’ intelligenti. Mi ha meravigliata però quella sera vedere che entrambi
i giornalisti conduttori parlavano dell’infanzia palestinese partendo da un
libro di un altro giornalista (Panella, del Foglio) autore di un libro sui
bambini kamikaze. Sembrava che quel
libro fosse “vangelo”. Non era messo in discussione. E’ vero
che in collegamento vi erano anche due psichiatri palestinesi che potevano
controbattere, ma di fatto si partiva da ciò che quel libro diceva. E quel
libro diceva fondamentalmente che in Palestina tutta l’educazione dei bambini
è volta a farne dei martiri. Facevano anche vedere varie foto che
“dimostravano” questa tesi, illustrando bambini molto piccoli con dei
candelotti esplosivi in mano. Insomma, dai commenti in studio ne usciva la
solita generalizzazione. Sai, come anni fa sembrava che uno andando in qualunque
strada della Sicilia incontrasse un Padrino, o certamente qualcuno con la lupara
in mano, perché in Sicilia “erano tutti mafiosi”.
O come quando si dice che i marocchini sono tutti trafficanti di droga, o
i mussulmani tutti integralisti, che gli albanesi violentano le donne eccetera. Sembrava che bastasse andare in
qualunque strada e città della Palestina per vedere bambini pronti a farsi
saltare in aria. E l’autore del
libro insisteva sul fatto che lì vi siano materiali didattici, fumetti,
programmi televisivi e non so cos’altro per la formazione del futuro kamikaze. Non so. Io sono stata tre mesi in
Palestina. A Ramallah. In un centro giovani. E ho lavorato non come giornalista
ma come pedagogista, responsabile di un programma a sostegno dell’infanzia,
proprio per offrire alternative (culturali, psicologiche, affettive,…) a quei
bambini che devono vivere su case che si alzano come termitai, e che dalla
Cisgiordania non possono uscire o quasi. Comunque chiedendo l’autorizzazione a
Israele, che può dargliela sì come no. Ho lavorato con insegnanti, docenti universitari di pedagogia, persino con
persone che (come me quando sono in Italia) lavorano per l’integrazione
scolastica dei
bambini con handicap. Mi piacerebbe dirglielo a Giuliano
Ferrara (che in generale ha un atteggiamento più volto alla ricerca delle
variabili e delle sfaccettature, e non così assertivo come mi pareva quella sera), che io
non ho visto persone impegnate in programmi pedagogici per la formazione di
kamikaze. E neppure ho mai visto
– in tre mesi a Ramallah – i bambini con i candelotti in mano. Ho conosciuto invece tanti bimbe e
bimbi, e adolescenti, che cercavano con tanta, tanta fatica, di rimanere normali laddove
sarebbe normale per chiunque uscire di testa e
diventare come minimo psicotico. Bambini che hanno avuto la casa assediata, che
hanno visto i carri armati e le bombe dalle finestre. Molti hanno avuto le bombe
in casa. Molti hanno avuto parenti e amici morti o feriti gravemente, là dove
non c’erano possibilità di cure. Ho visto bambini e giovani fare
teatro meravigliosamente, tenuti per mano da un’altra delle bellissime persone
che ho incontrato a Ramallah: un regista che si dava da fare proprio con loro,
quasi ogni giorno. Ricordo solo il nome: Fathy. Eccezionale. Un uomo di pace. Sempre col sorriso disponibile,
sempre tenero. E i ragazzini diventavano bravissimi lavorando con lui. Hanno anche
fatto un film durante l’assedio di Ramallah. “The cage”. La gabbia. (film
che è stato premiato ad un festival in Giordania). Mi piacerebbe che lo
vedesse, il pubblico di Ottomezzo, e non solo. Mi piacerebbe che
l’informazione fosse più equa, che non parlasse solo dei bambini pronti a
saltare in aria, ma di tutti quelli che fanno fatica a vivere, perché anche
solo per andare in piscina devi mettere i piedi nella polvere e nel fango, perché la strada
l’hanno chiusa dei soldati che non dovrebbero nemmeno essere lì. ZONA A,
secondo gli accordi di Oslo. Ma dove sono andati a finire??? Mi piacerebbe farti vedere i
filmini che ho fatto io, che sono molto semplici, ma ci sono bambini bellissimi,
che hanno tanta voglia di vivere. Di vivere bene. E davvero mi domando perché a
quei bambini non è consentito vedere Gerusalemme. 12 Oggi ha piovuto tutto il giorno.
Cielo grigio. Vento caldo dall’Africa. Ormai le giornate si sono
accorciate parecchio, e io ho sempre la tendenza a seguire gli orari del sole.
Non lo faccio apposta, però di fatto quando fa buio… a me viene sonno! Ho passato la giornata come mi
piace fare in questi casi: a leggere, scrivere, girare su internet. Un amico a cui avevo raccontato
della Palestina, mi ha mandato per e-mail questa poesia.
13. Il volto del nemico A distanza di un giorno, oggi
invece c’è un sole incredibile, cielo azzurro, sembra primavera. Non ci si capisce più niente, come si suol dire, alludendo alla nostra piccolezza nei confronti
dell’universo misterioso. Sono i tipici giorni in cui bisogna vestirsi “a
cipolla”, perché un momento fa caldo, poi fa freddo, poi fa di nuovo caldo…
Già, più o meno come nella storia. Pace, guerra, poi di nuovo pace, poi la
guerra un’altra volta. L’alternanza perpetua. Inevitabili yin
e yang che all’infinito si rincorreranno, dando origine l’uno
all’altro. Il buio alla luce, poi la luce al buio, e di nuovo il buio alla
luce... Tutto è movimento
rotatorio. Le onde del mare come i ritmi dei giorni e delle stagioni, così come
i nostri sentimenti. Lampedusa è tornata ad essere il
centro del Mediterraneo, suo malgrado. Gli sbarchi dei derelitti del mondo si
susseguono sulla piccola isola quasi senza sosta. Moltissimi muoiono prima di
arrivare a destinazione. Gli altri, non si sa più dove metterli. Le origini,
sempre le stesse: i paesi più poveri, ma soprattutto i paesi in guerra.
Kurdistan, Sudan, Palestina, Somalia… Eccola qui, la Diaspora. Già, si sente spesso parlare dei
somali della diaspora, i palestinesi degli diaspora, gli eritrei della
diaspora,… tutta gente che scappa dalle armi, dalla violenza, dalla morte, o
da una vita che nessuno vuole vivere, e allora è meglio rischiare una
traversata nel mare d’inverno, piuttosto che continuare così. Sono le fughe
di oggi, reali, in carne ed ossa. Ben più difficile mi riesce
capire quando si dice “gli ebrei della Diaspora”. Eppure si dice. Cioè: loro lo dicono di se stessi.
Intendendo tutti quelli che sono ovunque, ma non in Israele. Strano: loro non
sono mica scappati. Sono nati lì: negli Stati Uniti, in Canada, in Italia, in
Australia,… eppure li si chiama “della diaspora” ugualmente. Intendendo
quella fuga di un po’ di anni fa: 2500 più o meno ([3]).
Allora ci sono anche gli italiani della diaspora. Gli irlandesi della
diaspora. Perché solo gli ebrei si auto-chiamano così, partendo sempre dal
presupposto della fuga e della perdita della terra originale? Non lo so perché,
ma mi è tornato alla mente quel militare israeliano che ho avuto a fianco in
aereo, nel volo di ritorno. E come
nel solito quesito del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, mi si alternano le
due possibilità. Da un lato, penso a Manuela
Dviri,
che ha perso un figlio giovane in Libano, per una guerra inutile e stupida. Vedo
allora quei giovani con gli occhi delle loro madri. Ragazzi che vorrebbero fare
l’università anziché 3 anni di servizio militare. Che rischiano la vita ogni
giorno cercando di sventare i nemici armati. Giovani che sognano, che vorrebbero
viaggiare ballare innamorarsi. E certamente ho provato pena nel vederli
all’opera. E’ chiaro che non hanno scelto di nascere lì, e davvero non li
invidio. Poi però vedo l’altra metà del
bicchiere. E allora vedo solo i militari che uccidono, che abbattono le case di
gente inerme. Vedo quelli sui carri armati che sparano a ragazzini che tirano
pietre. Vedo quelli che hanno eseguito le deportazioni di migliaia di arabi.
Vedo quelli che arrestano persone che rimangono dentro senza processo per mesi e
mesi. Vedo dei “bravi ragazzi” che non fanno passare ad un check point delle
persone che sono in fin di vita, e devono correre a un ospedale, ma non ci
riescono, e muoiono lì. Davanti ai bravi ragazzi, che spesso ridono contenti:
un palestinese in meno. Mi rendo conto che quando mi sono
seduta di fianco a quel ragazzo, un po’ perché sconvolta dalla stanchezza e
dai vari chock attraversati in breve tempo, un po’ perché mi sembrava davvero
uno scherzo del destino che fra tanti posti di un aereo io fossi capitata
proprio lì… insomma, forse non ho neanche pensato (non ho voluto pensare) al
peggio. Non credo (o forse sì ma
l’ho cancellato dalla memoria) di
avere pensato “mi sto sedendo di fianco a uno che ha ucciso delle persone”. E’ stata più forte la mia
tendenza a non voler giudicare. Non so se ora lo rifarei. Beh, non è piacevole pensare di sedersi di
fianco a uno che ha ammazzato della gente. Ma cosa fai, glielo chiedi? Oh, puoi
anche farlo. In Burundi certo non c’era mai nessuno che mi rispondeva “sì
io ho partecipato ai combattimenti tutsi-hutu e ne ho fatti fuori un bel numero,
ho sventrato pance eccetera…” Eppure
ci dovevo lavorare. Che fossero puliti o no. Più probabilmente non lo erano.
Del resto, è per questo che ci si lavora. Nell’eterna lotta tra buoni e
cattivi, i buoni mettono le pezze ai danni dei cattivi. Poi a un certo punto non
mi faccio più domande. Tanto, mica puoi sondare l’animo umano. Allora è
meglio non sapere. Quando hai che fare con un
militare però è diverso. Lui uccide per mestiere. E’ addestrato per questo.
Dunque anche se non glielo chiedi, lo ha fatto di sicuro. Se non lo ha fatto è
stato per caso, ma era pronto a farlo. E non ci si può certo
giustificare col solito “ho eseguito gli ordini”. Anche i militari delle SS
si giustificavano così. Tutte brave persone che nella loro mediocrità hanno
solo eseguito ordini. E
così hanno trucidato milioni di persone. Ma
la dichiarazione - don milaniana - “L’obbedienza non è più una virtù” ha ormai 30 anni.
Disobbedire non è solo un diritto, è un dovere, quando gli ordini sono di pura
follia. *** Fino ad ora, a proposito della
sofferenza palestinese, ti ho detto che i motivi gravi sono tanti, ma io ti
volevo parlare soprattutto delle condizioni quotidiane. Quelle relativamente
“piccole” che fanno la fatica di tutti i giorni, e che in tal modo
costruiscono l’odio giorno per giorno. Come gli infiniti strati di una
stalagmite: goccia dopo goccia, una sull’altra, fino ad essere una
concrezione. Adesso invece voglio parlarti
delle altre cose. Quelle più terribili. Quelle su cui c’è una vasta
letteratura, in molte le lingue. Ti voglio raccontare una serie di casi che ti
traduco da uno di quei libri che ho comprato in Palestina, e che in Italia non
si trovano. Sono interviste raccolte da dei gruppi umanitari di laici che hanno
lavorato nelle zone più assediate della Palestina: Nablus e Jenin.
Ogni intervista illustra anche i volti delle persone, con piccole
fotografie in bianco e nero. Vedi, l’importanza del volto. La costruzione del
nemico passa sempre attraverso la negazione del volto dell’altro. Il non
guardarlo in faccia. Vedi queste fotografie, di queste persone semplici, uomini
donne, chi poveri manovali o contadini, chi con titoli di studio universitari, e
tutto ti sembra ancora più assurdo, ancora più terribile. Forse per questo non mi era
possibile essere categorica nei confronti di quel militare: perché lo avevo di fianco. Dovevo vederlo
per forza. E quando vedi lo
sguardo, l’odio è più difficile. Per odiare, bisogna negare l’umanità del
nemico. 14 Ora ti metto un
po’ di musica araba. Senti: ne ho di bellissima! CASO NUMERO 1. Chi parla è un medico di Save the
children: Ali Shaa, 38 anni. E’ una foto con la moglie, certo di quando erano
più felici. Lei ha un bellissimo sorriso. “Dopo il mio master in Salute
Pubblica preso in Norvegia, ho lavorato come ricercatore sul diabete. Mia moglie
Tahani è farmacista al Rafidia Hospital. Era incinta di otto mesi quando
successe. Nel tardo pomeriggio di
venerdì 12 aprile 2002, fummo benedetti dalla nascita di un bel bambino. Il programma era che Tahani
partorisse in uno degli ospedali locali, ma Nablus era sotto assedio
dell’esercito israeliano, e vi
era il coprifuoco totale, il che significava che avrebbero potuto veramente
spararci se fossimo andati fuori casa. Avevamo passato 12 giorni senza
elettricità e con un solo serbatoio d’acqua in giardino. Avevamo deciso di chiamare nostro
figlio Osaiid. Era un bel bambino, ma nato prematuramente. Già subito dopo la
nascita, ha avuto problemi di respirazione. Cominciai a diventare nervoso. Avevo
trattato centinaia di casi di nascite premature quando lavoravo in pediatria. So
dunque che in casi simili l’ospedale diventa assolutamente necessario.
Mi misi subito al telefono. Prima chiamai la Mezzaluna Rossa di Nablus,
per cercare di avere un’ambulanza. Non potevano aiutarmi. Mi mandarono due
ambulanze alle sei precise, ma non sono mai arrivate.
Era troppo pericoloso per loro proseguire. Si sparava ovunque e i
militari impedivano i proseguire. Mi misi a fare moltissime telefonate. Chiamai
il mio capo, di Save the children, che era a Gerusalemme, ma anche lui non
poteva aiutarmi. Chiamami una linea per l’emergenza che era stata istituita di
recente a Nablus, ma anche lì ebbi la stessa risposta. Tre dottori mi
spiegarono al telefono come potevo aiutare mio figlio stando a casa. Per un
po’ sembrò sufficiente. Il respiro di Osaiid migliorò, e Tahani ed io
cominciammo a sentirci più ottimisti. Il
nostro figlio maggiore, Nashat, aveva quattro anni e mezzo, ed era molto felice
di veder arrivare un fratellino. A sera, le cose sembravano andare meglio, e lui
si era messo a giocare con Osaiid. Io continuavo a cercare un modo per
raggiungere un ospedale. Avevamo bisogno solo di semplici cose. Sono sicuro che
tutto sarebbe andato bene, con poco. Ma alle 11 di sera, ebbe il suo primo
attacco, e il respiro si fermò. Gli feci la respirazione bocca a
bocca. Lo aiutò un po’. Ma subito dopo, un altro attacco.
A mezza notte e un quarto, ci fu l’ultimo.
Continuai per quarantacinque minuti a cercare di resuscitarlo. Dovetti
arrendermi. Fu terribile dover guardare mia moglie negli occhi. Ci sentivamo
devastati. Nashat si era già addormentato,
prima che le cose si mettessero al peggio.
Nelle prime ore della mattina,
dovetti scavare nel giardino la tomba per mio figlio. Osaiid fu messo a
riposare sotto il nostro ulivo, e io posi su di lui una pietra con qualche
fiore. Ti immagini l’ironia? Trovarti a seppellire tuo figlio, quando avresti
dovuto salvarlo… A quell’epoca,
io dovevo essere in Nuova Zelanda, per una conferenza proprio sulla protezione
dell’infanzia. Ma il viaggio era stato annullato, causa l’invasione. Tutta la situazione era così tragicamente ironica. Al mattino, Nashat chiese subito
di suo fratello, e noi non sapevamo cosa rispondere. Tahani disse che era andato
ad Amman. Ma Nashat è un bambino sveglio. Cominciò subito a guardarsi attorno,
guardava dentro i pannolini. Poi
vide fuori, la pietra. E capì. Io ora spero solo per la pace.
Perché un giorno possa tornare tutto ad essere normale”. CASO NUMERO 9. Mahamoud Ibrahim
Aziz. 40 anni. Guarda la piccola immagine: un
volto serio, barba e capelli fitti, brizzolati. Una maglietta sportiva. Vive a Nablus nel campo profughi
di Balata. Ed è lì che due
olandesi raccolgono la sua storia. “La casa a due piani, in Zioud
Road, che mostra vari danni, appartiene a lui.
Vive lì con la moglie, tre figlie maschi e due femmine.
Il sig. Aziz è un operaio non specializzato, che si è sempre guadagnato
da vivere facendo molti mestieri. Da quando è iniziata la seconda Intifada, non
è più riuscito a trovare un lavoro stabile. Tutte le entrate per la famiglia
provengo quasi completamente da un altro membro della famiglia e ammontano a
circa 200 $ mensili. Divide la sua casa con la famiglia di suo fratello, che ha
moglie e sette figli. Mr. Aziz racconta che il 22 aprile 2002, verso mezzanotte,
la casa composta di 4 stanze e la cucina, fu colpita da due missili lanciati da
un elicottero Apache. Circa mezz’ora dopo, fu colpita da un terzo missile.
I 3 missili avevano colpito il lato della strada. Due di essi erano
ancora lì, e ci furono mostrati. Si poteva leggere il numero di serie.
Avevano abbattuto completamente il muro esterno della stanza. Ma anche il
retro era danneggiato, le finestre distrutte, altri muri crepati. Molti i danni
alla struttura. Mr. Aziz e la sua famiglia erano lì
dentro quando i missili hanno colpito la loro casa. Sua moglie, è stata colpita
a un braccio, e lo ha perso. E’ rimasta cinque giorni in ospedali. Nessun
altro membro della famiglia è stato colpito”. CASO NUMERO 11. Nabiha Ahmad
Dandan. 42 anni.
Anche lei ha un bel viso sorridente, con gli occhiali, i capelli raccolti
dietro. Intervista raccolta dagli stessi due olandesi, sempre al campo profughi
di Balata, Nablus. “Anche Nabiha abitava la stessa
strada. Una casa di sua proprietà, su due piani, dove stava con la madre di 82
anni. La sig.ra Dandan è
divorziata, e non ha lavoro. Prende 8 dollari al mese facendo servizio una volta
a settimana presso una scuola per infermiere. Riceve aiuto alimentare dal
Programma Alimentare Mondiale dell’Onu. Nabiha racconta che l’1 aprile
2002 i carri armati israeliani cominciarono
a tirare contro la sua casa, dopo che ne avevano già distrutte altre vicine. Il
muro davanti mostra i segni dei colpi. Tutti i vetri sono distrutti. Per tutto
il periodo dell’assedio lei e sua madre sono rimaste nascoste nella parte
della casa sul retro, rimasta in piedi. E non potevano uscire per cercare
cibo”. CASO NUMERO 16 Maryam Saleh
Al-Rozi, 36 anni,
nubile. Intervista raccolta il 30 aprile
2002 da Helena ter Ellen, nella città di Jenin. La piccola fotografia mostra le
rovine della sua casa bombardata. E
una donna triste a fianco, con gli abiti musulmani. “Il primo giorno
dell’invasione, eravamo tutti in casa: io, i miei fratelli e sorelle, e dodici
dei loro figli. Sentimmo arrivare i carri armati e gli elicotteri Apache, che
cominciarono a sparare pesantemente. Noi non volevamo lasciare la nostra casa.
Noi non avevamo niente da nascondere, quindi pensavamo che i soldati non
dovessero avere nulla contro di noi. Poi, in ogni caso, non avevamo altro
posto dove andare. I bambini
avevano molta paura. Non riuscivamo a calmarli.
Il secondo giorno andò ancora peggio. Gli Apache cominciarono a
bombardare nelle nostre vicinanze. I missili avevano fatto fuoco ovunque. I
bambini cominciarono a piangere e a gridare quando un razzo colpì e distrusse
il terzo piano della nostra casa. Ci trasferimmo tutti al piano terra. Il terzo
giorno, fummo colpiti ancora di più. Cominciammo a correre da un angolo
all’altro della casa. Verso
mezzogiorno ci fu un attimo di calma, allora andammo di corsa dai nostri vicini.
Il piano terra da loro era un po’ più solido. Eravamo circa 30 persone lì.
Nel pomeriggio, i razzi cominciarono a colpire il terzo piano della loro casa,
che andò in fiamme. Dovemmo scappare in un’altra
casa ancora. Ma era davvero difficile andare fuori, a causa delle rovine
dappertutto. Non ho sentito spari venire dalle case dei miei vicini. Ho sentito
e visto solo i colpi degli Apache e dei carri armati. Erano dappertutto. 15 Ma queste sono
solo alcune tra le tante storie. Le storie di quotidiana sofferenza, nella Terra
Promessa. E sono tanti, tantissimi i
palestinesi che soffrono per motivi gravi. Per la morte. Per la distruzione. A noi, qui in Italia, arrivano
sempre solo (o quasi) le notizie relative a quando i palestinesi sono i
carnefici. Mai quando sono le vittime. E dire, che sono molto più vittime che
carnefici. Ma il mondo è così assurdo.
Davvero, è lecito chiedersi dov’è Dio. Se hai la risposta, magari mi dai
un’illuminazione. Perché io non ce l’ho.
Da un po’ di tempo a questa
parte poi, tutto sta andando fottutamente peggio. Anziché risolvere i problemi
della Palestina, è il resto del mondo che sta diventando la Palestina. Hai
capito che quando non si cura un cancro, diventa metastasi? Ed è così che sta
avvenendo. Prima hanno fatto diventare l’Irak un’altra Palestina, con posti
di blocco ovunque, i militari che mettono le mani dappertutto per verificare se
i civili hanno armi eccetera. Ma “l’allarme terrorismo” si va diffondendo
come un’epidemia. Dilaga. Come l’invasione delle cavallette. S’infila
ovunque. Passa attraverso gli spifferi della tua vecchia porta, che chiude male. Secondo me finirà che tra un
po’ anche negli altri aeroporti del mondo, non solo a Tel Aviv, ti faranno la
vivisezione prima di salire in aereo. Un terrorista potrebbe nascondersi
ovunque, why not?, anche su un modesto volo Bologna-Isola d’Elba.
Allora ti chiederanno “cosa vai a fare, perché, a trovare chi,
cos’hai nella borsa... eccetera” anche
se sali nel traghetto in partenza da Livorno. O se giri vicino a un centro
commerciale, simbolo anch’esso dell’opulenza liberistico-occidentale, e come
tale nel mirino di Bin Laden e dei suoi. (Il genere umano è sempre stato pieno
di pazzi, ma nel 3° millennio forse finiremo davvero nel Guinness dei primati,
battendo tutti i record precedenti). O magari arriveranno a fare qualcosa che
somiglia veramente alla visita ginecologica. In fondo, i terroristi potrebbero
anche inventare un esplosivo per kamikaze modello tampax. Sto facendo Cassandra. Lo ammetto.
Sai, dopo le stragi in Iraq, dopo il terrorismo di stato e non, le centinaia di
morti, gli attentati di Istambul,… non è che si possa vedere molto positivo.
Eppure vedo tante donne incinte in giro… Boh. Mi chiedo davvero come si faccia
ad avere voglia di fare figli con un panorama del genere. In Burundi, tra gli eucalipti, le
banane, le papaie, nonostante la guerra atroce e senza fine, c’era ancora un
grande senso di vita. Di rigogliosità. Qui non la vedo. Ma non farci caso.
Forse è solo che sono meteoropatica, e ora piove e c’è nebbia. E quando c’è
nebbia, il sole non si vede. Tutto sembra senza vie d’uscita. Forse. Forse è
che non ci sono davvero. Allora penso solo che l’essere umano a Dio è venuto
proprio male, mentre i gorilla sono
simpaticissimi, e certamente hanno fatto molti meno danni. E pensare che noi
saremmo “gli animali più intelligenti”. Ovviamente siamo noi che ce lo
siamo detti, da soli. Chissà cosa ne pensano, che so, i delfini? Gli elefanti?
I coralli? Forse loro sono solo lì che aspettano che Dio si svegli, e
che mandi il suo famoso Giudizio, così finalmente saranno liberati da cotanta
intelligenza! ***** Uno dei dati per
cui probabilmente potremmo finire nel Guinness dei primati, è il numero di
gente dello spettacolo che si è dato poi alla politica. Chissà se succedeva così anche
nell’antica Roma, o tra gli aztechi, o i parsi, o i faraoni… Uno vinceva un
Oscar, e quasi automaticamente diventava presidente della Repubblica. Il record
odierno sicuramente lo detengono gli Stati Uniti. Eh, si sa, loro …sono sempre
primi in tutto. Ma con l’elezione di
Schwarzenegger (come si scrive?) a governatore della California, mi sono venute
parecchie fantasie. Ho cominciato a immaginare qualche nostro attore italiano al
posto di Primo Ministro. Tutto
sommato le facce visualizzate erano certamente meno muscolose di Artur, ma più
intelligenti. Certi attori italiani li amo così
tanto: Castellitto, Giannini, Melato, Buy,… No, d’accordo, li amo come
attori, non come politici. Ma il Muscolone che deve reggere le sorti della
California… Bah! Il culto dell’immagine ha vinto su tutto. Se fai i miracoli
sul grande schermo, prima o poi ti si appiopperà la capacità di farli anche
nella vita reale. E del resto, il
grande cinema americano è magico/miracolistico. Come nelle antiche fiabe, che
servivano per appagare desideri ed esorcizzare paure, nel commerciale cinema di
Hollywood, qualunque sia la trama e il genere, sai già indiscutibilmente come
va a finire. I buoni vincono. A volte muoiono, ma questo esalta ancor più il
loro eroismo. I cattivi sono schiacciati come vermi immondi. E naturalmente si
sa sempre molto chiaramente chi sono i buoni e chi i cattivi. Del resto Bush
conferma questa capacità: gli americani sanno perfettamente dove sta il bene e
dove il male. …Per questo non firmano il protocollo di Kyoto, ma questo è un
altro discorso. Anzi, non firmano neanche per riconoscere il tribunale
dell’Aia. E questo è un altro discorso ancora. Cioè, più o meno è lo
stesso, ma non fa niente. Tanto non si può dire. Non
si può dire se l’America sbaglia. Se il mondo è una 4x4,
l’America è le ruote motrici. E le ruote motrici, soprattutto, non devono
rompersi. Che poi quando vai nel baratro chi ti tira fuori? Torniamo ai film. I buoni vincono
sempre. I sogni sono sempre realizzati. Chi esce dal cinema deve uscire convinto
che lui PUO’ FARCELA. E’ una
bella iniezione di “ottimismo”. Sapere che dipende da te. Questa convinzione
darwiniana per cui “se ce la metti tutta arrivi dove vuoi”. Devi essere
forte, combattere, e la vittoria è assicurata.
Così si fanno le guerre. Quelle di tutti i giorni, e quelle in Iraq.
Convinti di vincere. Poi se dopo ti
accorgi che non avevi vinto pazienza. L’importante è essere convinti. Amo il cinema italiano. Quello
d’autore. Non rappresenta la mitologia fiabesca. Non si sa quasi mai chi sono
i buoni e chi i cattivi. Anzi, molto spesso è una gran confusione. Si è un
po’ buoni e un po’ cattivi. (Solita questione del bianco/nero/grigio che
ritorna). Molto spesso i buoni non
vincono, anzi vengono calpestati come merde, e tanti saluti. Non rappresenta
eroi gratuiti. Quando ho visto El Alamein mi sono
commossa. Non per il film in sé, ma per il cinema italiano. Ecco, quasi quasi
mi sentivo patriota! Fiera di avere
un cinema così, in barba alle grandi macchine di Hollywood. Cinema che non ha
bisogno di eroi. Che rappresenta storie piccole, di gente semplice, ma storie
vere. Non ha bisogno di inventare “Salvate il soldato Rayan”, con
i suoi eroi ed effetti speciali, per far andare la gente nelle sale. E la scena
finale del film, con le immagini vere, delle tombe vere, dei caduti veri di El
Alamein… Grande Monteleone! Un tocco di classe. Una ciliegina su una torta. A me piace la realtà. E quindi il
cinema che parla di cose reali. O realistiche. Oppure mi piacciono i sogni
belli, e dolci. Come in quell’ultimo
film con Omar Sharif. Dove un musulmano e un ebreo, un turco e un
francese, un vecchio e un ragazzino, si adottano a vicenda. Perché l’amore
non c’entra niente con le razze, con l’età, tanto meno con le religioni.
Come si vede nel film [Monsieur Ibahim e i fiori del Corano]
l’amore è soprattutto una questione di intelligenza. Di capacità di ascolto.
Di attesa. Di silenzi. Di non giudicare. Di ironia. Solo così, un musulmano
vecchio turco, ed un ebreo ragazzino francese, possono amarsi fino a scegliersi.
A volersi ardentemente come compagni di viaggio. Fino, persino, a perdersi
l’uno nell’altro. A scambiarsi i ruoli, le identità. E il ragazzino ebreo
francese, alla fine, lo chiamano “l’arabo”. Chissà se Bush e Sharon li vedono
dei film così? 16 Ma un altro film italiano che mi
è piaciuto di recente, è l’ultimo di Ermanno Olmi:
Cantando dietro i paraventi. O
meglio: più che il film, che è piuttosto lento, mi è piaciuto il contenuto. Ah, se tutti gli esseri umani
fossero così… Se tutti si preoccupassero solo di diffondere bellezza… La signora
Ching, per vendicarsi
dell’uccisione del marito ammiraglio, si dà alla pirateria più
spregiudicata, financo ad aggredire le ciurme imperiali. Mai nessuno aveva osato
tanto! La sua attività continua
per molto tempo. Da bella signora si trasforma in accanita guerriera. Diventa
persino brutta. Poi arriva il giorno dei conti. La sua nave, all’ancora in una
baia stupenda, si trova chiusa dall’intera flotta dell’imperatore al
completo. Così tante navi, da non vedere più l’orizzonte. E con lui presente
(quale onore!), nel suo veliero personale: il più grande e forte.
Addirittura egli inaugura per l’occasione una nuova magia nera: la
banda della piratessa vede avanzare l’imbarcazione senza che i remi siano
manovrati, senza che le vele siano al vento.
“Dev’essere una diavoleria della modernità!”. Le navi dell’imperatore restano
per giorni all’ingresso della baia, senza alcun movimento. Solo, si mostrano.
La ciurma della piratessa si domanda cosa egli stia tramando. Perché non
attacca? Loro ormai sono pronti a soccombere. Si combatterà fino all’ultimo,
ma certo non ci si darà per vinti! Questo mai! Poi, arriva
l’impensabile. Degli aquiloni giganteschi sono lanciati dalla flotta
dell’imperatore, verso la vedova Ching. Figure animalesche, draghi, con colori
sgargianti, volano sul veliero fuorilegge, sui villaggi intorno. La donna pirata
si accorge che vi sono disegnate delle lettere. Ordina di raccogliere tutti gli
aquiloni volati nei dintorni, per leggerne il messaggio. Dunque, l’imperatore non aveva
nessuna intenzione di usare la forza. Il dimostrarla, gli era stato sufficiente.
Al contrario, offre una passerella. Un ponte: fisico e metaforico. La vedova
Ching, poco a poco,
abbandona la propria alterigia e la rabbia. Riprende il vecchio, bel chimono. I
fiori sui capelli. E sale sul ponte. Ecco. Mentre guardavo quel film,
non ho potuto non pensare alla saggezza dello “stratagemma”. Come quella
piccola storia della signora che odiava i gatti. Vedi?
Quando sei forte davvero, non è importante che la tua forza la usi
materialmente. Farla vedere è già un deterrente quanto mai sufficiente. E
l’offerta del ponte (fisico e metaforico) chiuderebbe il cerchio. Era probabilmente ciò che
speravamo tutti noi che manifestavamo in piazza, con le nostre bandiere colorate
(proprio come quegli aquiloni con i draghi), prima dei bombardamenti sull’Iraq. *** Del resto, c’è un’altra
immagine, da un altro film, che esemplifica ulteriormente la situazione. A beautiful
mind. John
Nash, il matematico-pazzo, premio Nobel nel ‘94, ben interpretato da Russel
Crow, medita su una “equa
distribuzione degli equilibri”. Mentre si trova in un pub degli anni ‘40,
tra amici, applica i suoi calcoli matematici alla situazione in cui alcuni baldi
giovani vogliono rimorchiare delle signorine, una delle quali è più attraente
delle altre. Ergo: tutti vorrebbero la biondina. Che si fa? “Si segue la lezione di Adam Smith!”,
propugnano gli amici. Ovvio. “La
vittoria individuale fa il bene comune”. “Ognuno per sé, siamo d’accordo!”, e …vinca
il migliore eccetera. Insomma, la filosofia
che da quasi due secoli più o meno domina il mondo. “E quelli che fanno fiasco, finiscono con le sue
amiche!” (Sempre tutto molto darwiniano: mors tua, vita mea, in definitiva). Ma ecco che il genio dello
schizofrenico si lancia. “Adam
Smith va rivisto! …Se tutti ci proviamo con la bionda, ci blocchiamo a vicenda. E alla fine… nessuno di noi se la
prende. Allora ci proviamo con le sue amiche, e tutte loro ci voltano le spalle,
perché a nessuno piace essere un ripiego. Ma se invece nessuno ci prova con la
bionda, non ci ostacoliamo a
vicenda, e non offendiamo le altre ragazze. E’ l’unico modo per vincere.
…L’unico modo per tutti di scopare! …Adam
Smith ha detto che il miglior risultato si ottiene quando ogni componente del
gruppo fa ciò che è meglio per sé, giusto?
Incompleto. Incompleto! Perché il miglior risultato si ottiene …quando
ogni componente del gruppo farà ciò che è meglio per sé, e per il gruppo!
Dinamiche dominanti, signori. Dinamiche dominanti! Adam Smith… si sbagliava!” E il professore:
“ti rendi conto che questo è uno schiaffo ad oltre 150 anni di teorie
economiche?! È’ alquanto presuntuoso da parte tua non credi?”
Ma così dicendo in realtà, il “barone” dell’università di
Princeton gli prospetta una fulminante carriera. Bene individuale? Bene comune?
Ma viene prima l’uovo o la gallina?
La notte o il giorno? Continuiamo così, da ben oltre un
secolo. E sembra che tutte le guerre girino intorno a questa eterna domanda. E
con loro i governi del mondo. E con essi tutto il nostro quotidiano. Tutti i
quotidiani delle edicole del pianeta. Libero, e Liberazione. Tutte le
trasmissioni di Bruno Vespa e di Ballarò, … E i palinsesti dei canali
televisivi di ogni paese… E le destre, e le sinistre,… Comunismo o libero mercato? No, il
comunismo non c’è più da un pezzo. Sconfitto. Disintegrato. Queste sono le vere “visioni del
mondo” che continuano a scontrarsi. Queste le contemporanee Weltanschaung
dominanti. Vogliono farci credere
che lo “scontro di civiltà” sia tra oriente ed occidente, tra “noi”
(che poi non si sa bene di che Noi si parla: dov’è / cos’è l’Occidente?)
e l’islam, tra religioni eccetera… Ma è solo una delle solite, tante
strategie per distrarci. Perché lo
scontro è qui. Tra le visioni economiche del mondo, con tutto ciò che si
tirano dietro. E le visioni che ancora “si
combattono” sono sempre quelle due: priorità al singolo? O priorità al
gruppo? Collaborazione, o
competizione? Dialogo o duello? Sparo sull’Iraq perché mi serve
il suo petrolio? O cerco dei sistemi alternativi, magari anche per consumare
meno petrolio e inquinare meno? Vado
ai 200 in autostrada fregandomene di chi va piano? O vado con calma e mi fermo
alle strisce pedonali per far passare il pedone, rispettando i
diritti-dell-altro? Violenza, o
Nonviolenza? Insomma, chi è che vince: io, o il gruppo?
Eccetera eccetera. Le diverse
visioni del mondo, fanno vedere tutto il mondo in maniera opposta. In ogni
momento della giornata. Berlusconi
delinquente, Berlusconi salvatore. Sharon criminale, Sharon coraggioso
battagliero. Bush terrorista, Bush che porta la democrazia. Islam demonio, Islam
religione tra le altre. Chissà, forse solo quando saremo
tutti schizofrenici come John Nash, saremo capaci di avere altre “visioni”.
E vedremo, come lui, una Terza Via praticabile. Quella, sola, con la quale
“scoperemo tutti”. Nessuno sarà
escluso dalla spartizione equa della torta. Che bella festa! 17 Scusa. Devo averti un po’
annoiato con tutte queste storie di film. Figurati che mi trattengo! Potrei
continuare per ore a farti citazioni e relativi agganci filosofici. Amo il
cinema, forse tanto quanto i libri. (E forse anche per merito di un ex
fidanzato: lui mi faceva sciroppare anche parecchi film in un giorno, persino
quando fuori c’era un sole meraviglioso. Non ne potevo più! Ma mi ha
trasmesso la sua passione. Quando ci siamo smollati, non sono più andata al
cinema per un anno! Poi ho ricominciato. E i film che vedo li “catalogo” al
computer. Devo sempre fare i conti con la mia poca memoria, …inventare
strategie di lotta biologica). Ma continuano a succedere cose
terribili. Ecco, mi ha scritto un amico da Ramallah. Una fra i milioni di
informazioni che non ci arrivano. Ramallah
non e' solamente sotto coprifuoco, ma invasa da 150 camionette di barbari
invasori, hanno ucciso 5 persone e ferito 17 e arrestato 55, No fratello di Ramallah. In Italia
non ce lo hanno fatto vedere quel bambino. Sai, per avere un nemico, non
possiamo vederne il volto. Perché se vedi il suo volto, non lo odi più. E se
non si odia, come si fa a vincere? Finisce la gara. E finisce la macchina.
Quella per cui, oggi, l’America è le ruote motrici. Dunque, c’è sempre
BISOGNO di un nemico. In questa fase della storia,
prevale quasi ovunque la visione del mondo che preferisce il duello al dialogo.
La competizione alla reciprocità. Ma passerà. Tutto passa. (E’
passato persino Hitler, sono passati i dittatori sudamericani, Polpot, Stalin,
tutti). Quelli che erano alle stelle, vanno alle stalle.
Succede sempre, prima o poi. Yin e
yang. Tutto è movimento
rotatorio. Va e ritorna. Va e ritorna. E rinascono sempre certi piccoli
stolti, che credono ancora in un podio permanente. 18 Cosa vuoi che ti dica? Ho sempre
pensato di essere nata in un’epoca sbagliata. Non so, a dire il vero, se sia mai
esistita un’ epoca migliore. Non mitizzo il passato. In qualunque secolo, e a
qualunque latitudine, se eri ricco okay, se eri povero, eri un povero sfigato. Ma io proprio non ho mai avuto un
benché minimo componente del mio DNA capace di competizione. Anzi, generalmente
se intravedo un’ombra di rivalità cambio strada. Non mi piace. Non mi
interessa. Mi dà fastidio. Quindi, va da sé che non posso
proprio riconoscermi nell’epoca che vivo. Se per avere un pezzo di torta devo
fare a pugni col compagno di banco, beh posso anche stare a dieta. Preferisco
sempre stare tra le vittime che tra i carnefici. Soccombere non mi fa paura.
Forse perché credo nell’aldilà. O forse ci credo per consolarmi. Chi lo sa.
Comunque la mia Weltanschaung, è
proprio all’opposto di quella che oggi va per la maggiore. Se oggi la corrente è quella
liberista del “Ognuno per sé”, io sono rimasta una nostalgica del vecchio
motto “tutti per uno, e uno per tutti”. Suona quasi di un buonismo alla
libro Cuore. Però io la vedo così.
E vorrei che così andasse il mondo. Cioè, vorrei che il mondo si
fermasse, quando anche solo uno dei suoi abitanti è angariato, violentato,
maltrattato. Questo non lo ha pensato Adam Smith? Che il risultato migliore si ottiene quando ogni componente
del gruppo fa ciò che è meglio… per ogni componente del gruppo? Per esempio, vorrei che il mondo
fosse davvero un villaggio globale. Ma nel senso vero. Non nel mito, o nella
rete internet, o perché le violenze del qui e ora, si ripercuotono là, ora
e domani. Oggi ho letto alcune righe su un
quotidiano che mi hanno lasciata di stucco. Le ho rilette 3 o 4 volte perché
speravo di non aver capito. …C’è
tuttavia un prigioniero, Aburahman Khadr di 21 anni, che è stato rilasciato
domenica senza aspettare Natale. Nel suo caso gioca il fatto che è di
nazionalità canadese e Washington deve aver sentito il bisogno di fare qualcosa
per calmare i vicini del nord, furiosi per quella cosa terribile resa nota pochi
giorni fa, di quel cittadino canadese di origine siriana prelevato dal suo aereo
che aveva fatto scalo a New York, arrestato senza nessuna spiegazione e
rilasciato ma spedito non in Canada, il suo paese, ma in Siria, il paese da cui
era fuggito proprio per ragioni politiche tanti anni fa e da dove prima che i
diplomatici canadesi a Damasco riuscissero a
riportarlo a casa si è fatto dieci mesi di prigione, con torture e
tutto.([5]) Se il mondo fosse davvero un
villaggio, le sorti di ciascuno starebbero a cuore a tutti. Allora queste cose
non succederebbero. Non si potrebbe essere “prelevati da un aereo” e spediti
dove vuole qualcun altro. Non ci sarebbero torture, non ci sarebbe calpestio di
diritti umani. Perché non sarebbe più possibile perdonare crimini terribili,
in nessun modo. Neppure in nome del libero mercato. Di quella criminale legge
per cui “ognuno va per sé”, che poi non è molto diversa dal “ruba tu che rubo anch’io”,
tanto chi se ne frega di tutto il resto, e poi
da “una mano lava l’altra” eccetera. Se il mondo non
fosse “ognuno per sé”, non ci sarebbe la causa palestinese. Ci sarebbe la
Palestina. Ci sarebbe Israele in pace. Con donne e bambini che potrebbero
prendere l’autobus tranquillamente. Non ci sarebbe la paura. Se il mondo
fosse “tutti per uno e uno per tutti”, non ci sarebbero quelle orribili
guerre africane, che fanno milioni di morti, ma qui non ce li fanno vedere,
perché tanto sono lontani, e poi chi se ne frega, tanto sono tutti neri. (A proposito: c’è stranamente
un bel film sulle guerre in Africa. “L’ultima alba”, con niente meno che
Monica Bellucci e Bruce Willis. E’ un po’ inventato ma abbastanza vero.
Lungo, sofferto. E la crudeltà delle guerre africane ce l’hanno messa tutta.
E’ un film americano. Ma guarda caso, di un regista americano nero, Antoine
Fuqua. Penso, purtroppo, che solo un nero potesse fare un film così. Sul dolore
dei neri. Perché i bianchi non lo dicono, ma sono ancora convinti che il dolore
dei neri sia meno importante, meno doloroso. E non ci dicono mai quanti neri
muoiono). Se il mondo non fosse una gara
continua, non avremmo tante trasmissioni inutili che ci tirano fuori il
PATRIOTTISMO quando muoiono dei militari ITALIANI. Ma ci tirerebbero fuori il
DOLORE quando muoiono TUTTI.
Polacchi, americani, spagnoli, iracheni, kurdi, pakistani, ugandesi, marocchini,
sudanesi, palestinesi, turchi [musulmani ed ebrei, intorno ad una sinagoga] … E vorrei che ce lo facessero
sempre quell’elenco dei nomi. Non solo con quelli che sono italiani. Vorrei
che mi dicessero sempre quegli uomini e quelle donne quanti anni avevano, quanti
figli avevano, che lavoro facevano, cosa sognavano… E’ stato bello sentir
ripetere tante volte le storie di quegli italiani morti in Iraq. Vedere le loro
facce nelle fotografie. Sapere almeno un po’ di quello che pensavano. Ma perché
dobbiamo piangere solo quando i morti sono italiani? (E se i morti sono
italiani… allora ci sentiamo “orgogliosi” di essere in guerra?!?!) Perché esultiamo alle olimpiadi
solo quando vince un italiano? Ogni
volta, i vari TG ci dicono “Tizio ha vinto il bronzo al nuoto, Caio ha vinto
l’argento alla canoa…” ma è mai possibile che non ci dicano chi ha vinto
l’oro, se non è stato un italiano?! Ma
che schifo di mondo è? Possibile
che non ce ne freghi mai niente degli altri, se in qualche modo non ci
guadagnano le nostre tasche??? Io… io vorrei che il mondo si
fermasse, per la mancanza dei diritti umani in tanti paesi. Vorrei che si
fermasse come si è quasi fermato davanti ai tentativi di lapidazione di due
donne nigeriane accusate di adulterio. Quanta solidarietà per quelle due donne!
E sono state salvate, cazzo! Sono state salvate. Perché in quel momento,
il mondo è diventato un villaggio. Grazie a internet, sì. Migliaia, migliaia
di persone si sono fatte carico delle sorti di due semplicissime, povere, forse
analfabete, quasi sdentate, donne nigeriane. Vorrei che fosse sempre così.
Vorrei che si fermasse, per i giornalisti uccisi, e per quelli che vengono
arrestati da governi dittatoriali, e messi dentro mesi, perché non facciano
girare le informazioni vere. Vorrei che si fermasse per tutti
quei disgraziati che attraversano il Mediterraneo su barche da diporto. Vorrei che si fermasse contro il
muro di Sharon. Contro il dispotismo di molti capi
di stato violenti e dittatoriali, come ce ne sono in mezzo mondo. O per salvare un povero
disgraziato come quel profugo siriano, di cui ho letto oggi sul giornale. Se tutto il villaggio si fermasse
per salvare ogni suo componente, non avremmo più bisogno di essere perennemente
in gara. Non avremmo neppure bisogno dei checkpoints. Ma nessuno fa niente. O meglio, sì:
continuiamo ad affidarci ai consigli di chi sul sogno liberista ci campa, magari
distruggendo paesi interi (…l’Argentina, per dirne uno) [6].
Continuiamo imperterriti a giocare
in borsa. A vedere chi va su e chi va giù, come se si trattasse di una tombola
in parrocchia o alla festa dell’Unità. Come se non ci fossero delle vite che
ci vanno di mezzo, ogni volta, tra un titolo che perde, e un altro che guadagna.
Eccolo qui, il grande mito del
“ognuno per sé”. La favola del liberismo occidentale. Dove saremmo stati
tutti felici e soddisfatti, come al
Paese dei Balocchi. No, non è stata una bella festa. Moltissimi non sono stati
neppure invitati al banchetto, e guardano fuori dal vetro. Aspettando i resti. 19 Quando incontro qualcuno che la
pensa come me… mi sento un po’ meno sola. Non capita molto spesso. Ormai,
noi che credevamo nella collaborazione villaggesca, siamo una razza in via di
estinzione. Finiremo come i
dinosauri? Come i mohicani e gli incas: eliminati dalla faccia della terra?
A volte incontro chi la pensa come
me, e anche si fa il mazzo più di me, per quello in cui crede. Ho incontrato una sociologa
italo-americana, che parla sia arabo che ebraico, e ha molti amici da entrambe
le parti. Era stata già diverse volte in Palestina. Fa ricerche sulla vita dei
palestinesi da quando c’è la seconda intifada. Per fortuna, in tutte queste
peripezie è stata “pedinata” e almeno psicologicamente supportata (a
distanza) dal gruppo delle donne israeliane pacifiste che fanno monitoraggio ai
checkpoints su come i militari trattano la gente palestinese. L’hanno seguita
nei vari spostamenti, tutta la notte. Quando l’ho rivista era
incredibilmente lucida. Non potei fare a meno di pensare che al suo posto sarei
stata molto più sotto chock. Lei era solo preoccupata che non le mettessero
nulla di sgradevole sul passaporto, che le avrebbe impedito di tornare lì in
futuro. E poi ho incontrato
Nat, che fa
parte del presidio che supporta le ambulanze a Nablus. Va in Palestina spesso,
come volontario. Ha solo il rimborso delle spese di viaggio. Va lì tra i carri
armati, nella città sotto assedio, e insieme ad altri fa tutto ciò che può
per aiutare quelli che, magari in fin vita, vengono ugualmente fermati ai
checkpoint, e i militari non vorrebbero farli passare. La presenza di questi
“osservatori” internazionali è molto importante. Senza di loro, i soprusi
(che certo non mancano, ugualmente) sarebbero molti di più. E loro, rischiano
la vita davvero. Come l’ha rischiata, e l’ha persa, Rachel Corrie, la
ragazza americana che a 23 anni è stata schiacciata dalle ruspe israeliane a
Gaza.
Li ammiro tantissimo quei giovani,
che hanno ancora il coraggio delle utopie concrete, e che spendono i loro soldi
e il loro tempo per azioni politiche, a sostegno di popolazioni oppresse. Loro
credono nel “tutti per uno”. E pensare che poi in tv, molti tra
i più seguiti talk show quando ti nominano “i pacifisti” sembra lo dicano
come se parlassero di una categoria di fanatici delinquenti, che dobbiamo
tollerare-per-forza, visto che – ahinoi – siamo in democrazia, e non
possiamo eliminare nessuno. Però se non ci fossero i pacifisti… mannaggia!
Come sarebbe tutto più semplice: spazzeremmo via i nemici senza difficoltà.
Invece ci si mettono di mezzo quei cretini, antiamericani e magari anche
antisemiti, anzi, sicuramente antisemiti, che così sostengono il terrorismo
globale… and so and so. Poveretti, possono fare ben poco
quelli che si mettono a fare “gli scudi umani” nelle situazioni bellicose.
Gli scudi, di per sé, si prendono delle belle botte. Ecco cosa fanno. Nel caso
di quelli umani, spero che servano almeno a far sentire alla gente, in
Palestina, in Irak, e dovunque capiti, la solidarietà di molti di noi. A far
sentire che NO, ciò che loro devono subire, NON E’ IN MIO NOME. Ho incontrato il musicista ebreo israeliano (residente in
Europa) che contro il suo
stesso governo fa concerti in Cisgiordania: Daniel Barenboim. Che bella serata è stata! Non so se potete immaginare cosa significa sentire musica
classica, suonata da dio, in un posto come Ramallah. E’
esattamente ciò che pensai mentre ero a Ramallah. Teatro gremito di palestinesi
importanti: ministri, gente di cultura. E quel piccolo grande ebreo. In
una folla di musulmani e cristiani. E mentre ascolto quelle dita (dono senza
fine) penso che in momenti simili, non si può non sentire il sacro. Allora?
Allora come si fa ad avere tutto ciò come nemico? Come si può pensare
di bombardare la cultura, un teatro, la musica, Chopin…? E’ come bombardare
Dio. E il
piccolo uomo si ferma, racconta aneddoti. “Ogni volta che vengo qui, in
Palestina, imparo delle cose. L’ultima volta, parlando con una bambina, mi
disse una frase che non ho mai dimenticato: tu sei la prima cosa che viene
da Israele, che non è né un soldato né un carr’armato”. Ci vuole
così poco! Ci vuole
così poco ad essere dei costruttori di pace. (…Invece di essere costruttori
di muri!!! Di nemici, di sindromi da attacchi terroristici!!!) Sono tante
le ciliegine che ci regala nella serata, oltre alle sue mani, ai suoi aneddoti,
due sorprese bellissime. La prima: chiama a suonare con lui, a quattro mani, un
giovane palestinese di Israele che è in platea, un altro maestro-mago del
pianoforte. Non è la prima volta che suonano insieme. Un israeliano, un
palestinese. Quattro mani. La stessa tastiera. A Ramallah! Perché deve
essere tutto così difficile, quando basta così poco. Davvero, la vita, il
destino del mondo, sono una questione di volontà. Quanta stima si esprimono,
quante strette di mano, con i fotografi che si accalcano sotto il palco, con i
loro obiettivi giganti. Perché tutto il mondo non può essere così? Ma arriva
poco dopo la seconda ciliegina. Baremboim non è venuto solo: ha portato con sé
il giovane figlio, anch’egli musicista, ma suonatore di violino. E così il
duetto si allarga, e il gruppo diventa transgenerazionale, oltre che
interreligioso. Giovane israeliano al violino (dovrà fare il servizio
militare, se gli interessa conservare la nazionalità; anche lui, fare il
guardiano ai checkpoint…?); padre e amico palestinese al piano. Pochi
momenti di vita vera. Tutto il resto, è l’incubo che l’uomo si crea da
solo, perché non sa discernere. Ho incontrato le suore e i frati
del villaggio di Ain Arik. Il loro monastero, è quello che
don Giuseppe Dossetti, uno dei padri della nostra Costituzione, aveva fondato,
ma a Gerusalemme. Sfrattati dal colle sulla bellissima valle di Josafat, di fronte a quella
veduta tra le più belle del mondo (certamente la più contesa), con la cupola
d’ora che brilla ad ogni tramonto, sono migrati anni or sono in questo
villaggetto alle porte di Ramallah. Poche case semplici. Pendii coperti dagli
ulivi. Una moschea, una chiesa ortodossa, e il loro monastero. Tutto di sasso
bianco. Mi hanno accolta tante volte, con
un sorriso vero, generoso. Che bello poter parlare italiano! Addirittura sentire
l’accento di Reggio Emilia! Qualche radice comune fa piacere, ogni tanto. Ma
soprattutto, la comunità delle idee, dei sentimenti. Anche se ognuno la esprime
con scelte diverse. Loro pregando circa 8 ore al giorno, studiando, lavorando
all’orto, alla casa, alle traduzioni dall’arabo, dall’ebraico, dal greco
antico… Perché anche così si gettano ponti. Quelli metaforici, e quelli
fisici, reali. Suor Sara ha accompagnato in
Italia un bambino che doveva essere operato al cuore. E’ un problema grosso in
Palestina, perché in Cisgiordania non ci sono reparti di chirurgia pediatrica
per interventi così delicati. In Israele sì, ma è pressoché impossibile fare
interventi lì,… a pochi km da casa. Grazie a delle organizzazioni
internazionali, diventa quasi più semplice (o comunque l’unica possibilità)
portare i bambini palestinesi in Europa. Questo bambino di Betlemme era molto
grave, rischiava la vita. C’era bisogno di qualcuno che parlasse arabo per
poterlo accompagnare e sostenere durante i giorni del ricovero. I genitori non
potevano andare con lui. Nonostante la mediazione
dell’organizzazione umanitaria internazionale (che pagava e si occupava di
tutto) non è stato facile per quel bambino ottenere i permessi per passare da
Tel Aviv, prendere un aereo e tornare. Sono arrivati in Italia. Il
piccolo è stato operato e curato, mi ha detto Sara, amorevolissimamente dal
personale di un ospedale di Napoli. Ma l’operazione è arrivata troppo tardi
per l’età del bambino (grazie alla situazione politica!) e le complicazioni
sono state enormi. Ha rischiato la vita, è stato giorni in rianimazione. A otto
anni. Quando ho sentito suor Sara al telefono, era ancora con la voce
angosciata, nonostante il peggio fosse andato. Mi disse “Ti immagini come
sarei tornata, se invece di portare con me un bimbo guarito, avessi avuto una
piccola bara, da consegnare ai suoi genitori ?!” Ma questa volta la Morte ha avuto
pietà, e ha lasciato il piccolo di Betlemme alla sua famiglia, che peraltro ha
già da sopportare una marea di vicissitudini non da poco. Le tipiche
“enciclopedie” dei palestinesi, come le chiama il mio amico Munir.
Tutti pesi enormi da portarsi appresso. Al villaggio di Ain
Arik, ho
incontrato una signora anziana, di famiglia cristiana (il villaggio
originariamente era solo cristiano). Con gli occhi chiari, bellissimi, e il
vestito tradizionale di Ramallah, che un tempo facevano le ragazze a mano, prima
di sposarsi. Sempre col suo
incedere umile, il sorriso dolce, e quella cuffia ricamata in testa, con le
monetine d’argento, dell’epoca dell’impero ottomano. Un giorno l’ho intervistata, con
la giovane suor Sara che traduceva il dialetto arabo della vecchietta, nel suo
tipico accento di Reggio Emilia. Oggi il villaggio di Ain Arik è
praticamente tutto composto di gente che si è vista “restringere” le
proprietà, e di altri che le hanno prese, perché a loro volta non avevano più
niente. Ma, mi diceva la vecchietta, non ci sono più rancori per questo. Hanno
imparato a convivere. Erano tutti palestinesi, e hanno capito che quei profughi
erano messi peggio di loro, nativi di Ain Arik. Quando le chiesi qualcosa a
proposito del governo di Israele, della politica di colonizzazione e di
segregazione imposta ai palestinesi, lei mi rispose semplicemente “Noi non dobbiamo giudicare; solo Dio conosce cosa c’è nel cuore degli uomini”. Ho incontrato Giorgio, col suo
accento veneto. Bancario in pensione, che da anni si prodiga per la causa
palestinese, con tanti viaggi in Cisgiordania ma anche Siria e Libano. E
organizza scambi, campi di lavoro, manifestazioni culturali in Italia,… Parlo di lui, con le impiegate
della mia banca, che non si sentono molto gratificate dal lavoro che fanno. Non
sul piano umano, per lo meno.
20 Bisognerebbe ringraziarli tutti. Ho scritto molto, in due miei
libri precedenti, sul fatto che amo il termine “Grazie”. E mi è piaciuto moltissimo un
pezzo in cui Amos Oz esordisce proprio così: Bisognerebbe ringraziarli tutti. Tutti
quelli che ci hanno accompagnato fino qui. E fa un lungo elenco, che è talmente
struggente che ti sembra di vederli. Anche quelli di due, tre, cinque
generazioni prima, i vicini di casa, i bottegai,…. tutti.
Che lui ha descritto con il pathos del sangue, e della storia. E allora, siccome io amo copiare
ciò che è bello, e ritengo che copiare sia non solo utile e consentito ma bensì
doveroso, perché la bellezza si diffonda come un’epidemia, come l’invasione
delle cavallette, copio da lui questo bellissimo incipit, e faccio il mio elenco.
Bisognerebbe ringraziarli tutti.
Khalid e
Mohamed, che hanno messo
in piedi il centro giovanile del campo profughi di Ramallah. Munir, che fa di tutto per vedere
suo figlio, e gli impiegati dell’ambasciata che prima o poi gli daranno il
visto. P. Ibrahim che fa educazione alla
pace, nonostante tutto. Il ragazzino che ha scritto la
storia della signora che odiava i gatti. Le
Mariam, le Khadija, le Rahme,
che passano i checkpoints tutti giorni, piene di pacchi, sudate, per guadagnare
qualche soldo da portare a casa. Tutti quegli israeliani e
israeliane che lottano per la pace, contro l’occupazione, contro i checkpoints
e il muro di Sharon. Manuela, che continua a lottare,
anche se è davvero sola, dopo che ha perso un figlio e si sente dire che è una
povera illusa, forse anche cretina. Khamal, che mi ha detto “vai a
casa e scrivi! Racconta quello che hai visto”. Quelli che fanno obiezione di
coscienza, e scrivono poesie. Brigitte, che lavora con le donne.
E anche lei mi dice “scrivi, racconta, urla! Ma fai in fretta, perché qui non
ne possiamo più”. Il mio taxista, che continua a
sorridere, perché lui in quella gabbia c’è nato, e non se ne accorge neppure
di che gabbia è. La sociologa
italo-americana, che
mi fa vedere cosa vuol dire non avere paura, o forse sì, ma andare avanti lo
stesso. Il regista
Fathy, che lavora con i
bambini, mentre fuori sparano dai carri armati. E riesce a farli sorridere
ugualmente, e guardare avanti. I giornalisti e gli artisti
(registi, fotografi) che cercano di darci un’informazione giusta, e rischiano
la vita, o la libertà. I musicisti che volevano suonare
ai bambini di Ramallah, ma a Tel Aviv sono stati rimessi sull’aereo, e
rispediti in Francia. Gli scrittori pacifisti, che ci
raccontano il loro dolore. Che ci stimolano ad entrare nel cuore di uomini e
donne, e superare tutte le barriere. I giovani israeliani che vanno a
studiare all’estero, e forse questo è un modo per fare obiezione al regime di
Sharon. Quelli che attraversano il
Mediterraneo in barca, al freddo, per sfuggire alla miseria e alla guerra. Quelli che vengono qui da noi a
fare i lavori più umili. Le polacche, le ucraine, le
romene, che lavorano con i nostri vecchi. Gli indiani, i filippini, i
senegalesi, che fanno i giardinieri, gli autisti, i garzoni nelle case dei
ricchi, e devono sopportare spesso di essere trattati come zerbini. In silenzio.
Quelli che non sono stati invitati
al banchetto, e guardano fuori dal vetro. Aspettando i resti. Quelli che superano la mediocrità,
e riescono ancora a lottare per realizzare delle utopie. Quelli che hanno avuto la casa
distrutta, i figli uccisi come “danni collaterali”, perché passavano di lì,
quando ci passava quel proiettile. Quelli che rischiano la vita,
perché credono che “Adam Smith va rivisto”. E che il bene comune viene dal
bene di ciascuno. Dal “tutti per uno”, non dal “ognuno per sé”. Quelli che fanno film bellissimi.
Che ci aprono il cervello e il cuore. E ci ricordano che sognare è importante.
Perché se la pace non la sogni, non la puoi diffondere, come un’epidemia. Quelli che sanno gettare ponti.
Metaforici, fisici. Sponde di comunicazione sopra ogni tentativo di chiusura. Quelli che al patriottismo
preferiscono l’affetto per tutti, qualunque sia il credo, la razza, la
nazione. Quelli come
Nat, che presidiano i
posti di blocco per far passare le ambulanze nei territori assediati della
Cisgiordania e di Gaza. Quelli che fanno gli scudi umani
e, per definizione, si prendono un sacco di botte. Quelli che, anche facendo i
bancari, riescono a vedere oltre il loro quotidiano, i giochi in borsa, e a
darsi da fare per ciò che solo apparentemente è lontano. Quelli che sanno ascoltare,
cercare, farsi domande. Bisognerebbe ringraziare tutti. Anche te, che sei rimasto qui
tutto questo tempo a sentire i miei racconti. Le mie elucubrazioni. E volevi andare al compleanno di
tua cugina! Scusa, ti ho fatto fare tardi. Ma
non preoccuparti. Farai in fretta. Nessun check point tra Bologna e Faenza.
Nessuna domanda. Per ora.
[1]
Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra, Feltrinelli, 2003. [2]
Manuela Dviri, La Guerra negli occhi, Avagliano editore, 2003 [3]
Per avere un’idea della storia della terra di Israele da più punti di
vista (ebraico, cristiano mussulmano) ti suggerisco il libro di Luigi Sandri
“Città santa e lacerata”, 2001, editrice Monti, Saronno. [4]
Questi racconti sono tradotti da: The
morning after, pubblicato
a Betlemme da United Civilians for Peace
e Christian Accopaniment Program, Maggio 2002. Si veda www.unitedcivilians.com [5]
“Guantanamo, presto liberi 140?” di Franco Pantarelli, Il Manifesto, 2
dicembre 2003 [6]
Ce n’è una marea di bibliografia sull’argomento. Leggiti per esempio i
libri di Susan Gorge sui danni del WTO; o quello di Aminata Traoré,
L’immaginario violato, a proposito dei danni di FMI e Banca Mondiale nelle
economie africane.
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© Silvia Montevecchi