Silvia Montevecchi

 

     SAHARAWI

GRIDO DI LIBERTA'

 

   

Questa raccolta di racconti di vita di profughi saharawi in Algeria è avvenuta nel mese di maggio 2002, quando ho lavorato con il CISP di Roma per la distribuzione degli aiuti (alimentari e non) forniti dall'Unione Europea.

Spero che possa costituire uno strumento utile per conoscere la loro causa, la loro situazione di sopruso, e la difficoltà della loro vita nel deserto.

   

SOMMARIO

-          Grido di libertà. Introduzione storica e geografica, cronologia dei fatti, cartine e mappe di wilaya in Algeria.

-          Storie di vita. L'ambiente

  1. Gli anziani: ricordi di vita nomade, della dominazione spagnola.

  2. Giovani "cubani": una generazione traumatizzata.

  3. Storie di donne, lotta, sopravvivenza.

  4. Solidarietà con il popolo saharawi. Sul campo: Giulia Olmi e Sara di Lello. In Italia: Stefano Vaccari, sindaco di Nonantola.

  5. Il Ministro della Salute Omar Mansur.

-          Riflessioni. Di Hamdi Khandoud, vice rappresentante del Fronte Polisario in Italia

 

"Così  questo paese,  dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo.

Adesso che il mondo  l'ho visto davvero e so che è fatto di piccoli paesi, non so se da ragazzo

mi sbagliavo poi di molto"… "Un paese ci vuole. Non fosse che per il gusto di andarsene via.

Un paese vuol dire non esser soli, sapere che nella gente,

nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo,

che anche quando non ci sei resta ad aspettarti"

 

Cesare Pavese, La luna e i falò.  

 

 

GRIDO DI LIBERTA'

 

Siamo tranquillamente intenti a svolgere le nostre attività quotidiane. C'è il sole.

Qualcuno di noi è in ufficio e lavora al computer. Altri hanno preso alcuni giorni di vacanza e stanno facendo windsurf. Due giovani amiche, neomamme, in un giardino pubblico, attaccano i loro bimbi al seno. Un verduraio serve i clienti della sua bottega. Un ristorante prepara un banchetto per un pranzo di nozze…

Nel pomeriggio c'è ancora il sole. Sembra inamovibile. Lì, inoffuscabile, per l'eternità.

Il paese confinante con il nostro, dopo mesi di minacce e raggiri, decide senza mezzi termini di passare all'azione. Il nostro paese è invaso.

Il sole è sempre lì. E' una splendida giornata.

Il nostro quotidiano non c'è più.

L'ufficio è abbandonato. I bambini si attaccheranno ai seni di mamme in fuga. I giorni di vacanza diventeranno un'utopia. Il verduraio chiude bottega e non ha più clienti. I fidanzatini che avevano preparato il banchetto sono costretti a rimandare le nozze a non si sa quando. Tutti scappano. Via, prendiamo poche cose, torniamo presto.  E' solo per pochi giorni, poi tutto torna come prima…

Non è un film.  Non ci sta questa storia sul piccolo schermo, e neppure su quello grande.

E' avvenuto realmente, milioni di volte, in centinaia di paesi. Avviene anche adesso, quotidianamente.  E certamente avverrà ancora, perché l'uomo più di tanto non impara dalla storia.

Un giorno del 1975, è avvenuto in Sahara Occidentale, che allora si chiamava Sahara spagnolo, perché era una colonia di Spagna, allora sotto il governo del dittatore Franco.

La Spagna se ne va, e il Marocco lo invade decretandone il possesso quasi "naturale". Come se nulla vi fosse di più ovvio che fare proprio quel pezzo di terra.

Le persone se ne devono andare, di corsa, perdendo tutto il loro quotidiano, con i suoi affetti, i suoi oggetti cari, i suoi riferimenti, i suoi odori.

Gli abitanti in fuga erano - e sono - i saharawi. Un popolo fiero, abituato alla durezza, ma anche alla libertà, del deserto. Un popolo che il vento caldo di scirocco può curvare e coprire di sabbia. Ma che non si spezza.

  ***

L'invasione del Sahara Occidentale da parte del Marocco dura da circa 30 anni. 

30 anni di lotta, per il popolo saharawi. Di vita profuga, di bambini nati e diventati adulti come profughi.

30 anni ospiti dell'Algeria, amica, nonché sulle difensive, perché il Marocco invaderebbe volentieri anche lei, con un progetto delirante di "grande Marocco" che non può non ricordare un altro delirio: quello di una "grande Germania".  E le due "menti" avevano in comune la fondamentale strategia: seminare il terrore. Con la violenza, l'incarcerazione arbitraria, le torture.

Non c'è libertà di sorta con chi è preda della propria follia, e per realizzarla è pronto a calpestare la logica più elementare del diritto.

Ho voluto ascoltare le loro storie, di donne e uomini, giovani e meno giovani. Gente semplice. Perché le loro voci arrivino lontano, si facciano sentire. Perché urlino i loro diritti calpestati. La loro fatica. Il dolore, la stanchezza.

Loro sono i poveri, i miti, i dannati della terra. Sono i diseredati  nel senso più vero: loro un'eredità ce l'avevano, bella anche, ed è stata rubata, strappata loro di mano.

MAPPA DELL'AFRICA NORD-OCCIDENTALE  E DEL SAHARA OCCIDENTALE

 

   

La Storia

Ogni zona d’Africa si guardi, ha a che fare con la Germania. Più precisamente con una città della Germania: Berlino. Lì avvenne nel 1884 la famosa Conferenza delle potenze coloniali di allora, che decisero a tavolino la spartizione del Continente Nero. I Grandi della terra, come li chiamiamo oggi.

Ironia della sorte… sarà proprio Berlino ad essere barbaramente spartita:  da un muro. (Un avvertimento del fato “Chi la fa l’aspetti…” ?) .

Gli esiti nefasti di quella conferenza li sentiamo, li vediamo ancora oggi. Qualcuno se li porta sulla pelle: gli africani, ovviamente. Compreso tutti quelli che muoiono ogni anno annegati nel Mediterraneo, scappando da quello che è uscito e si è riprodotto da tale frazionamento.

Nel 1884, quel lembo di terra che è sotto al Marocco, e che ancora oggi gli atlanti delimitano in maniera incerta, ognuno diversa, viene “affidato” alla Spagna. Come si fa con i regali di Natale quando non c’è il cartellino sopra. Questo prendilo tu, questo lo prendo io, questo lui… Si sa che i contenuti sono sempre ricchi, perché tutta l’Africa lo è, per una cosa o per un’altra. E poi ci sono le preferenze strategiche. Tu hai già quel porto, a me spetta quest’altro… Il ché significa, tra le altre cose, che i saharawi (popolo nato intorno al XIII sec. dall’incontro tra i berberi del Magreb e gli arabi di provenienza yemenita) sono circondati da gente che parla francese, mentre loro parlano spagnolo. Per fortuna hanno in comune l’arabo.

Oltre a ciò, inizia l’era dei confini. Popoli nomadi che per millenni hanno condotto carovaniere attraverso interi continenti, andando liberamente dalle sponde dell’Atlantico ai santuari della Mecca e Medina, e portando i commerci dal Sudan al Magreb al Mali, con tutto ciò che significava in termini di scambi materiali e culturali,  si ritrovano sempre più a fare i conti con “lo steccato”.  Saranno proprio i confini una delle cause del progressivo spegnersi del modo di vita nomade.  Come ebbe a dirmi anni fa un masai, in Kenya, “per i masai non esistono Kenya, o Tanzania… Esiste il Masailand. La Terra dei masai”. Già. Peccato che a Berlino non gliene importasse assolutamente nulla. Loro erano i Grandi della terra. Chi erano i masai, i saharawi, i tutsi, i karimojon, i tuareg …? Cosa potevano contare le loro “scorrerie”? a chi potevano interessare? E poi tutti questi nomi sconosciuti… ma quanti popoli sono in Africa? Quante lingue parlano? Acholi, gabra, zulu, xosa, luo, kirundi, berbero, shanti, ibo, … che confusione!

E in effetti, questi popoli sono stati schiacciati politicamente, economicamente, culturalmente. Molte lingue sono scomparse, molte stanno scomparendo, con tutto il bagaglio culturale millenario che si portavano dietro.

E’ scomparsa, fra le tante altre cose, la cultura nomade. Quello che ne resta, è davvero una percentuale così minima, da far male al cuore. (Sono convinta, come affermava spesso Bruce Chatwin, che essendo l’uomo nato nomade, si porta il nomadismo nel proprio patrimonio genetico. Per questo, avendo scelto la vita sedentaria, non può essere felice!).

Come emerge anche dai racconti che seguono, i saharawi hanno opposto una resistenza lunghissima agli invasori: sia francesi che spagnoli. Perché per loro “non vi erano Marocco, Tunisia, Algeria… Vi era il Sahara”  da cui il loro nome e quello della loro terra. Si sa che sempre il più forte vince, raramente il più intelligente. Men che meno “il più buono”. La storia dell’umanità, è una storia di oppressioni. Questa volta tocca anche ai saharawi mettere la testa sotto. E purtroppo, per molto tempo. Il ché ovviamente non significa darsi per vinti, né abbandonare la lotta.

Passa una Guerra Mondiale. Ne passa un’altra. L’Europa è sconvolta da dittature orrende, dalla barbarie della Shoà, ma le potenze coloniali resistono. Fino all’arrivo di quel piccolo, piccolissimo uomo (incredibile, un volta ogni mille anni anche i buoni vincono!), che mette in crisi la più grande delle grandi potenze. Gandhi, contro l’Inghilterra. Davide contro Golia. (…I lillipuziani contro i giganti).  Il Potere è sconvolto. E mentre Berlino viene spaccata in due, il mondo che era stato spartito a Berlino comincia a crollare. Una dopo l’altra cadono tutte le superpotenze. Cade il colonialismo. Spagna e Portogallo per ultime.

La Spagna sconvolta dalla dittatura franchista e poi dalla guerra di liberazione lascia un’eredità pesantissima ai suoi territori occupati. La terra dei saharawi paga il prezzo più caro.

Il regalo che si era avuto in quel pacchetto di Natale è stato consumato, munto, spremuto, rotto e infine… buttato via.  Come ogni oggetto che si è consumato e “non serve più”.

La Spagna che aveva invaso quella terra nel 1800, se ne va nel peggiore dei modi: con un accordo segreto in cui la cede alle mani di Marocco e Mauritania, nonostante l’Onu ne avesse sancito il diritto all’indipendenza. Probabilmente la Spagna sta ancora pagando per quell’errore, in soldi e in sensi di colpa, visti gli aiuti e i progetti umanitari forti che vi sono tra i due paesi.

Con l’invasione dei due paesi confinanti, ha inizio da un lato l’esilio di un popolo, che si rifugia in Algeria dove fonda la RASD, la Repubblica araba saharawi democratica; questa fuga a sua volta porta alla consueta diaspora di ogni popolo in esilio: verso l’Europa, verso qualunque paese dimostri accoglienza (Cuba e URSS in primis). D’altro lato, ha inizio la carcerazione per quanti non sono fuggiti. Chi è rimasto nel sahara occidentale, vive come cittadino-di-serie-B, con la carta di identità diversa dagli altri marocchini, con diritti umani ridotti (non che il governo del re del Marocco, Mohamed II, brillasse di rispetto dei diritti umani anche per i marocchini stessi). Le denunce di Amnesty international piovono, ahinoi, torrenziali. Carcerazioni senza processi, sparizioni di decine di persone, gente che viene trovata morta in “incidenti” incomprensibili, impossibilità di uscire dal territorio e, per i parenti, di entrarvi.  Le famiglie smembrate, non possono più ritrovarsi, nemmeno per un saluto quando si sente la morte ormai vicina.

La Rasd viene riconosciuta dall’Onu e anche dall’Organizzazione dell’Unità Africana (oggi Unione Africana). Ma ciononostante, il Marocco persegue la sua occupazione senza sosta, e anzi mandando sempre più cittadini marocchini sul territorio saharawi, in modo che vi sia sempre più confusione al momento di un eventuale referendum, che ovviamente vuole evitare.

In questi trent’anni la comunità internazionale spende centinaia di miliardi tra aiuti alla popolazione in esilio (che vive in mezzo alla sabbia, dove è assolutamente impensabile un’autonomia alimentare data dall’agricoltura) e processo di pace affidato alla MINURSO, la Missione dell’Onu per il referendum nel Sahara occidentale.

Tutto inutile. Il referendum fissato per il 1992 viene rifiutato dal Marocco. Continuano anche negli anni successivi le denunce di Amnesty International verso il Marocco nei confronti di cittadini saharawi.

Questo popolo, ha creduto per tre decadi nel dialogo, nella politica, nelle istituzioni internazionali, nella nonviolenza. Da trent’anni cerca di evitare lo scontro armato. Con risultati nulli. La comunità internazionale resta a guardare, o comunque, evidentemente, non fa abbastanza visto che il problema da 30 anni non si risolve. Ultimamente calano anche gli aiuti economici.

Se qualcuno tra i saharawi si stancherà di aspettare e deciderà di riprendere in mano le armi, dovremo dire ancora che si tratta “dei soliti fanatici terroristi”?  Cosa deve fare un popolo oppresso e inascoltato? Suicidarsi in massa? Accettare l’oppressione in eterno? Aspettare che un miracolo piova dal cielo e che il paese occupante cambi idea? Cosa fanno, veramente, “le grandi superpotenze” per evitare che da un piccolo focolaio nasca un incendio disastroso? Non ci bastano gli incendi già in atto in tutta l’Africa e nel Medio Oriente?   

Alla fine di ogni quesito, rimane sempre una solita amara risposta: il mondo occidentale, che ha creato una cultura stupenda, ricca di opere d’arte meravigliose, che ha avuto uomini e donne di ingegno incredibile, che ha “inventato” i diritti umani e la democrazia, che sa convivere con eccezionali differenze all’interno di uno stesso gruppo sociale,… quello stesso mondo è infinitamente piccolo, gretto, egoista, anche ignorante, quando si tratta di redimere dispute che sarebbero semplici, se si volesse affrontarle semplicemente. Ma nonostante il bagaglio secolare di cultura e di diplomazia politica, rimane incapace di mettersi in gioco, di prendere posizione, quando si tratta dei diritti degli altri.  I giochi girano solo per gli interessi di questo o quel paese. Quando poi i “clandestini” sbarcano sulle nostre coste cercando una qualità di vita migliore, qualcuno si meraviglia, qualcuno protesta. Pochi pensano che, al loro posto, probabilmente faremmo altrettanto. La scelta rimane tra la fuga, il suicidio, la lotta armata.

Cronologia degli avvenimenti[1]

  • 1884 Il trattato di Berlino definisce i confini del Sahara Occidentale - colonia spagnola abitata dal popolo Saharawi - rispetto a Marocco e Mauritania, colonie francesi.
  • 1973 Viene fondato il Fronte Polisario (Fronte di Liberazione di Saghia-el-Hamra e Rio de Oro), il cui manifesto è di combattere fino all'indipendenza del popolo Saharawi e al riconoscimento della sua sovranità sulla propria terra.
  • 1974 Nell'accordo di Rabat, il Marocco e la Mauritania decidono di dividersi il territorio e le ingenti risorse naturali del Sahara Occidentale.
  • 1975 La commissione inviata dall'ONU riconosce il diritto del popolo Saharawi all'autodeterminazione.
  • 1975 La Spagna cede definitivamente il Sahara Occidentale a Marocco e Mauritania. Questi invadono il territorio Saharawi contrastati dalla resistenza del Fronte Polisario; una parte della popolazione civile, per sfuggire al genocidio, si rifugia nel deserto algerino, in prossimità di Tindouf; il Marocco attua l'invasione tramite la Marcia Verde, insediamento di coloni marocchini nel territorio del Sahara Occidentale.
  • 1976 L'ONU condanna l'accaduto, ma senza alcun intervento concreto.
  • 1976 Viene proclamata la RASD (Repubblica Araba Saharawi Democratica),riconosciuta da 74 paesi.
  • 1978 La Mauritania, a seguito di un golpe militare, rinunzia al conflitto e il nuovo governo ratifica (1979) un accordo di pace con il Fronte Polisario; il Marocco raddoppia quindi il proprio sforzo bellico ed invade anche la parte meridionale del Sahara Occidentale.
  • 1978 La Spagna riconosce il Fronte Polisario.
  • 1979 Il re del Marocco firma la carta dei diritti dell'uomo
  • 1982 La RASD è ammessa quale 51° stato membro dell'OUA (Organizzazione dell'Unità Africana) ed il Marocco, per protesta, se ne dissocia.
  • 1985 Il Marocco si dichiara disponibile ad affrontare il referendum, confidando sul fatto che ormai la popolazione presente nei territori rivendicati è costituita in buona parte da coloni marocchini; è quasi ultimata la costruzione di un muro lungo quasi 2.700 km, realizzato dal Marocco a difesa dei territori occupati.
  • 1988 Risoluzione ONU 621/88 e seguenti: viene istituita la MINURSO (Missione delle Nazioni Unite per il Referendum del Sahara Occidentale) e stabilito un piano di pace.
  • 1989 Il Parlamento Europeo adotta una risoluzione a favore dell'autodeterminazione e dell'indipendenza del Popolo Saharawi.
  • 1991 Il 28 giugno il Marocco ed il Fronte Polisario accettano la tregua fissata per il 6 settembre 1991 e fissano il referendum per il gennaio 1992 da eseguirsi secondo le liste del censimento spagnolo del 1974. Questo referendum non è mai avvenuto.
  • 1991 Il 4 ottobre il Marocco organizza una seconda Marcia Verde alla quale prendono parte 155.000 coloni Marocchini, portando a 7 a 1 il rapporto tra Marocchini e Saharawi.
  • 1992 Il 15 gennaio il Parlamento Europeo nega la concessione di nuovi aiuti al Marocco fin quando non adempirà alle risoluzioni dell'ONU.
  • Dopo oltre 10 anni di attesa e di lavoro nonviolento, la popolazione è stanca. La diplomazia non ha sortito alcun effetto.

 

 

Le vittime

La resistenza e la lotta per l'indipendenza hanno provocato un elevato numero di perdite, militari e civili, tra i Saharawi.
L'esercito invasore (meglio armato e molto più numeroso) ha spesso fatto uso di bombe al napalm, al fosforo e a frammentazione.
Dai rapporti di Amnesty International si hanno resoconti agghiaccianti delle torture a cui sono sottoposti, nelle zone occupate, i Saharawi sospettati di essere attivi sostenitori dell'indipendenza del Sahara Occidentale. I Saharawi non detengono alcun diritto politico e civile e il semplice sospettato può essere recluso o addirittura sparire nelle prigioni segrete di sua maestà Hassan II re del Marocco. I nomi sinistri dei bagni penali di Tazmamaret e Khalat-M'Gouna rievocano tristi ricordi in chi vi è stato torturato o vi ha visto sparire familiari ed amici. Il numero dei desaparecidos saharawi, purtroppo destinato ad aumentare, è stimato in molte centinaia.
A questi tragici dati dobbiamo aggiungere tutte le vittime indirette dell'invasione, generalmente anziani e bambini sopraffatti dalle malattie, dalla fame, dalla stanchezza e dalle terribili difficoltà dell'esodo e dell'esilio.
Ma esistono altri disperati di questa guerra dimenticata, sono i militari marocchini, caduti per difendere una terra che non è la loro; sono le migliaia di prigionieri in mano al Fronte POLISARIO e dei quali il Regno del Marocco non vuol riconoscere l'esistenza considerandoli disertori. Emblematico è il caso di 200 prigionieri marocchini liberati, nel 1989 dal Fronte POLISARIO, senza porre alcuna condizione, come gesto di buona volontà per favorire le prime difficili trattative di pace, ma rifiutati dal Marocco in quanto la loro accoglienza avrebbe significato il riconoscimento dell'esistenza del "problema saharawi" che, all’interno del paese, re Hassan II ha sempre rifiutato di accettare. Per un suddito di sua maestà la questione del Sahara Occidentale non deve "ufficialmente" esistere. Una beffa per chi ha perso la libertà proprio per difendere il potere di chi, adesso, ne disconosce l'esistenza.

    MAPPA DEGLI ACCAMPAMENTI DI TUTTA LA RASD (dai miei taccuini di viaggio)

 

Foto della Hammada e tende saharawi  

 

 

 

    

 

MAPPA DI UNA WILAYA  

 

VITA PROFUGA

A partire dall'anno di invasione del Sahara occidentale da parte del Marocco, il popolo saharawi (o meglio: coloro tra i saharawi che hanno potuto scappare)  ha dunque vissuto rifugiato in Algeria.

Migliaia di persone si sono trovate nel mezzo del nulla. Il deserto di sabbia in Arabia Saudita si chiama "the empty quarter": la zona vuota. Potremmo chiamare allo stesso modo il Sahara. Non perché non vi sia traccia di vita, naturalmente. Ma perché evidentemente quella traccia di vita è cosa ben diversa da ciò che si considera normalmente il meglio per la vita dell'essere umano. Certo, tuareg e beduini hanno sempre abitato queste terre aride e inospitali, amandole profondamente. Ma come si vedrà dai racconti degli anziani, le condizioni di vita erano ben diverse da quelle di oggi.

I profughi del Sahara Occidentale si sono rifugiati in Algeria convinti di restarvi pochi giorni, per poi riprendere possesso dei propri beni, e ricongiungersi alle loro famiglie. Ma i giorni si sono ammassati uno sull'altro, per far passare mesi, e anni, e anni ancora… In attesa di promesse non mantenute, assistendo al fallimento del ruolo delle Nazioni Unite, nell'incapacità generale della comunità internazionale di far rispettare gli accordi presi.

Nell'arco di questi anni di attesa paziente e certosina, il Fronte Polisario ha creato uno stato nello stato: la RASD, Repubblica Araba Saharawi Democratica, è uno stato in esilio, ospitato dalla nazione algerina.  Ha dunque tutte le istituzioni necessarie alla vita di uno stato democratico, ha ministeri e ministri, scuole, servizi sanitari, mezzi di trasporto... E creandosi in un "quartiere vuoto", dal nulla, la RASD ha dato il via ad un’esperienza unica ed incredibilmente affascinante, come la messa in piedi di città nella sabbia, organizzate con i criteri più moderni ed efficienti di urbanistica del welfare state.

Gli accampamenti saharawi sono vere e proprie cittadine (wilaya), divise in quartieri la cui amministrazione è affidata alla daira che appare proprio una sorta di moderno centro di quartiere: con il dispensario, l'ufficio anagrafe, il centro d'ascolto, il consultorio,… (generalmente vi sono 6 daire per ogni wilaya).

Certo, in tutti questi anni questo popolo è stato alle dipendenze degli aiuti umanitari internazionali. Nei primi tempi dopo l'esodo, moltissime sono state le malattie epidemiche, e molti bambini sono morti. Se non vi fossero stati gli aiuti di tante organizzazioni di solidarietà, e poi dell'Unione Europea e delle agenzie delle Nazioni Unite, forse i saharawi sarebbero stati un altro fra i tanti gruppi etnici estinti. Ancora oggi sono costretti a ricevere aiuti alimentari e sanitari, perché in quel deserto non cresce nulla. Certo non abbastanza per dare da vivere a 150/200.000 persone.  

 

"Vai dunque laggiù? Come sarai lontano!"

"Lontano? da dove?"

Il piccolo principe.  

  STORIE DI VITA.   

I capitoli che seguono, sono i colloqui - brevi o più lunghi - intercorsi tra me e alcune delle persone incontrate nei campi saharawi, tra maggio e giugno 2002. La raccolta di storie di vita, è una metodologia preziosa e arricchente a vari livelli, e per diverse ragioni.

Innanzitutto lo è per chi la fa. E' estremamente bello porsi semplicemente all'ascolto di chi ha belle storie da raccontare. Ogni volta si esce cresciuti dallo scambio, sia per ciò che si è appreso, sia per la relazione che si instaura tra chi si sente libero di parlare, e chi si pone ad ascoltare con curiosità, ma senza il minimo giudizio. E' in qualche modo una relazione che produce amore, perché si crea una comunicazione/comunione profonda.  Chi parla di sé, dei propri ricordi, spesso si commuove, gioisce, ride, soffre. In ogni caso, alla fine, generalmente ringrazia, perché è sempre bello trovare qualcuno a cui raccontarsi.

Quelli che seguono sono colloqui avvenuti quasi sempre col registratore, tranquilli, seduti sul tappeto attorno al tavolino del tè, o bevendo una birra sotto un cielo stellato…, senza un argomento preciso di cui parlare, e soprattutto senza limiti di tempo. Quando chiedo a una persona di raccontarmi pezzi della sua vita, può essere velocissima e dirmi tutto in un paio d'ore, oppure in due giorni… Ciò che conta è la relazione che si instaura, affinché il racconto salti fuori nella maniera più immediata, e quindi autentica. Ciò che viene registrato, in tal modo, rimane fra me e l'interlocutore. Il dattiloscritto della sbobinatura viene poi (quando è possibile, dipende anche dalle distanze, e dalle lingue di lavoro) rivisto e corretto da chi si racconta, e ciò che viene da me pubblicato è esclusivamente ciò che la persona vuole dire, apportando i tagli o le aggiunte che desidera, affinché il messaggio sia il suo, e non il mio.

E così arriviamo ad un'altra delle ragioni di fondo per cui amo sempre più scrivere raccogliendo storie: per poter essere un semplice strumento, per dare il più possibile la voce a chi - generalmente - non ne ha. E su questo, i poveri del mondo sono davvero resi campioni. Campioni di silenzio. Estromessi dai G8.  Ai margini delle grandi catene editoriali. Ancor più tagliati fuori dai grandi sistemi della comunicazione globale, dell'informazione, della cultura.

E' facile parlare dei poveri. E' molto più difficile fare in modo che loro possano parlare.

La raccolta delle storie di vita nasce proprio dalla filosofia pedagogica di fondo secondo cui ogni storia è degna di un romanzo. Se poi consideriamo l'altro detto secondo cui ogni vecchio che muore in Africa, è una biblioteca che brucia,…  non c'è bisogno di aggiungere altre spiegazioni alle ragioni di questa scelta metodologica.

Quella che segue è dunque una raccolta di brevi storie, e possiamo considerarla anche una palestra per allenarci alla pratica dell'ascolto. Perché ascoltare è conoscere, ma è anche divertimento, piacere. E soprattutto, è relazione.

     

L'AMBIENTE

Il governo profugo della RASD è nato e si è sviluppato in una zona dell'Algeria all'estremo sud-ovest, in pieno deserto del Sahara, in particolare su quello che è il vasto altopiano della Hammada. Il deserto in sé, per molti è affascinante, per altri è generatore di angoscia. Personalmente, sono tra coloro che lo amano immensamente. Amo in generale i grandi spazi in cui lo sguardo può quasi percepire lo zenit, senza interferenze. Senza confusioni, limitazioni, rumori. Ero felice quando potevo percorrere ore e ore di pista nel deserto roccioso, rosso e arancio, del nord della Somalia, o quello del Sinai, variegatissimo e sacro, o sulle bellissime, rilucenti dune sabbiose della penisola arabica. Così come amo le grandi savane dell'est Africa, dove gli occhi possono spaziare sull'infinito, incontrando quel che resta dell'incredibile, meravigliosa fauna dei grandi mammiferi e felini africani. Sono paesaggi ancestrali, che fanno forse vibrare nelle nostre viscere ricordi perduti delle origini prime.

Il deserto della Hammada, a prima vista, appare ciò che possiamo definire una "rappresentazione del nulla". A trovarmi lì, mi tornavano alla mente elucubrazioni sartriane; come giochi di parole "l'essere e il nulla", "la morte nell'anima"… Eppure quella distesa per me era (è, e suppongo sarà) una continua, inesauribile fonte di sorprese, di meditazioni, di stupore rispetto a ciò che è la natura.

La "capitale", o meglio la sede del governo della Rasd, è a Rabuni, che dista circa 20 km dalla città militare algerina di Tindouf (e 2000 da Algeri). A Rabuni non ci sono campi profughi, ma solo gli uffici amministrativi del governo della Rasd con i vari ministeri, e alcuni ostelli detti "Protocollo", per ospitare gli stranieri.

Tra Rabuni e il campo più lontano, quello di Dajla (si pronuncia Dacla), sono circa 150 km di deserto, in cui ti chiedi come accidenti fa l'autista a sapere con tanta sicurezza dove andare! comunque lo sa… e tu fiduciosamente ti lasci trasportare, eliminando -se per caso le hai- le nevrosi occidentali da bisogno-costante-di-gestire-e-dominare. Nel deserto è difficile per noi "avere tutto sotto controllo". Siamo preda degli eventi (per questo bisogna tenersi amica la natura!).

Il paesaggio percorso cambia a tratti, prendendo sfumature di colori magiche, alternando le dominanti di rosa, di nero, poi di rosso, o di giallo… e poi l'erosione dei millenni ti lascia assolutamente senza fiato davanti a canyon incredibili, dove percepisci i fiumi che furono un tempo, e dove per una volta ritrovi la potenza della natura, senza il dominio dell'uomo.

Dalla Hammada mi ritrovai a mandare un sms ad un amico (che vive in Italia in mezzo ad un bosco rigogliosissimo, a 1000 mt di altezza, nell'Appennino tosco-emiliano) che diceva "In mezzo al deserto. Meravigliosa madre terra!". E lui, che ama immensamente la natura e in quel periodo si godeva una stupenda primavera di pioggia e di profumi, tra sé e sé ha pensato…"caspita, in mezzo al deserto… eppure sì, anche quella è la madre terra!". Gli era difficile immaginarlo. Eppure anche lì, quella madre che si fa così arida, egoista, severa, è una madre stupenda. Anche una madre può essere egoista e tenere per sé le sue ricchezze. Nel deserto, la natura si cela. Bisogna volerla amare davvero per accettarne le bellezze nella sua ermeticità. Eppure è madre. Ha pieno il grembo. E' ricca. Ed è bellissima.

Il deserto è un incantesimo che ti fa cogliere le contraddizioni. Ti ci pone davanti. Bisogna riuscire a lasciarsi andare, non aver paura della paura, e neppure paura di perdersi. Prima o poi ci si ritrova!

Questa terra, un po' terribile un po' incantata, è da sempre la terra di beduini e tuareg. E dal 1975 è la terra dei saharawi in esilio.

Nota per i viaggiatori: l'Algeria è un paese molto bello. Evitiamo (come fanno i più) di saltare Algeri. E' una gran bella città, con gente ospitale, per nulla integralista, e gran belle spiagge nei dintorni. Attualmente i gruppi di turisti arrivano ad Algeri con il volo internazionale, per poi tuffarsi subito - perlopiù - nei safari nel deserto, a vedere le incisioni rupestri dei Tassili, ecc. L'Algeria ha molto da vedere, comprese le zone di verde mediterraneo, a vigneti e uliveti, nonché diverse zone archeologiche, romane e preistoriche. Chi lo desidera, in Algeria può compiere sia un viaggio umanitario, sia un bellissimo viaggio di conoscenza antropologica, storica e naturalistica.  

Solo chi vive nel deserto ne conosce il silenzio  
Che scende da ogni stella palpitante
E dalla bianca tomba della luna
 
Si stende senza palpiti il deserto
Simile al cuore di una donna morta
Che nessuna carezza risveglia
 
Solo chi è perso nel deserto
Senza canti di uccelli
Né stormire di fronde
Nell'arido grigiore di pietra e sabbia
La vera solitudine conosce
 
Io mi sono disteso
In questa immensità che scava
Di sotto ai nostri piedi
La cuna della tomba e del vagito
 

Canto dei beduini del Sahara.

 

Parte 1. I ricordi degli anziani, biblioteche di un mondo scomparso.    

Immagini di vita nomade e della dominazione spagnola.

      

AHMED ALI MOHAMED EL MEQUI

Siamo nell'ospedale di Rabuni, e Ahmed ha appena fatto fare a un suo nipotino - che non sta bene -  un esame del sangue: i risultati vanno bene, nulla di grave.

Gli chiedo di raccontarmi alcuni ricordi della sua vita quotidiana da giovane, quando viveva come nomade nel deserto. Vedo immediatamente i suoi occhi aprirsi e illuminarsi.

L'amico veterinario Gaid mi traduce in spagnolo dall'hasanja. Ahmed mi ringrazia per essere interessata alla sua storia, e sottolinea l'importanza di far conoscere ad altri la sua voce e quella del popolo saharawi. Eccoli con me nella foto. 

Prima dell'occupazione spagnola, il Sahara è stato sempre la terra dei saharawi, che vivevano divisi in tribù indipendenti e ben organizzate, condividendo tutto ciò che potevano condividere. Vivevano nomadi, ma avevano la loro organizzazione politica. Per esempio centinaia di  haimas, le tende tradizionali, erano guidate da un saggio, che cercava di portare il meglio a tutta la popolazione. Inoltre, avevano la propria organizzazione per la difesa militare, con cammelli e cavalli, in grado di intervenire per esempio quando vi era l'invasione di altre tribù.

In che modo veniva nominato, o scelto, questo anziano saggio? Quanti anni doveva avere per diventare un capo tribù?

Il saggio veniva eletto da tutta la popolazione insieme, perché tutti vivevano insieme, e si conoscevano uno a uno, quindi conoscevano qualità e difetti di ciascun membro delle tribù. Il saggio veniva eletto quindi in base alle sue esperienze e alle sue qualità.

La popolazione nomade divideva tutto equamente. Era quindi importante che il capo tribù fosse riconosciuto come una persona assolutamente giusta.

Mi racconta dei ricordi della sua infanzia nel deserto? Come giocavate voi bambini, cosa facevate, lavoravate? Eravate molti fratelli?

C'erano dei giochi tradizionali, che ora sono quasi scomparsi come il gioco del "rah". Si faceva in gruppi di 6 bambini, messi in cerchio, il 6° al centro, e gli altri che cercano di toccarlo e lui deve cercare di non farsi toccare, altrimenti viene scambiato con un altro. Poi c'era un gioco che si faceva con il turbante. Ci si toglieva il turbante per arrotolarlo e farne una specie di palla, divisi per squadre, un gruppo sotto e un gruppo sulle spalle degli altri………

Giocavate insieme maschi e femmine, o facevate giochi diversi?

No, le femmine facevano giochi diversi. Per esempio lo zijhe: si faceva in terra, tirando dei sassi, o dei pezzi di carbone, per fare dei punti da segnare sulla sabbia. Anche questo si faceva in due squadre.

C'erano giochi da fare insieme, maschi e femmine?

No, si giocava separati. Ci si trovava insieme solo a studiare il corano.

Ahmed, lei è cresciuto in questa terra. Ha un bel ricordo della sua infanzia nel deserto?

Ho vissuto nel deserto fino a 50 anni. Sì, è stata felice la mia infanzia nel deserto. Era bella la vita nomade. Si andava in giro, a cercare pasto per i cammelli. Erano bellissime le haimas. Non sono tende come quelle che abbiamo qui nei campi. Erano molto grandi, con un solo palo centrale, e fatte di pelle di cammello.

Quando lei era bambino, come erano gli spostamenti, quante volte cambiavate nell'arco dell'anno?

Quando io ero piccolo, stavamo circa un mese in un posto, se vi era da mangiare per i cammelli, poi ci si spostava in un altro posto, a cercare altra erba fresca. Si andava anche molto lontano. Si poteva camminare per venti giorni, un mese, e i cammelli mangiavano quello che si trovava lungo il percorso. In estate invece ci si fermava, perché era troppo caldo. Si cercava un posto vicino all'acqua, e si stava lì 2-3 mesi.

Quindi all'epoca non c'erano confini per voi, potevate andare dall'Algeria al Sahara spagnolo, alla Mauritania…?

Sì certo. Ci si spostava ovunque. Ovunque vi fossero acqua e pascolo per le bestie.

Quante famiglie insieme si spostavano?

Potevano essere 5, 10 o anche 20 haimas insieme. Era importante stare uniti, per difendersi meglio dalle invasioni delle tribù nemiche, che venivano per rubare il bestiame. Bisognava essere in zone vicine.

Le vostre mandrie erano importanti: quanti animali potevate avere nei vostri spostamenti, tra cammelli e capre?

Sì, avevamo molti cammelli, ma non c'era un numero regolare. Alcune haimas potevano avere 50 cammelli, altre 100, altre 200. Tutti insieme facevamo più di mille bestie. C'erano quelli da trasporto, non molti, e quelli da latte, che erano la maggior parte. Questi erano tenuti separati, alcuni vicini alle haimas, altri in altre zone a pascolare, proprio perché quando si era attaccati da bande di ladroni, loro prendevano tutto ciò che trovavano, quindi bisognava fare in modo che le mandrie non fossero tutte insieme.

A quell'epoca, il tempo non era come adesso. Il clima era molto più umido, pioveva più spesso, ed era possibile dedicarsi completamente all'allevamento del bestiame, cammelli e capre.

Quindi lei trova che anche qui, nel deserto, il clima è molto cambiato?

Sì, assolutamente! Pioveva molto di più. Adesso non ci sono più i pascoli di una volta. Non si potrebbe più vivere come allora. Adesso, qui, è da tre anni che non piove!

Un tempo, i cammelli erano la nostra vita, e molte tribù cercavano di rubarceli. Facevano delle scorrerie, anche appiccando il fuoco intorno ai nostri accampamenti.

Noi eravamo sempre armati. Avevamo quei fucili di una volta, dove si metteva la polvere dalla bocca della canna. Ognuno di noi aveva un fucile. Si mescolava la polvere da sparo con un po' di sterco di cammello, e si sparava così un solo colpo. A volte, durante gli attacchi di tribù nemiche, molti animali morivano.

Ma questi attacchi, queste battaglie, accadevano di frequente?  

Sì, accadevano spesso. Le tribù saharawi erano tribù pacifiche, ma guerrigliere. Abbiamo avuto tante invasioni, per esempio da tribù della Mauritania, o del Marocco, ma sempre ci siamo difesi combattendo.

Prova nostalgia per i tempi della vita nel deserto?

Noi siamo sempre stati nomadi, ed era una bella vita, ci piaceva. Ma adesso mi piace la vita che faccio ora. Va bene così. Ogni periodo cambia. Qui abbiamo la nostra causa da difendere, e preferisco stare qui, a lottare per la causa saharawi. 

Quali erano i ruoli degli uomini e i ruoli delle donne? Che mestieri facevano?

Gli uomini si dedicavano alla cura delle bestie e alla guerra, mentre le donne si dedicavano alla haima. Lavoravano le pelli dei cammelli per fare le tende, e anche i tappeti o le stuoie. Queste si facevano con tre piante diverse, che avevano una diversa durata. E poi si facevano le coperte con la lana di capra, conciata con un'erba speciale per renderla più resistente.

I bambini già da piccoli studiavano il corano. C'era una haima apposta, che era la scuola coranica. Tra gli adulti delle diverse haimas vi era qualcuno disponibile a insegnare il corano, e noi gli davamo un aiuto economico ogni mese, per esempio qualche animale. Finita la scuola islamica, anche i bambini si dedicavano alla pastorizia.

La scuola coranica era sia per i maschi che per le femmine?

Sì, però andavano in posti diversi, femmine da una parte maschi dall'altra. E ognuno aveva la propria tavola di legno, su cui si scriveva il Corano con tinta di carbone. La "biro" era un pennello fatto con peli di capra. Scriveva bene! Molto meglio di queste biro moderne!

Maschi e femmine erano sempre tenuti separati, perché non vi fosse tra loro mancanza di rispetto. Era una donna delle nostre famiglie che insegnava il Corano alle bambine.

Quindi i maestri si spostavano con voi, facevano la vostra stessa vita.

I maestri erano persone delle nostre famiglie. E per fare la scuola, tutti si svegliavano presto. I bambini andavano a lezione alle 4, le 5 di mattina, che erano le ore più fresche.

I mestieri di cui mi ha parlato, soprattutto quelli che facevano le donne, esistono ancora o sono scomparsi?

Sì, si fanno ancora. I tappeti per esempio, sono fatti qui. Anche certe tende di pelle si trovano ancora, ma è più raro. I cammelli e le capre sono molto meno numerosi di un tempo. Ce ne sono di più nei territori liberati, e lì questi mestieri tradizionali sono un po' più diffusi.

Le tende tradizionali, erano molto belle, ma anche molto pesanti. Per questo, erano scomode da trasportare.

Quanti fratelli aveva, Ahmed?

Eravamo 4 maschi e due femmine.

E quando si è sposato, a che età?

Avevo 25 anni quando mi sono sposato la prima volta. Poi mi sono sposato una seconda volta, dopo la prima moglie. Ho avuto 5 figli dalla prima e 2 dalla seconda.

Dove è nato?

A Dajla, vicino al mare.

Era bello viaggiare dal deserto al mare?

(ride!) La vita ha sempre cose belle, e cose cattive!

Ma lei pensa che la sua infanzia sia stata più felice o no di quella dei bambini di adesso, che vivono qui, hanno la televisione,… come vede l'infanzia di questi bambini?

La vita nomade era molto più libera, si stava con gli animali, all'aria aperta. Mentre qui c'è l'odore delle macchine… Però.. ogni tempo, ha la propria storia, non si può cambiare! Questi bambini sono qui perché hanno la causa del loro popolo da difendere. Quando io ero piccolo, non c'era nessuna lotta da fare per il popolo saharawi.

(insisto) ma se non fosse per la causa da difendere, cosa preferirebbe: la vita nomade o la vita cittadina?!

Alla mia epoca, spostandosi con le haimas da un posto all'altro, non avevamo medici, né medicine, né ospedali. Qui, si possono avere cure mediche, e ci sono le scuole… Era una vita dura. Qui almeno quando un bambino si ammala, c'è un medico per curarlo. Anche se è vero che nella vita nomade avevamo la medicina tradizionale, con le piante, e poi non avevamo molte malattie.

Facevamo una vita molto più naturale e più sana, quindi non avevamo molte malattie.

Però tutto questo se n'è andato! Era un altro tempo. Se n'è andato con il vento. Il tempo è come l'uomo: un uomo è stato bambino, poi diventa adulto e vecchio. E così è per il tempo: ciò che è stato, non può tornare.

La vostra vita nomade è finita prima o dopo il dominio spagnolo? È finita per le condizioni politiche, o quelle climatiche?

La vita nomade per il saharawi non è finita, e non finirà! Adesso siamo costretti a queste condizioni, ma molti di noi continuano a vivere nomadi. Certo, siamo stati costretti dalla grande siccità di questi anni. Ma ci sono ancora alcune famiglie che vivono spostandosi con le loro tende.

I suoi figli sono qui, o sono anche nei territori occupati?

Ho una figlia nei territori occupati. Non la vedo dal '75. Tre miei figli hanno combattuto nella guerra, e ora sono qui. Ho perso 3 fratelli però, nella guerra.

Per Ahmed è tempo di andare. Facciamo una fotografia?

…. Grazie. È stato un piacere parlare con te. Ti aspetto nella mia haima, quando torni, a Dajla. I saharawi sono gente ospitale!

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Due "vecchi guerrieri". Dal cammello alla parabolica, senza lasciare la lotta!  

   

 

Villaggio di Smara. Alcuni vecchi, coi visi segnati dal sole e dal vento del deserto, con il turbante nero e i loro tradizionali abiti blu, giocano, seduti sulla sabbia, alla tradizionale scacchiera.

Alla ricerca di storie di vita tra questo popolo che ha vissuto guerre, violenze, diaspore, nonché prese in giro senza fine, colgo in questi visi e in queste barbe bianche il tesoro di mille libri, impolverati, su vecchi, preziosi, scaffali di biblioteca. Chiedo così a loro di dedicarmi un po’ di tempo.

Benani Sid Bachir e Azmali Brahim Maatala, sono entrambi settantenni, nati nei territori del Sahara Occidentale e vissuti per decenni secondo la loro cultura nomadica. Sono mille le domande che vorrei fare loro, nel tentativo di cogliere almeno qualche lontana impressione di un mondo ormai scomparso, che non ho potuto conoscere. Mi invitano nella classica stanza con i tappeti e il fornelletto per il te, e mi danno il loro affettuoso benvenuto, ringraziandomi dall'inizio per il desiderio di ascoltarli.

Hamdi mi farà da interprete, in spagnolo, ma premette subito che lui ha passato 13 anni della sua vita a Cuba, e non conosce perfettamente l’hasanja di questi vecchi. Anche Hamdi, poi, mi racconterà la sua storia di esodi e separazioni.

Benani, Azman, parlatemi della vostra vita, quando vivevate nomadi del deserto. Cosa ricordate maggiormente, cosa vi manca di più, rispetto alla vita che fate oggi, qui nel campo di Smara? Avete nostalgia dei tempi andati? (mi rispondono insieme, integrandosi l’un l’altro).

Eh, eravamo nomadi… I cammelli erano tutto per noi. La nostra vita, la nostra auto, il nostro aereo... Andavamo dappertutto con loro, in Mauritania, in Algeria… Eravamo una tribù di guerrieri, e combattevamo stando sui cammelli, con quei fucili vecchi e pesanti di una volta! Il nemico allora non era “un paese”. Era un gruppo, era qualcosa di astratto. Era chi non apparteneva alle nostre tribù. Per noi non c’erano confini, si andava per tutto il Sahara, e con i cammelli – tanti – affrontavamo tutto e tutti.  La famiglia si spostava raramente. La lasciavamo  al campo con le tende, insieme ad alcuni uomini per fare la guardia e proteggere le donne e i bambini, e noi andavamo via con i cammelli, a cercare l’acqua e il pascolo per le bestie. Amavamo la vita di allora. Avevamo meno problemi, meno malattie, meno povertà. Avevamo tutto ciò che ci serviva. Però stiamo meglio adesso. Ora sentiamo di essere un paese, sentiamo un’appartenenza politica, capisci?, che prima non c’era. Prima della dominazione spagnola, le tribù saharawi si ritrovavano nel Consiglio dei Quaranta. Quaranta adulti, rappresentanti di tutte le tribù, che garantivano il rispetto della legge tradizionale. E tutta la legge ruotava intorno ai cammelli, che erano migliaia. Così per esempio, per l'uccisione di una persona, si doveva un risarcimento di 100 cammelli.

Se si procurava una ferita, per esempio la perdita di un occhio, 50 cammelli. Cinque per un dente caduto, e così via. I cammelli valevano enormemente per noi, e un singolo capofamiglia poteva averne anche 500. Adesso… non ce ne sono più!

Il Consiglio dei 40 finì nel 1936, con la dominazione spagnola. Allora gli spagnoli proposero agli sceicchi di lavorare per loro come notabili stipendiati

E' stato un modo per comprare la classe politica?

No, non li hanno "comprati". Li stipendiavano, e loro lavoravano per gli spagnoli.

Insisto: … ma non è un po' la stessa cosa? Mi risponde Hamdi dicendo "secondo me sì, ma secondo loro no!" (ci sorridiamo con una strizzatina d'occhio, per queste differenze generazionali nell'analisi politica del colonialismo!)

(Ora è soprattutto Benani a parlare). L'invasione della Spagna, rispetto a quella dei francesi, è stata molto più morbida, più rispettosa. Gli spagnoli ci hanno colonizzato con il commercio, più che con le armi come i francesi nei loro territori. E ci hanno lasciato più libertà. Ad ogni modo, non abbiamo nessuna nostalgia della colonia!  Stiamo molto meglio adesso, che siamo una nazione, una coscienza come popolo e come paese. E lotteremo fino a riavere la nostra terra. Noi…siamo sempre stati un popolo di  guerrieri.  Combattevamo contro le altre tribù, contro gli invasori stranieri, abbiamo combattuto contro l'invasione del Marocco, e continueremo a combattere se sarà necessario. Non abbiamo paura di fare la guerra. Il nostro motto è "O la patria, o il martirio!". Meglio morire, certo, meglio morire, che andare sotto il Marocco!  Io, nel 1974 ho partecipato alla definizione e alla raccolta del censimento fatto dagli spagnoli. 200.000 persone furono registrate come saharawi, ma il Marocco niente! Non ha voluto riconoscerle. Ascoltano solo le soluzioni che gli interessano!  Adesso basta, non vogliamo più che altre persone parlino per noi, vogliamo noi parlare per noi stessi.  (prosegue Azmali).  L'Italia è sempre stata dalla nostra parte, ufficialmente. E la portiamo nel cuore. Tutti voi italiani, che venite qui per aiutarci, vi ringraziamo molto. Anche con la Spagna oggi abbiamo buone relazioni. Ha capito gli errori fatti in passato, e manda molto sostegno, economico, alimentare, sanitario. Il Marocco invece, si è svegliato solo nel '75. Il Sahara occidentale non è mai stato del Marocco, e di colpo il Marocco "si è accorto" che gli appartiene! Quando la Mauritania si è ritirata dal conflitto, il Marocco la voleva invadere, con il suo progetto di un "Grande Marocco". Molti nostri figli, le nostre proprietà, sono rimasti in Sahara.  Molti di noi erano ricchi a casa propria. Quando è cominciata la Marcia Verde, l'invasione dei marocchini, le nostre donne hanno preso una tenda e qualche capra, e con tutti i bambini si sono messe in marcia verso il nulla, per arrivare dove siamo adesso. E sono state loro a tirare avanti le famiglie, da sole, mentre gli uomini erano a combattere, o dovevano emigrare, per lavorare e studiare in paesi civili e democratici. Per questo, per tutto quello che abbiamo subito, noi potremo essere morti, ma non vinti!  Se l'ONU non è capace di risolvere i nostri problemi, che se ne vada. Noi li risolveremo a modo nostro. Abbiamo accettato gli aiuti umanitari tutti questi anni per vivere e per lottare. Non per essere sottomessi!

Nel frattempo, mi hanno offerto il classico te nei bicchierini di vetro. E' sempre un momento di grande condivisione. E' lo stare insieme per stare insieme. Per parlarsi comodamente seduti, con il rito della teiera che si alza sui bicchieri, per mescolare la bevanda, e formare la schiumetta che piace tanto.

Mi dispiace doverli salutare. Ci sono tante cose ancora di cui vorrei parlare con loro, vorrei "bere" dalle loro conoscenze, ma mi rendo conto che il mio interesse va al di là delle questioni politiche. Io, figlia dei telefonini e della pubblicità, sono affascinata da questi uomini che vivevano nella sabbia, a 48°C, e che mi riportano a mondi per me tristemente perduti.

Ma loro, al contrario, vogliono parlarmi della loro lotta, di ciò in cui credono adesso.

Ciò che per me è nostalgia, che mi procura amarezza, forse è solo un inutile, bucolico mito (mentre chi faceva quella vita è felice di farne ora una meno faticosa). Molti di noi che vivono nell'occidente ricco e libero, sentono dolore per l'omologazione culturale del mondo, che ha anche coinciso con il depauperamento delle risorse naturali e quasi la distruzione del pianeta. Eppure, forse, se il mondo si è omologato è perché la tecnologia è comoda per tutti, e lo sviluppo porta (forse) inevitabilmente all'appiattimento, che ci piaccia o no.

Alcuni giovani sopraggiunti ci hanno ascoltato con interesse, molte cose non le sapevano neanche loro. E io butto il mio sassolino a favore della raccolta delle storie di vita: "questi vecchi, sono la vostra storia, le vostre radici; raccogliete le loro storie, scrivetele, e voi anziani, raccontate, fatevi ascoltare, affinché la vostra memoria non vada perduta!".

Il te è finito, la macchina mi aspetta. I due vecchi amici, contenti, mi salutano con calore.

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Parte 2.  Giovani "cubani": una generazione traumatizzata.

 

Racconto di Brahim cheik Breih, Direttore di cooperazione, Ministero per la cultura e lo sport.

Immaginatevi un caldo cocente, nel deserto, sotto l'ombra di due alberelli esili, alle 4 del pomeriggio. Brahim è un uomo corposo, con occhi e capelli scuri, lo sguardo spesso "birichino". Gli piace molto scherzare, prendere in giro, fare un po' il clown, provocare. Ecco il suo racconto, tradotto dallo spagnolo.

Brahim, parlami dei tuoi ricordi dell'infanzia. Tu sei nato nel Sahara Occidentale, quando c'erano ancora gli spagnoli, giusto? E poi, cosa è successo?

Sì, sono uno di quei giovani nati nel Sahara occidentale, e che hanno poi vissuto la disgraziata storia della Marcia Verde, l'invasione dell'ex Sahara spagnolo da parte del Marocco, e così anche noi ci siamo trovati a marciare nel deserto. Io sono stato abbastanza fortunato, perché con la mia famiglia scappammo in Spagna con l'aereo, ma tanti altri hanno camminato nel deserto, sotto i bombardamenti marocchini, e fatto la guerra. Era il 1979 e io avevo circa 6 anni. Andammo in Spagna per poi raggiungere questi campi di rifugiati, dunque io non ho vissuto il momento più difficile della fuga e dell'esilio. Venuti qui, pensavamo di restare per pochi giorni, e poi invece… Ho fatto qui, nei campi, la scuola elementare e superiore, poi  (come molti altri perché per l'università si doveva andare all'estero, ad Algeri, in Spagna, in Siria..)  sono andato a Cuba, dove andava la maggior parte.

Cosa ti ricordi della scuola elementare dei campi profughi di allora?

Eh, ricordo molte cose, ma piuttosto tristi. Ero piccolo, venivo da una bella città del Sahara spagnolo, Dajla, vicino al mare. E mi ritrovo qui, in pieno deserto, dove si pensava di stare pochi giorni… Fu un cambiamento anche climatico terribile. Trovai uno scirocco terribile, difficile da sopportare. A Dajla stavamo bene, avevamo la nostra bella casa, come voi, e poi, con la disgrazia della guerra… Nel campo di Tifariti pensavamo di stare pochi giorni, come tutti. E ora sono 27 anni, in questo deserto!

Ma la tua famiglia poi se ne è andata da qui.

Sì, mia madre vive in Marocco adesso, mio padre è ancora qui.

E com'è andata a Cuba, cos'hai fatto?

A Cuba sono rimasto dieci anni. Volevo fare gli studi per diventare regista, ma non sono riuscito a finire l'università perché era da pagare in dollari, e io non avevo soldi abbastanza, c'era solo un piccolo aiuto di una borsa di studio. Feci un anno di sociologia, e degli studi di teatro. Poi però ho deciso di tornare qui, nel mio paese. E' stata comunque un'esperienza molto importante. Il livello delle nostre scuole qui ai campi non era un granché, e a Cuba quindi ho imparato moltissimo. E' la mia seconda patria Cuba. Sono cresciuto moltissimo là, non solo a livello di studi ma di vita in generale. Certo, mentre eravamo là, non ci rendevamo conto di cosa vuol dire vivere nella durezza del deserto. E' duro stare qui.

Però sei tornato lo stesso, perché?

Eh, perché! Perché io sapevo che un giorno dovevo tornare nel mio paese, e che qui posso essere utile. Noi siamo in guerra, e non possiamo fare ciò che vogliamo. Forse un giorno, quando la guerra sarà finita. Ma adesso posso essere utile qui, non importa se non ho conseguito nessun  titolo. Quello che conta non è il titolo, è che trovi un posto nella tua società, e che riesci ad occuparlo. Può essere un posto importante, o molto semplice, ma comunque ti senti utile, per il tuo popolo, il tuo paese, o per te stesso.

Non ti è mai venuta voglia di stare in un posto più tranquillo e più piacevole, come tua madre, o come tuo fratello che vive in Italia?

Magari! Sì certo, noi tutti vorremmo vivere in un posto migliore, felice, tranquillo. L'esempio che mi hai fatto, mio fratello, è un dolore per me. Lui è andato in Italia per studiare musica, poi però alla fine degli studi ha trovato una ragazza, si è sposato, ora ha una bambina, vive a Roma ed è contento.

Avevo altri due fratelli, più grandi, entrambi morti in guerra. Lottavano perché volevano per noi un futuro migliore, a casa nostra.  Avevo molti amici che sono morti, e sono morti non certo perché volevano che stessimo a vivere qui, in questa landa deserta.  Noi vogliamo tornare nella nostra patria. E non ho nulla contro chi decide di stare fuori, anzi, li capisco. Però a me interessa stare qui, e portare avanti questa lotta.

Cosa pensi ora della situazione del tuo paese, dopo che se ne sono andate in fumo le speranze di un referendum?

Penso che è una situazione molto difficile. Noi abbiamo fatto molto per il Piano di pace. Ma ora penso che non valeva la pena. Il Fronte Polisario scelse il cessate il fuoco nel '91, per dimostrare al mondo che i saharawi sono un popolo di pace e di giustizia, mentre il mondo non ha mostrato nessun interesse e non si è reso conto che la nostra guerra è giusta, perché non abbiamo altra alternativa alla lotta. Così come il popolo italiano ha lottato per la sua libertà, e tanti altri popoli, nella storia hanno lottato per la loro libertà.

La guerra non la guadagna nessuno, solo chi vive. Per questo abbiamo sempre cercato di evitare la guerra. Ma per me, la storia mi ha dimostrato che i poveri non hanno mai ragione. Il popolo saharawi vive da anni negli accampamenti. Io non credo che il referendum fosse o sia necessario. La presenza stessa del popolo saharawi in questo deserto, è una ragione sufficiente per dimostrare che questo popolo esiste, e che ha diritto alla sua indipendenza. Noi non vogliamo vivere sotto la bandiera di nessuno, vogliamo la nostra libertà.

Quando siamo venuti qui, 27 anni fa, non è stato per vivere degli aiuti umanitari, per farci portare l'acqua e il cibo. No, siamo venuti qui perché vogliamo vivere in pace, con la nostra bandiera sovrana. Per questo un referendum non è necessario: nessuno vorrebbe vivere in questo deserto, non ci si può vivere!

Credo che la comunità internazionale, le Nazioni Unite, si siano resi conto che la maggior parte dei saharawi che vanno a votare, stanno in questo deserto!

Il referendum non c'è stato perché il Marocco non lo vuole fare. Le Nazioni Unite non hanno la volontà politica di costringere il Marocco. Le NU sono il portavoce degli interessi americani e francesi! Ma l'obiettivo più importante adesso, è di stabilire la pace nel nord Africa. Questo è più importante di qualsiasi referendum!

La nostra unica forza è la pazienza! La guerra l'abbiamo evitata già più di una volta, non abbiamo risposto alle provocazioni. Ma la pazienza ha il suo limite! Se il referendum non è possibile, noi chiediamo che le NU si ritirino, e noi risolveremo il conflitto a modo nostro. Saremo obbligati a prendere di nuovo le armi. E' orribile uccidere, lo sappiamo. Lo sanno tutti quelli che la guerra l'hanno già fatta. Ma se è necessario uccidere per vivere… non potremo fare diversamente. Noi  non vogliamo fare una guerra interna al Marocco, contro civili, né alcuno di noi pensa a fare il terrorista, ma dobbiamo lottare. E noi siamo orgogliosi di sapere che sappiamo lottare.

e quale sarà il limite della vostra pazienza?

Noi abbiamo un proverbio che dice "Il cammello vive 33 anni, ed è molto paziente. Ma anche il cammello un giorno può perdere la pazienza".  Noi  siamo esseri umani, ma ti assicuro che io come saharawi, e qui credo di parlare a nome del mio popolo, preferisco vivere in questo deserto, preferisco vivere in una prigione, piuttosto che vivere sotto la bandiera marocchina!

Perché questo, perché pensate di non poter vivere insieme al popolo marocchino?

Noi non proviamo nessun odio verso il Marocco, verso la gente. Gran parte della mia famiglia vive in Marocco. Ma siamo due popoli diversi. Io non ce l'ho con il popolo, ce l'ho con la monarchia marocchina. Con il re e la sua mafia, i suoi servi, i suoi traffici…

Noi avevamo sperato in un cambiamento nella politica del Marocco quando è morto Hassan II e gli è succeduto il figlio. Pensavamo davvero che le cose potessero girare diversamente, ma questo non è avvenuto. La Francia e altri paesi sostengono la monarchia. E' incredibile quanto il Marocco spenda per mantenere il muro che lo divide dal Saharawi. Credo che sia l'ultimo muro rimasto al mondo per separare fisicamente due paesi, e costa milioni di dollari! (Purtroppo, proprio mentre questo libro è in redazione, un ennesimo muro viene costruito: quello tra Israele e Palestina. Simbolo della stoltezza umana. Nda)  Comunque i soldi ce li ha, pensa al traffico dell'hashish!  Non credo quindi che il Marocco cambi la sua politica nei confronti del nostro popolo. Sicuramente noi abbiamo fatto degli errori all'inizio della guerra, ma tutte le lotte fanno degli errori, tutte le rivoluzioni. Noi abbiamo saputo cambiare e modificare gli errori.

E cosa pensate dell'ospitalità dell'Algeria, che dura da tanti anni? non pensi che anche l'Algeria abbia i suoi interessi, che non si tratti solo di un'operazione umanitaria? Non vi sentite in qualche modo strumentalizzati?

Io non credo tanto negli interessi politici ed economici dell'Algeria nell'ospitare il popolo saharawi.

Quando nel '74 siamo scappati dalle nostre case, solo l'Algeria ci ha accolti. E' anche il paese che ha rifiutato la politica della Spagna, del Marocco e della Mauritania. Credo che l'Algeria  abbia davvero un motivo umanitario. Ha lottato per l'indipendenza del nostro popolo,  così come lo ha fatto per altri , ad esempio Timor est, che è ben lontano da qui. Certamente avrà i suoi interessi, ha diritto ad averne. Ma l'Algeria ha aiutato il popolo saharawi, lo ha aiutato economicamente. E non solo, ma l'Algeria non si è mai intromessa nei nostri problemi. Noi siamo un paese dentro un altro paese, e lo stato algerino non ha mai provato a infiltrarsi nelle nostre istituzioni e nella nostra democrazia. Non ci ha mai detto che cammino seguire. Noi siamo indipendenti, abbiamo le nostre elezioni, il nostro presidente, facciamo i nostri congressi, sul territorio algerino. Siamo riconosciuti così, e questo per me è più che sufficiente. Certo che l'Algeria avrebbe interesse ad avere come confinante un paese amico, il Sahara Occidentale, e ha aiutato moltissimo in tutti questi anni, per arrivare ad una soluzione pacifica del conflitto.

Hai parlato degli errori fatti in passato dal Polisario. Che cosa pensi che rifaresti, e che cosa no?

Si certo, errori ce ne sono stati, tutte le rivoluzioni hanno degli errori. Ma nessun altro paese, nessun gruppo politico ha montato uno stato nel nulla, come abbiamo fatto noi del Polisario. E quando dico Fronte Polisario, intendo dire Popolo Saharawi. Mettere su uno stato dal nulla, in mezzo al deserto, con tutte le sue strutture, le sue istituzioni. E sentiamo che questi 20-30 anni non sono passati invano, perché abbiamo puntato molto sulla formazione delle giovani generazioni, abbiamo un alto tasso di scolarità e di formazione, e questo è fondamentale per la costruzione di una democrazia. Il 70 % della popolazione saharawi è composto da giovani, e questi si sono formati in paesi diversi. Questo aiuta il nostro sviluppo, non solo in senso tecnico, ma culturale, sociale.

I giovani che vanno all'estero a studiare generalmente tornano qui, o molti si fermano in altri paesi?

Quasi tutti tornano, alcuni si fanno famiglia all'estero. Qui la vita è dura, lo vedi. E ora c'è molta delusione e sfiducia. Pensavamo che con le Nazioni Unite avremmo raggiunto un accordo, che si sarebbe fatto il referendum per l'indipendenza, ma tutto è crollato.  Comunque, quando c'è stato bisogno di essere uniti, nel periodo della guerra, moltissimi sono tornati qui a combattere, tra quelli che erano in altri paesi. E io credo che se ci sarà bisogno ancora, molti torneranno di nuovo.

In tutti questi anni, avete avuto tanta solidarietà, da organizzazioni umanitarie di tanti paesi europei. Mi dici la tua impressione su questo movimento di adesione culturale, politica, umana che il Polisario ha avuto?

Sai, abbiamo un bel proverbio che dice così: "Los hombres non pueden ser tan perefectos, como el sol. El sol quema con la misma luz con que brilla. El sol tiene manchas".

Gli uomini non possono essere perfetti, come non lo è il sole. Il sole brucia con la stessa luce con cui illumina. Il sole ha macchie. Chi lo gradisce parla della luce, chi non lo gradisce parla delle macchie.

Guarda quello che il nostro popolo ha passato con la Spagna. Noi siamo stati traditi dalla Spagna. Però oggi, tutto il popolo saharawi ringrazia il popolo spagnolo, perché la Spagna poi non ci ha abbandonato, non ci ha venduto. Il popolo spagnolo, con la sua solidarietà, recupera gli errori fatti dal governo spagnolo. Lo stesso per l'Italia. Noi ringraziamo il popolo italiano. Qui arrivano tanti voli charter di carovane di aiuti dall'Italia, continuamente. E noi abbiamo caro il popolo italiano, anche se sappiamo bene che l'Italia ha aiutato il Marocco, vendendo le mine che il Marocco ha messo sulla nostra terra, per impedirci di tornare a casa.

Tutti noi ringraziamo per gli aiuti umanitari, ma abbiamo ben presente che questi aiuti servono affinché possiamo un giorno fare ritorno alla nostra terra, non per abituarci a stare qui prendendo le cose gratis!

Se siamo riusciti a crescere nel processo di sviluppo e di democratizzazione, è perché in tutti questi anni siamo stati aiutati e sostenuti.

Brahim, ci sono altre cose che vuoi dirmi, che ti stanno a cuore?

Una cosa che voglio dirti io, una qualsiasi? Sì, ce l'ho: ritroviamoci a fare questa intervista il giorno dopo la nostra indipendenza!

Va bene, è una promessa! Grazie Brahim.  

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Hamdi Sidahmed Ahmed

Direttore della cooperazione, Ministerio de Equipamiento, Rabuni.

Hamdi mi ha aiutata a intervistare i due vecchi di Smara, e ora mi racconta la sua storia. Siamo seduti dentro una specie di igloo di mattoni, che è la stanzetta dei guardiani, davanti alla lunga fila di containers che circondano gli uffici del Ministerio de Equipamiento.  

             

                  [Foto: Hamdi da solo, e con il padre durante l'intervista]

Hamdi è un uomo dal fisico minuto, con bellissimi occhi neri, e uno sguardo penetrante. Quando cominciamo il colloquio, entrando si toglie il turbante che aveva mentre lavorava al sole, ma per tutto il tempo mi accorgo che suda in maniera intensa, gocciolante. Mi chiedo se non è anche la fatica del ricordare, e di buttare fuori cose che lo hanno fatto soffrire per tanti anni.

Hamdi, tu sei piuttosto giovane, quando la tua famiglia è venuta via dal Sahara occidentale, con la fuga seguita alla Marcia Verde, avevi solo due anni. Che cosa ti ricordi della tua infanzia qui nei campi?

Quando sono venuto qui sì, avevo 2 anni, quindi della fuga non ricordo nulla. I ricordi dell'infanzia che ho più lontani, cominciano con uno scorpione. Sì, in mezzo a questo deserto, uno scorpione! Presi un pizzico in un dito, e ricordo che mi portarono all'ospedale di Tinduf. Però ho un ricordo molto velato. Invece ho ricordi precisi del campo di Dajla, e della scuola elementare. Ho fatto la prima nel campo di Dajla, la seconda a El Ajun, poi dalla terza alla quinta andai in un internato in Algeria, a Bechar, dove dei parenti di mia madre vivevano già da tempo. Nel 1985, avevo 13 anni, e facevo il sesto anno. Fu a quel punto che mi trovai paracadutato a Cuba, come moltissimi dei miei coetanei, tutti insieme, e ci sono rimasto 13 anni, fino alla laurea in Diritto. Arrivammo a Cuba dopo un viaggio di 15 giorni, partendo da Orano su una nave sovietica. Quindici giorni di mare!

Sono tornato qui nel '98, per il processo di indentificazione per il referendum. Mi mancavano due mesi alla laurea. Dopo l'indentificazione, sono tornato a Cuba per la presentazione della tesi, e poi sono tornato qui definitivamente.

Per 13 anni sono rimasto a Cuba senza notizie della mia famiglia. Avevo avuto qualche fotografia, ma nessuna dei miei genitori, solo qualche parente in Algeria.

Dal 1986 all'89 è andata abbastanza bene, poi però è cominciato il periodo più difficile, dopo il crollo del muro di Berlino e la fine del socialismo. In ogni caso, ne ho un ricordo meraviglioso.

Quando io sono arrivato a Cuba, il 70/80 % della sua economia dipendeva dai paesi socialisti. Con la fine dell'epoca socialista è iniziato un periodo che io definisco infernale. Hanno cominciato a girare tanti dollari, e noi saharawi non ne avevamo. Non potevamo comprare nulla. Per questo, è stato un periodo molto duro. Dall'università ricevevamo 60 pesos al mese e ci voleva praticamente un intero stipendio per pochi dollari. E tieni presente che molte cose si potevano comprare solo in valuta, non in pesos. C'erano i negozi che erano solo per stranieri, in dollari, dove i cubani non potevano fare acquisti, ma noi non avevamo i soldi per nulla: il sapone migliore, un buon vestito, un profumo,… tutto si doveva comprare in dollari.  A volte qualcuno riusciva a comprare una saponetta in uno di questi negozi, e rivenderla più caro a chi non poteva entrare.

Io dividevo la casa con uno studente yemenita e due saharawi. Lo yemenita stava molto meglio di noi economicamente. Noi tre saharawi,  ci siamo trovati a condividere lo stesso sapone, perché avevamo solo quello. Mangiavamo insieme, riso bianco e poco altro. Era difficile convivere con studenti di altri paesi, e vedere che loro potevano permettersi molte cose che per noi erano un sogno impossibile! A volte io restavo fuori di casa tutto il giorno, proprio per non aver a che fare con quelli più ricchi di noi. D'altra parte, sapevamo l'impegno del Fronte Polisario, sapevamo com'era la situazione a casa nostra, che il Polisario non aveva niente di più da offrirci, e per questo abbiamo resistito, per tanti anni, fino a finire i nostri studi. Tra di noi, ci siamo aiutati in tutti i modi. A volte, non avevamo nemmeno abbastanza pantaloni per andare alle lezioni, così si aspettava che uno tornasse dall'università, per metterli a un altro. Abbiamo condiviso tutto. E abbiamo anche avuto tanti amici a Cuba; in un certo senso, anche una seconda famiglia. Siamo diventati in gran parte cubani. Nel mio caso per esempio, pensa: avevo tredici anni quando sono stato mandato a Cuba!  Tutto il periodo dei mie anni di crescita, tutta l'adolescenza e gli studi universitari, insomma gli anni che ti formano maggiormente, io li ho passati a Cuba, senza mai neppure parlare con la mia famiglia per telefono. Ma non abbiamo mai perso la nostra coscienza politica e il senso di appartenenza alla causa saharawi, e alla sua lotta.

Non hai mai pensato di fermarti a Cuba, di farti una famiglia lì?

No no no! Cuba non è un paese dove uno possa pensare di stabilirsi. Se io avessi studiato in Spagna per esempio, o in Italia o in un altro paese europeo, avrei potuto pensare a trovare un lavoro lì e prendere la residenza. A Cuba questo non era possibile. A quell'epoca, l’isola non era un paese libero. Non avrei potuto avere un passaporto cubano. Lavorare lì, avere un visto, era molto molto difficile. Fino al 1995, a Cuba non potevi neanche comprare una macchina se eri straniero. Se la compravi, era illegalmente, clandestinamente. Dal '95 sono cambiate molte cose. Adesso quello che conta sono i dollari, e se hai dollari, fai quello che vuoi.

Quindi durante tutti i 13 anni che hai vissuto a Cuba, hai pensato che saresti tornato a casa, prima o poi.

Ho sempre pensato che sarei tornato a casa, sì, dalla mia terra, dalla mia gente. Ho passato anni immaginando la mia famiglia,  come poteva essere il volto delle mie sorelle, che erano piccole quando le ho lasciate. L'ultima aveva pochi mesi. E tutti noi saharawi soffrivamo nel vedere che gli altri nostri compagni di studi, i cubani, avevano tutta la famiglia con loro, per esempio nel giorno della laurea. Noi eravamo sempre da soli. Non avevamo mai l'affetto della famiglia intorno. E' stato molto doloroso, molto amaro. Ma era necessario vivere tutto questo, per fare qualcosa di utile per il nostro popolo. Tredici anni certo, non credo sia facile per nessuno (No - commento - anche solo due, in quelle condizioni, sarebbero stati difficili ). Tantopiù se pensi che eravamo poco più che bambini. A tredici anni, stavo in collegio, e alla fine della scuola, il venerdì, tutti i cubani se ne andavano a casa per il fine settimana. Noi no, stavamo lì. Pensa che prima di lasciare il campo di Dajla, ero legatissimo a mia madre. Stavo male se stavo lontano da lei anche solo una settimana. Per questo, a Cuba mi sono fatto poi tanti amici, e tante famiglie mi hanno "adottato", così mi sono ritrovato ad avere tanti padri, tante madri. Ero davvero diventato cubano, parlavo come i cubani, vivevo come loro. Tutti gli altri studenti, dall'Etiopia, dallo Yemen o da altri paesi, tornavano a casa per dei periodi di vacanza. Noi no, sempre lì! Però, bueno. In ogni caso, non ho mai pensato di fermarmi a Cuba. E' un paese che va bene per una visita, per una vacanza. Non per trasferircisi.

Ma non era comunque più facile, e più bella, la vita a Cuba rispetto alla vita di qui, dove non c'è nulla?

Sai, dipende. Se io devo vivere in un posto anche bello, ma dove devo soffrire continuamente per la mancanza della mia famiglia, preferisco soffrire con i miei parenti! Con i miei fratelli, i miei amici, la mia gente. Io soffrivo a Cuba, dunque… preferisco soffrire qui! Sarebbe diverso se si trattasse di un altro paese, dove potessi portare la mia famiglia, pagare un biglietto per andare e tornare quando voglio rivedere la mia gente. A Cuba questo non era possibile. Era un inferno avere un visto, e il viaggio poi era costoso, non come andare in Spagna o in Italia. Era possibile per noi studenti, perché tutto è stato organizzato dal Fronte Polisario, e pagato e sostenuto dal governo cubano. Ma diversamente, no.

Quanti eravate quando tu sei stato messo sulla nave per Cuba?

Uh, eravamo moltissimi! Solo sulla mia nave eravamo 800. Ma non tutti si sono laureati poi. Alcuni hanno fatto studi tecnici, altri sono entrati all'accademia militare.

Qui ai campi, la gente, il paese, aveva bisogno di tecnici e di quadri. Quindi non si poteva aspettare dieci anni che noi facessimo i nostri studi e tornassimo laureati. Molti sono tornati dopo le scuole superiori e professionali, e hanno dovuto poi adattarsi a fare di tutto.

Per esempio un mio caro amico che studiava da dentista, è stato obbligato a tornare prima di finire i suoi studi, e qui si è ritrovato a fare il medico in tante specialità diverse, ed è diventato bravissimo, perché devi arrangiarti a saper fare di tutto. E' uno dei migliori medici di tutte le wilaya.

Ad ogni modo, tutti noi che siamo passati per Cuba, ne conserviamo un ricordo indelebile, profondo. E tutti vorremmo tornarci qualche volta. I cubani sono gente calda, dolce, allegra, amabile. Sono contenti con poco.

 Hamdi, il tuo ritorno qui è stato molto traumatico. Me lo racconti?

Sì, dunque: come ti ho detto, mi mancavano due mesi alla discussione della tesi, quando sono stato chiamato qui per il processo di identificazione dei votanti saharawi al referendum per l'indipendenza. Era il 1998. Dopo l'identificazione tornai solo per la tesi.

La partenza da Cuba mi provocò un conflitto di sentimenti pazzesco. A me come a tutti i miei compagni. Da un lato c'era una felicità enorme, incontenibile, per l'idea di ritornare a casa dopo tanti anni, poter rivedere la propria famiglia, rivedere e riabbracciare la propria gente. Al tempo stesso, c'era un dolore enorme, perché lasciavamo un'altra famiglia, degli amici di tanti anni, molti di noi lasciavano la fidanzata. Io dissi alla mia ragazza che certamente non avrei potuto ritornare, e di farsi un'altra vita a Cuba. Chiunque altro, un italiano, un tedesco che avesse avuto amici cari a Cuba, poteva pensare di tornare una o più volte. Noi no, sapevamo che questa possibilità non l'avremmo avuta. Io avrei potuto uscire dalla terra saharawi solo con un mandato ufficiale, per una missione o qualcosa da fare di preciso in un certo posto. Così, la nostra sofferenza alla partenza è stata totale, perché sapevamo che quella era una separazione per sempre. Non avevamo speranza di tornare. Da qui per esempio, non sono neanche riuscito  più a telefonare ai miei amici a Cuba, a parte il fatto che la chiamata sarebbe molto costosa.

Mi sento bene qui, sono qui ormai da tre anni, ma ancora non mi sono abituato alla vita di qui. Neppure al cibo, e da quando sono qui ho sempre mal di pancia. Questo non vuol dire che preferissi stare a Cuba, no. Mi piacerebbe andarci una volta per un periodo, rivedere tutte le persone care. Ma preferisco mille volte essere qui, vicino alle mie sorelle.

(Hamdi parla con fatica, suda molto, si asciuga spesso col telo del turbante che ha in mano. Mi sembra trattenere un groppo in gola).

Chiunque preferirebbe una vita migliore di questa, è chiaro. C'è chi è riuscito ad andare in Europa, e anche stando in un altro paese ci sono moltissimi modi per lottare per la causa saharawi. Ma io sono contento di essere qui, di fare il mio lavoro qui, al ministerio de equipamiento. Mi piacerebbe fare viaggi all'estero, certo, e mi piacerebbe poter studiare ancora. Mi piace godermi la vita. Molti pensano di poter andare via, e di non tornare più. Io no, anche se vado via, penso sempre di fare ritorno. La mia famiglia, le mie sorelle, sono ciò che ho di più caro al mondo. Se sto in questo inferno, è per loro. Ho sofferto troppo per essere stato strappato alla mia famiglia quando ero un bambino, per non aver avuto l'affetto, le carezze della mia famiglia. Ho sofferto tantissimo per non aver visto crescere la mia sorella più piccola. L'ho lasciata che aveva pochi mesi, e l'ho ritrovata già ragazza. Per me resta sempre una piccolina.

Com'è stato quando hai ritrovato la tua famiglia, dopo tanti anni?

La mia famiglia non sapeva niente del mio ritorno. Si sapeva in generale che tornavamo per il referendum, ma non sapevano esattamente chi di noi tornava, e quando, con quale aereo. Mia madre non sapeva neppure esattamente se io ero vivo o morto. Aveva solo delle speranze, ma nessuna certezza.

Io ed un gruppo di compagni, arrivati ad Algeri, fummo messi su un pullman per venire qua. Duemila km. di deserto: da Algeri a Tindouf, tre giorni di viaggio, tremendi! E poi da Tindouf al campo sopra un camion, sul rimorchio.  Arrivai al campo nel buio della notte, alle 3 di mattina, e non sapevo dove cercare la mia famiglia, neppure esattamente sapevo chi trovavo ancora vivo e chi no. Anch'io, avevo solo speranze.

Alle tre della mattina, non si vedeva niente. Non c'era neppure la luna, solo qua e la, tra le tende, qualche lucetta accesa. Trovai qualche donna per chiedere dove andare, e mi diedero le indicazioni. Ero morto dalla stanchezza, e non ero abituato a camminare sulla sabbia, con in miei bagagli addosso. Quando trovai la casa della mia famiglia, chiamai, e una voce rispose chiedendomi chi fossi. Risposi il mio nome, ma ci volle un po' perché potesse capire chi ero. Era una cosa troppo incredibile. Era una zia che mi aveva risposto, e andò subito a chiamare tutta la famiglia dentro la haima, e vennero fuori nel buio, e sentivo già i pianti ancor prima di vedere le facce. Ci abbracciammo, e anch'io piangevo. Le mie sorelle vennero fuori e cominciarono a toccarmi, e poi saltavano fuori altri parenti, in piena notte, che non conoscevo e non mi aspettavo neppure. Mia madre piangeva, piangeva. Non ci credeva. Non poteva convincersi che ero proprio io, che ero vero, ed ero tornato. Tutti questi parenti mi venivano a salutare, mi dicevano "sono il tale, e il tale,…" e io subito mi resi conto che mia nonna non c'era più. Era morta molto tempo prima, e nessuno mi aveva detto niente. Io l'amavo moltissimo. Mi dissero  di non avermi detto niente perché pensavano che sapendolo a Cuba mi avrebbero fatto soffrire di più.

La gente continuò per ore a venirmi a salutare e a rendere omaggio. Io continuavo a piangere per mia nonna. Poi andai a cercarla al cimitero, con mia sorella che mi teneva per mano.

…Ecco, in sintesi, questa è stata la mia vita.

Da allora, da quando sono tornato, ho lavorato al ministero dei trasporti, poi il ministro de Equipamiento, vedendo il mio lavoro, mi ha proposto di venire qui, come direttore della cooperazione. E' stata una bella soddisfazione. Vuol dire che qualcuno ti apprezza, apprezza quello che fai, come lavori. Mi ha dato fiducia e responsabilità. Sono contento, è un lavoro stimolante.

Come vedi la situazione politica adesso, e il futuro del tuo paese?

Eh, è una situazione difficile, molto difficile. Ormai, anche se la speranza è sempre l'ultima a morire, non nutro però più alcuna speranza che il Marocco possa convincersi che il Sahara è dei saharawi. Non si convincerà mai, se non con una guerra! Hanno avuto tutte le possibilità immaginabili per una soluzione pacifica del conflitto, per anni, ma non c'è stato niente da fare. Io non vorrei dover tornare alla guerra, ma credo che ormai non ci sia rimasta altra soluzione. Tutti vorrebbero la pace e godersi la vita. Ma con il Marocco, credo che non ci siano alternative. E' dal 1976 che aspettiamo una soluzione pacifica!  (mentre parliamo, arriva il padre di Hamdi, che lavora anch'egli nello stesso ministero de Equipamiento; mi fa piacere conoscerlo, dopo il racconto di Hamdi, sulla loro lunga separazione). Mio padre ha lavorato per anni in questo ministero. Sempre noi pensiamo di lottare e di lavorare per il nostro paese, perché speriamo di essere anche noi un giorno un paese come il vostro: dove la gente sta bene a casa propria; un paese che può aiutare gli altri, quelli più poveri, anziché uno che deve chiedere e ricevere gli aiuti.

Non ti sei sposato da quando sei tornato? non hai bambini?

No, non mi sono sposato e per il momento non ci penso. In questa situazione, noi viviamo come sospesi. Aspetto ancora una soluzione alla situazione del nostro paese, perché sinceramente, non è davvero bella l'idea di crearsi una famiglia e fare dei figli per farli vivere profughi, in un deserto come questo. Io vorrei qualcosa di meglio per la mia futura famiglia, che non stare a soffrire qui, non avendo nulla da offrirle, per avere una vita bella da vivere. Dunque, aspetto ancora uno o due anni, per vedere cosa succede, e poi prenderò una decisione, e se non ci saranno alternative, farò quello che fanno tutti: mi sposerò qui, tra questa sabbia. Ad ogni modo, non sono uno che si conforma alla maggioranza, e non mi interessa fare tanti figli, come molti fanno tra i saharawi. Dunque, ho ancora tutta la vita davanti!

Grazie Hamdi. E' stato bello ascoltare la tua storia.

*****

Poesie della diaspora[2]

La generazione di cui fanno parte Luali e Saleh (come abbiamo visto per Brahim e Hamdi), attualmente trentenni, è caratterizzata da una storia comune: una prima infanzia nel Sahara Occidentale, allora colonia spagnola, bruscamente interrotta dall'invasione marocchina e dalla fuga della popolazione civile attraverso il deserto fino in Algeria.

A seguito di accordi tra il Fronte Polisario, rappresentanza politica e militare della popolazione Sahrawi esiliata, ed il governo cubano, centinaia di bambini Sahrawi vengono accolti a Cuba per gli studi secondari (scuole medie inferiori e superiori) ed universitari, al termine dei quali ritornano, oramai uomini e donne, nelle tendopoli algerine. 

Luali e Saleh erano tra questi bambini. Si spiega così il perché della lingua spagnola utilizzata  per scrivere; ma non solo. Senza una chiave di lettura storica può risultare difficile comprendere il reale significato delle poesie che, per quanto diversamente sviluppate da due sensibilità distinte, hanno alcune tematiche comuni: la ricerca di un identità culturale; la difficoltà di convivenza con il deserto; la ricerca di un dialogo con chi vive fuori dai campi profughi; la guerra; la pace; l'attesa; l'esilio.

Il deserto, la sabbia, la polvere, il vento, il calore insopportabile fanno da cornice alla ricerca di un’ identità che difficilmente si incontra, in bilico tra la "leggerezza del vivere" cubana e le rigide leggi mussulmane che, per quanto stemperate dagli anni di esilio, dalla tolleranza ed accoglienza tipiche delle culture nomadi, e dai continui contatti con le culture occidentali, vengono difese come stendardo di un popolo a rischio di estinzione.

La frustrazione dell'attesa è un altro tema ricorrente: l'assenza di orizzonti - non si torna alla guerra, non si fa il referendum -  Il tempo passa e si dimentica anche il perché dell'attendere, non ha più senso programmare, progettare. Gli studi fatti perdono di significato se la cornice in cui viverli e concretarli è perennemente temporanea. Così poco a poco i giovani intellettuali stanno decidendo di andare a vivere altrove (Spagna, Mauritania, Italia), e quelli che rimangono sempre più soli ed isolati, in bilico tra i ricordi, l'utopia ed un futuro incerto, si preparano a fuggire.

 

Poesie di Luali Lehsan Salama

INFINITIVOS INFINITOS
 
Mientras tanto
Esperar una carta
De remitente anónimo
Y con mensajes
De cariño entre líneas.
 
Mientras tanto
Seguir sopportando las puertas
Del deserto que dividen nuestros
Corazones.
 
Mientras tanto
Darle la bienvenida al alcalde
De un mundo sordo e insensibile
En el traspatio del vecino.
 
Mientras tanto
Apurar las próximas bocanadas
 
De esperanza para engañar
La frustración.
 
Mientras tanto
Aprendernos bien nuestros errores
Y los errores de los otros para
Remediarlos mañana
Mientras tanto
Darle al destino la batuta y el timón
De nuestro carruaje para tener a quien
Echarle la culpa
 
Mientras tanto
Enterrar nuestro ultimo muerto
-quizás y ojalà- en esta tumba
provisional pero definitiva.
 
Mientras tanto
Aguantar cada vez con menos
En nuestra lucha por esa libertad
Global para luego sentirnos cómodos
En las batallas del ego
Mientras tanto
Amar el tabú de la utopía
Del amor, mientras tanto.
 
 
INFINITIVI INFINITI
 
Nel frattempo
Aspettare una lettera
con mittente anonimo
e messaggi
d'amore tra le righe
 
Nel frattempo
continuare sopportando le porte
del deserto che separano
i nostri cuori.
 
Nel frattempo
dare il benvenuto al sindaco
di un mondo sordo e insensibile
nel patio del vicino.
 
Nel frattempo 
esaurire le prossime folate
di speranza per eludere
la frustrazione.
 
Nel frattempo
comprendere bene i nostri errori
e gli errori degli altri per
rimediarli domani.
 
Nel frattempo
dare al destino la frusta e le briglie
del nostro carro per avere a chi
imputare la colpa.
 
Nel frattempo
sotterrare il nostro ultimo morto
- forse e magari - in questa tomba
provvisoria ma definitiva.
 
Nel frattempo
resistere sempre con meno
nella lotta per questa libertà
globale per poi sentirsi bene
nelle battaglie dell'ego.
Nel frattempo
amare il tabù dell'utopia
dell'amore, nel frattempo  
 
A CIUDADELA
 
Un hormiguero en un oasis durmiendo
Su raquítico sueno bajo la vigilia de un
Metafísico camello oxidado.
Un residuo de civilización ilusionando
La modernidad, perdido entre las tormentas
Ineludibles del desierto y el aullido de perros
Huérfanos  
Un arco iris de luces tenues y de sombras
Oliendo a asfalto y estiércol.
Un mercado de carneros condenados al
Matadero y de hombres encadenados con
Su ambición.
Un viento persistente avivando nuestras
Codicias de occidente
 
Pero también,
Un velo ocultando nuestro deseo excitado,
Un turbante mostrando el color de nuestras
almas.
Un  almuédano invitándonos a estar con Dios
En la tenebrosa hora de almagreb.
 
Una ulcera en el ombligo de la Hamada
El punto medio, que sin ser presente,
Divide el pasado y el futuro.  
 
LA CITTADELLA
 
Un formichiere in un oasi dormendo
Il suo rachitico sonno sotto l'egida di
Un metafisico cammello ossidato.
Un residuo di civilizzazione illudendo
La modernità, perso tra le tormente
Inevitabili del deserto e tra il latrato di cani
Orfani.
 
Un arcobaleno di luci tenui e di ombre
Odoroso di asfalto e sterco.
Un mercato di agnelli condannati al
Macello e di uomini incatenati alla propria
Ambizione.
Un vento persistente ravvivando la nostra
Brama di occidente.
 
Ma anche,
un velo occultando il nostro desiderio eccitato,
un turbante mostrando il colore della nostra
anima.
Un muezzin invitandoci a stare con Dio
Nella tenebrosa ora del tramonto.
 
Una piaga nell’ombelico dell’Hammada.
Il punto di mezzo, che senza essere presente,
Divide il passato dal futuro.  
 
HERMANA
 
Porque el amor no muere,
Solo se renueva en otra mirada
Si me volviera ciego quisiera
Perder mi vista en tu mirada.
 
Porque el amor no muere,
Solo vibra de ardor en otra memoria,
Si me volviera sordo quisiera
Percibir como ultimo sonido tu aliento.
 
Porque el amor no muere,
Simplemente se prolonga
Como un acorde de voz,
Si me volviera mudo quisiera
Perder mi voz gritando tu nombre.
 
Porque el amor es exclusivamente
La vida toda hecha jirones de seda y trapo,
Si me volviera libre quisiera
Sentir el viento fecundo que baña tu cuerpo.
 
Porque el amor no muere
Solo funde nuestras almas en un abrazo
Que se modifica pero no cambia,
Si me adueñara de mi destino quisiera
Contemplar el insondable
Abismo de la muerte con tus labios
En mi frente, con una rosa de tu jardín
Sobre mi tumba y en mi lapida
El verso de dolor que le escribí a mi madre.
 
SORELLA
 
Perché l'amore non muore,
Solo si rinnova in un altro sguardo,
Se diventassi cieco vorrei
Perdere la vista nel tuo sguardo.
 
Perché l'amore non muore,
Solo vibra di ardore in altro ricordo,
Se diventassi sordo vorrei
Percepire come ultimo suono il tuo respiro.
 
Perché l'amore non muore,
Semplicemente si prolunga
Come un accordo vocale,
Se diventassi muto vorrei
Perdere la voce gridando il tuo nome.
 
Perché l'amore è esclusivamente
la vita intera fatta stracci di seta e tela,
se diventassi libero vorrei
sentire il vento fecondo che bagna il tuo corpo.
 
Perché l'amore non muore,
solo fonde le nostre anime in un abbraccio
che si modifica senza cambiare,
se mi riappropriassi del mio destino vorrei,
contemplare l'insondabile
abisso della morte con le tue labbra
di fronte a me, con una rosa del tuo giardino
sulla mia tomba e sulla lapide
il verso di dolore che scrissi a mia madre.
 
LA AMISTAD
( a Ali)
 
En eso estamos, amigo
Torciendo la rugosa cuerda
De la vida.
De un lado
Nuestros vicios y problemas
Hablan juntos y separados a la vez.
Del otro extremo
Hablamos tu y yo con dos manos
Pero con cuatro a la vez.
 
En esto estamos , amigo
Sufriendo la desequilibrada
Cuerda floja de la vida.
En una balanza
El deber de un rostro oficial,
Inexpresivo.
En la otra
Nuestros corazones iguales
Pero bien distintos.
 
En esto estamos nosotros, amigo
Aguantando los enigmáticos nudos
De la cuerda de la vida que nos atan.
Nosotros aquí maniatados con la
Misma soga pero por sus extremos.
Y al otro lado deambulando por
Alguna calle sin nombre nuestra
Suerte espera que la vayamos a buscar.
 
En esto estamos nosotros, amigo
Diciéndonos en el oído,
Abrazados, amigo.
Esperando que algún día la cuerda
De la vida se parta por el lado mas fuerte.
 
L’AMICIZIA
(ad Ali)
 
Siamo a questo, amico,
torcendo la rugosa corda della vita.
Da un lato
I nostri vizi e problemi
Parlano insieme e separati in una volta.
Dall’altro lato
Parliamo tu ed io con due mani
Ma con quattro in una volta.
 
Siamo a questo, amico
Soffrendo la squilibrata
Corda della vita.
In una bilancia
Il dovere dal volto ufficiale,
inespressivo.
Nell'altra
I nostro cuori uguali
Ma ben distinti.  
Noi siamo a questo, amico
Resistendo agli enigmatici nodi
Della corda della vita che ci imbrigliano.
Noi qui ammanettati con la
Stessa fune però agli estremi.
E all'altro capo camminando per
Qualche strada senza nome il nostro
Destino aspetta che lo andiamo a cercare.
Noi siamo a questo, amico
Parlandoci nelle orecchie,
abbracciati, amico.
Aspettando che un giorno la corda
Della vita si rompa nella parte più
Forte.
 

 

Poesie di Saleh Abdallahi Hammadi

Un Instante
 
Bajo el cielo infinito de esta noche
Alzo mis manos a la luz.
A esta luz, que vigila por mí
La arena de mis huellas.
Y por un instante, dejaré mi condición
Navegaré en un fugaz olvido.
Ya puro, viril, auténtico y con luz propia
Como yo quiero.
Me desnudaré de mis huellas, de mi exilio
Y me dispongo a volar.
No para vivir en el mundo de las estrellas,
Que viaja en duradas cometas
Ni seguir la corriente de la ciencia.
Volaré desesperadamente a tu encuentro
Que desesperadamente esperas,
A acariciar con mis alas tu vientre.
 
Un istante
Sotto il cielo infinito di questa notte
Alzo le mie mani alla luce
A questa luce, che vigila per me
La sabbia delle mie orme.
E per un istante, lascerò la mia condizione
Navigherò in un fugace scordarsi.
Finalmente puro, virile, autentico e con una mia luminosità
Come io voglio.
Mi spoglierò delle mie orme, del mio esilio
E mi preparo a volare.
Non per vivere nel mondo delle stelle,
Che viaggia in durevoli  comete
Ne per seguire la corrente della scienza.
Volerò disperatamente a incontrarti
Che disperatamente aspetti,
a  carezzare con le mie ali il tuo ventre.
 
La vela
Quiero arrancar de la oscuridad
la vela que me acompaña en mis noches
De soledad.
Y distinguir, entre las inquietas sombras
Que tremolan a mí alrededor.
La sombra que espera pacientemente la señal
Que emana del  alma sobre el papel.
Y con la tinta que va cubriendo
La desnudez de la hoja y mi vela
Alumbraré la mediocridad del camino
Que nos empuja sin saber a donde.
Así llenaré mi boca de luz.
Hablaré a los indeseables insectos
Que estorban mi sombra.
Mi única sombra, que teje a mano
La dorada vestimenta, que corona
La vida de una hoja blanca.
 
La veglia
 
Voglio strappare dall'oscurità
La veglia che accompagna le mie notti
Di solitudine.
E distinguere, tra le ombre inquiete
Che tremano attorno a me
L'ombra che aspetta pazientemente il segnale
Che emana dall'anima sul foglio.
E con l'inchiostro che va coprendo
La nudità della carta e la mia veglia
Illuminerò la mediocrità del cammino
Che ci spinge senza sapere dove.
Così riempirò la mia bocca di luce.
Parlerò agli insetti indesiderabili
Che cambiano forma alla mia ombra.
La mia unica ombra, che tesse a mano
il vestito dorato, che corona
la vita di un foglio bianco.
 
Ven
Ven con tu condición de humano
Para sentirte más humano.
a sentir la ausencia de la cuna,
En la distancia del olvido.
a sentir la erosión del tiempo
que oxidó nuestros huesos,
Sin nombre.
 
Ven a vivir mi paciencia incierta
que descansa sobre las secuelas
De la guerra.
a esquivar la guadaña que arrastra
Mi suerte.
a secar las calladas lágrimas que
Ahogan, nuestras almas.
 
Ven a salvar la inocencia que se pierde
Entre el polvo y la pólvora.
y esperar en mis horas de exilio,
la última vuelta de mis plegarias
 
Ven, y cuando hallas vuelto no dejes
de ser el eco de mi humana voz
Que reclama con boca seca la LIBERTAD.
 
Vieni
Vieni con la tua condizione di umano
Per sentirti più umano
A percepire l'assenza della culla
Nella distanza dell'oblio
A sentire l'erosione del tempo
Che ossidò le nostre ossa
Senza nome.
 
Vieni a vivere la mia pazienza incerta
Che riposa sulle
Conseguenze della guerra,
a schivare la falce che travolge
il mio destino
ad asciugare le lacrime silenziose che
soffocano le nostre anime.
 
Vieni a salvare l'innocenza che si perde
tra la sabbia e la polvere da sparo
a attendere nelle mie ore di esilio
l'ultimo giro delle mie peregrinazioni.
 
Vieni, e quando sarai tornato non smettere
Di essere l'eco della mia voce umana
Che reclama con bocca asciutta la LIBERTA'.
 
 
Madre                                       
Madre sé que sufres
sé que el dolor te hace llorar
y que tus lágrimas son de cera y calor
 
Madre sé que te han cegado los ojos
y te han ahogado la voz
para no cantar al mundo tu libertad
 
Madre sé que de tus brazos
te han arrancado los hijos
que tus senos deseaban
con amor alimentar
y más que tus senos
tu historia y cultura enseñar
 
Madre sé que tu llanto
tu llanto mudo aún  está
hizo todo el mundo a escuchar
 
Madre  sabré también que vas a cantar
a cantar con una voz que llegará al más allá
y cuando amanece, tus brazos se abrirán
para tus hijos que están aquí y allá
 
Madre sabré que tu alborada va alumbrar
los puntos cardinales y más allá
de la frontera y de la mar
 
Y tus lágrimas Madre?
¡Oh! tus lágrimas asta vez serán de jubilo y felicidad
y cuando todo sucede
cuando la corona solo reina en su lugar
tu, tu Madre Patria seguro, seguro que vas a olvidar
Porque tu corazón es todo AMOR Y PAN.
 
Madre
Madre so che soffri
so che il dolore ti fa piangere
e che le tue lacrime sono di cera e calore
 
Madre so che ti hanno chiuso gli occhi
che ti hanno tappato la bocca
per non farti cantare al mondo la tua libertà
Madre so che dalla tue braccia
ti hanno strappato i figli
so che i tuoi seni desideravano
con amore alimentare
e ancor più che i tuoi seni
la tua storia e cultura insegnare.
 
Madre so che il tuo pianto
il tuo pianto muto ancora rimane
fece tutto il mondo per ascoltare.
 
Madre saprò anche che canterai
canterai con una voce che arriverà più lontano
e all'alba, le tue braccia si apriranno
per i tuoi figli che stanno qui e la.
 
Madre saprò che la tua alba illuminerà
i punti cardinali e più in là
della frontiera e del mare.
 
E le tue lacrime Madre?
O! le tue lacrime questa volta saranno di giubilo e felicità
e quando tutto succede
quando la corona regna al suo posto
tu, tu Madre Patria sicuro, sicuro che dimenticherai
Perché il tuo cuore è tutto AMORE E PANE.

 

PARTE  3. RACCONTI DI DONNE, LOTTA, SOPRAVVIVENZA

EMBARKA BRAHIM Storia di una militante  

Embarka è un mito tra i saharawi. La conoscono praticamente tutti. E' una pietra miliare nella storia del movimento di liberazione, testata d'angolo nella costruzione della vita del popolo in esilio, quando gli uomini erano al fronte, e tutta la sopravvivenza è passata nelle mani e sulle spalle delle donne. La sua tenacia e capacità organizzative sono state fondamentali. Rimane tutt'oggi uno dei maggiori rappresentanti del movimento femminile, ma si rilassa anche a fare la nonna, pur senza tralasciare gli impegni politici. 

Mi racconta la sua storia con la consapevolezza profonda della necessità di far conoscere al mondo la fatica del suo popolo. Non mancano, durante il racconto, i momenti di commozione, ma proprio per questo, mi chiede di sorvolare su quei ricordi lontani, più dolorosi, che ora cerca di superare. 

Siamo sedute nella sua grande tenda, fatta di un bel tessuto bianco e azzurro. I bambini (figli e nipoti) vanno e vengono, con fare da scugnizzi pepati e birichini!  Si divertono ad ascoltare i racconti della nonna, con questa amica col registratore… Traduce per me la figlia Nasra, questa volta almeno direttamente in italiano. Poi capirete il perché.   

[Nella foto, Embarka prende l'acqua pulita dalla cisterna]

Eravamo una famiglia semplice, normale, numerosa. Mio padre lavorava per l'esercito spagnolo. Si è sposato due volte, così ho avuto due madri e molti fratelli e sorelle!  Sono nata a El Ajun, come mio padre, nel 1955, e sono andata a scuola fino alla 3° media. Mi sono sposata a 13 anni, con un matrimonio combinato, come si faceva allora. Mio marito aveva 34 anni. Aveva già due mogli, e dopo di me ne ha avuta una quarta!  

Ma tu eri contenta, ti piaceva? (ride!)

Non sono mai stata contraria a questo matrimonio. Sì, ero contenta.

Cosa ti ricordi della vita all'epoca degli spagnoli?

Ho cominciato presto ad entrare nel movimento di liberazione, subito dopo sposata, alla fine degli anni '60, quindi ero molto giovane. Il movimento era nato proprio contro la dominazione spagnola, e mio marito ne faceva già parte. Nel '70 erano cominciate le manifestazioni di protesta, per far sì che gli spagnoli se ne andassero, ed essere indipendenti. Gli spagnoli hanno risposto con le armi, ci sono stati molti morti. Il leader del movimento sparì, non si seppe mai più nulla di lui, se lo avessero ucciso o altro. Molti furono fatti prigionieri, tra cui  mio marito. Prima fu messo ad El Ajun, poi a Dajla. Qui, la prigione era in mezzo al mare, nell'Atlantico. Rimase prigioniero per più di un anno, poi fu mandato in esilio, condannato a non fare mai più ritorno in Sahara spagnolo. Andò in Mauritania, e io rimasi a casa, in un primo tempo. Avevamo già due figli. Ad un certo punto, decisi di partire anch'io e di raggiungerlo. Dal 10 maggio del 1973 tenemmo in casa nostra il congresso di fondazione del Fronte Polisario, in Mauritania. Lì è cominciato il programma di liberazione e di lotta, contro gli spagnoli e contro il Marocco. Lì, in casa nostra, furono definiti i compiti e i ruoli di ciascuno: politici, militari e sociali. Il gruppo politico tornò poi nei territori occupati per fare attività di propaganda e sensibilizzazione tra la gente. Anch'io mi occupavo di questo, ed ero l'unica donna presente. Mi occupavo quindi anche di preparare i pasti per tutti!

Come mai eri l'unica donna, non erano attività cui le donne partecipassero normalmente?

All'inizio fu più una cosa degli uomini. Io vi partecipai innanzitutto perché gli incontri si svolgevano in casa nostra. Bisogna dire però anche che eravamo in esilio, e di donne all'epoca ve ne erano poche tra di noi. Io ero andata in Mauritania per seguire mio marito, e per un certo periodo sono stata la sola donna. Tutto il movimento è stato assolutamente segreto e clandestino. Nessuno sapeva nulla tra i mauritani.

Quanti erano all'incirca i partecipanti di questo primo incontro?

Non ricordo bene, ma circa una quarantina di persone. Alcuni erano stati prigionieri, come mio marito, altri avevano lasciato il paese per loro scelta.

Fu un periodo molto difficile, che ricordo con molta fatica. Avevamo difficoltà di ogni tipo, non avevamo una casa stabile, e tante persone vivevano insieme, non avevamo soldi, c'era poco da mangiare. In Mauritania eravamo tenuti sotto controllo, nessuno poteva aiutarci, se anche voleva. Proprio in quel periodo… mi accorsi di essere incinta del mio terzo figlio! (che poi sarebbe stata Nasra, che ora mi fa da interprete). Ero ancora molto giovane, ero in un paese straniero, ed ero sola! Senza parenti per aiutarmi… ancora incinta!  Quando ho partorito, non c'erano altre donne con me, e non avevo diritto ad andare in ospedale in Mauritania. Mio marito andò a cercare delle ostetriche tradizionali.

Nonostante tutte le difficoltà, la causa che sentivamo, i motivi della nostra lotta, ci facevano superare tutto. Il Fronte Polisario, sia militarmente sia politicamente, prendeva sempre più forza. Le manifestazioni antispagnole, nei primi anni '70, sono diventate sempre più pressanti. Fino all'arrivo dell'ONU. Lì la forza saharawi, il loro spirito di identità nazionale, si sono fatti sentire per la prima volta con determinazione, e il programma del Fronte Polisario è venuto definitivamente allo scoperto. I paesi confinanti, Marocco e Mauritania, a quel punto - preoccupati dalla forza che il Sahara occidentale avrebbe potuto acquisire diventando dei saharawi -  hanno cominciato a farli prigionieri. Io, dalla Mauritania, sono stata costretta a tornare ad El Ajun. E' cominciato così il mio ruolo attivo dentro il Fronte, nel far passare informazioni tra i due confini. Questo è andato avanti fino al momento degli accordi di Madrid, il 14.11.1975. Da quel momento, dopo l'accordo segreto tra Spagna, Mauritania e Marocco, è cominciata la guerra.

Non si può descrivere ciò che abbiamo provato in quei momenti. Abbiamo solo deciso di scappare, perché abbiamo capito che se fossimo rimasti, sarebbe stata la fine.

Dov'era tuo marito?

Era a combattere.

Quindi ti sei ritrovata sola, con chi eri?

Ero con la famiglia di mio marito, e con i miei figli.

E come è avvenuta la fuga? Avevate dei mezzi o siete andati a piedi?

Quando sono scappata, ho preso solo Nasra con me, che era la più piccola. Gli altri bambini sono rimasti con i nonni. Non si pensava di andare via per un periodo lungo.

Ma non si può immaginare quei giorni di fuga! Chi è andato a piedi, chi sui cammelli, chi ha trovato un passaggio su auto o camion... Io ho trovato un posto in una macchina, e siamo andati via in gran segreto perché i marocchini erano già entrati in El Ajun. Siamo andati verso oriente, abbiamo organizzato dei campi, con piccole tende, prima di capire dove andare, e in quel periodo siamo stati bombardati dal Marocco. Sono morti molti civili.

Poi l'Algeria ci ha dato la terra dove adesso è la sede della RASD in esilio, e siamo venuti qui, dove siamo stati al sicuro. Prima siamo arrivati a Rabuni, in una situazione durissima. Non avevamo nulla, assolutamente nulla. Poche tende, nessun cibo, niente medicine. Eravamo soli, in mezzo alla sabbia. Ci sono state molte malattie, e sono morti molti bambini. Non avevamo medici, e neppure insegnanti per stare con i bambini.

Abbiamo avuto tanta volontà e tanto coraggio, per arrivare a organizzare i campi come li vedi oggi. Il lavoro delle donne è stato importantissimo. Eravamo quasi solo donne qui, con gli anziani e i bambini, mentre i nostri uomini erano a combattere. E tieni conto che per la maggior parte eravamo tutte donne analfabete, senza nessuna formazione culturale.

Non c'erano infermiere o educatrici, nulla. Avevamo solo la nostra volontà. Ci sentivamo investite dalla lotta per la nostra causa. Così, ho chiuso gli occhi, e ho lottato. Abbiamo fatto tutto: costruito degli uffici per lavorare, e poi classi per raccogliere i bambini a studiare, e chi tra noi aveva un livello di formazione appena superiore alle altre, era coinvolta per lavorare con i bambini e insegnare. Per la generazione di bambini nati tra il '75 e il '76 è stato molto duro. Moltissimi ne sono morti, perché non avevamo come curarli, non c'erano vaccinazioni. Molti morirono di morbillo, e l'alimentazione era molto limitata, povera.

E' impossibile raccontare la situazione di allora, e quando ne parliamo a volte non veniamo credute, sembra che esageriamo. Io cerco di dimenticare ciò che abbiamo passato. Non voglio più raccontare nei particolari. Ma proprio se penso a ciò che abbiamo vissuto per tanto tempo, trovo ancora più forza per andare avanti nella lotta. 

Provo grande soddisfazione, e orgoglio anche, quando penso a tutto il lavoro fatto, a come siamo riuscite ad organizzare questi campi, con le scuole per i bambini, e tutto il necessario alla vita sociale. Le donne hanno potuto emanciparsi, avanzare il loro livello di formazione. Sono diventate una vera forza politica. Il movimento delle donne è nato nel '76, per necessità, ma poi è diventato una forza di emancipazione delle donne, e in generale di sviluppo sociale. Di conseguenza è diventato anche un interlocutore internazionale, perché è all'interno della vita dei campi, ed è stato in gran parte al movimento delle donne che si sono rivolte, negli anni, le associazioni di solidarietà da tanti diversi paesi.  Le donne hanno organizzato il sistema per far andare all'estero a studiare i loro figli e figlie. E poi, per le donne e le ragazze, fu costruita la scuola "27 febbraio", dove anch'io ho studiato, con il primo gruppo di iscritte. Ci divisero secondo la formazione che avevamo: chi studiava da infermiera, chi da segretaria, o da insegnante, o semplicemente si studiava la tecnica tradizionale dei tappeti, e la sartoria.

Chi erano gli insegnanti? Venivano da fuori o erano saharawi?

All'inizio furono scelti tra coloro che avevano studiato, uomini o donne, tutti saharawi. Poi, man mano che le donne finivano gli studi, diventavano esse stesse insegnanti, anche per le altre scuole di altre wilaya.

Quindi qui tra voi non vi è mai stata quella dimensione che si trova in tanti altri paesi musulmani, dove gli uomini impediscono alle donne di studiare. Erano gli uomini stessi i vostri insegnanti, in alcuni casi.

Il nostro popolo non hai mai avuto quelle idee verso le donne. E inoltre, la situazione era tale che sarebbe stato impossibile escludere le donne da ruoli di responsabilità, vi erano praticamente solo donne qui!  In ogni caso, per noi l'islam è un fatto personale. La fede è qualcosa che ciascuno di noi si vive con se stesso, per i fatti propri.

Quando sei riuscita poi a riunire la famiglia, ad avere con te tutti i tuoi figli?

Nel 1976 mia suocera è venuta qui con i miei figli, mentre mia madre è rimasta nei territori occupati. Non ci siamo mai più riviste.

Alla scuola 27 febbraio, tu che corsi hai frequentato?

Io mi sono iscritta ai corsi per fare i tappeti. Nel 1980 ne sono diventata la direttrice, poi abbiamo avviato una fabbrica, e io sono diventata la responsabile. Nel '91 sono diventata direttrice di tutta la scuola 27 febbraio, fino al '94. C'era tantissimo lavoro, e dovevo anche tirar su la famiglia, i ragazzi che crescevano. Ma sono sempre stata attiva nell'organizzazione delle donne. Adesso ho lasciato la direzione della scuola, ma continuo ad occuparmi della fabbrica, che fa tappeti e cuscini.

…E' difficile adesso. Questa situazione di attesa, dove non si vede neppure uno spiraglio, non si capisce come andremo a finire… Il mondo è amico solo dei più forti, e solo il più forte può incidere, e vincere… Per questo noi invitiamo la gente a stare con noi, per far capire quali sono le nostre ragioni, quello che chiediamo. Vogliamo mostrare che noi non siamo mai stati violenti o belligeranti. Noi chiediamo ciò che ci spetta di diritto. Noi siamo sempre stati con l'ONU, per far in modo che tutto andasse pacificamente. Per anni abbiamo aspettato un referendum, ma non è stato fatto nulla. Non chiediamo nulla di pazzesco, o di impossibile. Chiediamo solo di stare tranquilli, a casa nostra. Non siamo venuti qui per farci mantenere come profughi.  Vogliamo tornare a casa nostra. Non chiediamo soldi o aiuti economici, ma chiediamo sostegno contro il Marocco.

E mentre i marmocchi continuano a girarci intorno con i loro occhietti furbi e provocatori, prometto a Embarka di fare il possibile per dare eco al suo appello.

*****


NASRA. L'esempio che la solidarietà può diffondersi come un'eco.  

Nasra è una giovane donna, allegra e solare, poliglotta, nata profuga, da una famiglia in fuga. Mentre lei navigava nell'utero materno, suo padre ero imprigionato, liberato, esiliato,… I suoi genitori diventano rivoluzionari clandestini, tra i fondatori della lotta di liberazione del popolo saharawi.

Ha avuto la fortuna (…forse mai nulla avviene per caso) di incontrare una famiglia italiana che l'ha aiutata a crescere. E lei… è cresciuta. E' cresciuta tanto, e ora può dare ad altri bambini e ad altre famiglie ciò che il Caso e la sua intelligenza le hanno consentito di mettere a frutto.

Sono nata nel '74 in Mauritania, perché mio padre - che faceva parte del Fronte Polisario - è stato prima incarcerato poi scacciato dagli spagnoli e mandato via dal Sahara spagnolo, nel '72. Mi madre lo ha seguito nel '73, e la loro casa è diventata un punto di riferimento per tutti i saharawi espatriati. Quando sono venuta qui nei campi, nel '75, ero quindi piccolissima. La mia infanzia l'ho vissuta qui, e qui ho fatto le scuole primarie. Nel '91 sono andata in Italia in vacanza, insieme ad altri bambini, ma poi ho avuto dei problemi di salute, così il soggiorno si è prolungato. Una famiglia italiana stava cercando un bambino da adottare, o da prendere in affidamento, e trovò un bambino saharawi.

Così mi sono fermata in Italia, e ci sono rimasta 5 anni. Questa famiglia, di Anzio, mi ha presa in carico per tutto il tempo che ho passato lì, completamente, e mi ha consentito di studiare in Italia. Ho fatto 3 anni delle scuole superiori, poi due anni di Informatica. Finita questa scuola, ho deciso di tornare a casa. Volevo stare con la famiglia, e poi volevo dare il mio contributo, aiutare il mio paese con le conoscenze che avevo acquisito. Prima ho lavorato con un'organizzazione norvegese che si occupa del problema delle mine. Eravamo alla vigilia del referendum, o almeno così sembrava. E siccome pensavamo di tornare in Sahara, c'era il problema dell'attraversamento delle zone minate. Purtroppo, questo non è avvenuto. Ora lavoro con il Ministero della Cooperazione, per cui seguo diversi progetti e faccio l'interprete, specie con l'italiano naturalmente, ma anche con l'arabo. Poi mi occupo a volte di accompagnare le delegazioni straniere che vengono qui, soprattutto dalla Spagna.

Un progetto che seguo personalmente riguarda i bambini celiaci, ovvero che hanno intolleranza al glutine. Questo problema è stato scoperto proprio da una delegazione di ricercatori italiani nel '97, ed è un problema piuttosto grave da affrontare dato che qui non abbiamo grande varietà di cibi, essendo nel deserto, e molti sono a base di farinacei. Pane, pasta, cus-cus,… loro non li possono mangiare. Inizialmente il progetto copriva circa 120 bambini, purtroppo oggi siamo arrivati a 300, in meno di due anni, e sappiamo che sono di più, perché molti sono ancora quelli che non hanno fatto analisi specifiche. Il progetto consiste nella distribuzione di farina senza glutine (6 kg al mese) ai bambini identificati, e ora sta andando abbastanza bene. Il progetto è del Cospe, di Firenze, finanziato dall'Unione Europea. Ogni anno poi cerchiamo di portare in vacanza all'estero i bambini che hanno problemi di salute, per farli curare, e perché possano conoscere in cosa consiste la loro malattia, che non guarisce, ma necessita di cure per tutta la vita. Bisogna che sia loro che le loro famiglie capiscano questo aspetto del problema, che è forse la parte più difficile. Io bambini celiaci non possono mangiare come gli altri, mai. Quindi lavoriamo con 300 famiglie, a crescere. Il laboratorio di analisi esamina sempre nuovi bambini.

Avete avuto già dei risultati sui bambini in cura dal progetto?

Sì, senz'altro, soprattutto su quelli che hanno cominciato da più tempo, e che sono andati in Italia già per il secondo periodo di cure. La prima volta che sono arrivati là erano magrissimi, emaciati! Alcuni avevano il tasso di emoglobina bassissimo.  Abbiamo anche cercato un sistema per rifornire maggiormente questi bambini di verdure fresche, perché la sola farina senza glutine non era sufficiente a farli riprendere; avevano bisogno di un'alimentazione più completa. Però questo si è potuto fare solo per qualche tempo, perché non vi erano finanziamenti sufficienti. I bambini erano in aumento, e non si riusciva a comprare cibi freschi per tutti. E' così che si è avviata un'altra attività: quella dell'adozione a distanza. Delle famiglie in Italia mandano una cifra mensile, circa 15-20 Euro, per ciascun bambino. Funziona bene, e sono già un centinaio i bambini che ricevono questo contributo. Per me è importante che le famiglie sappiano esattamente a cosa servono questi soldi, in cosa consiste la malattia dei loro bambini. Sai, viene magari da prenderla alla leggera, e da usare i soldi per le tante necessità che una famiglia ha in questi campi. Quindi si fa un'attività di formazione continua sulla gravità della malattia, sulle sue conseguenze, quindi su come alleviarne gli effetti. Dopo due anni di lavoro, i risultati si vedono. Circa 3 volte l'anno riesco a vedere tutti i bambini, nelle diverse wilaya.

Come avviene la distribuzione?

Qui a Rabuni abbiamo un mezzo per portare i sacchi di farina in ciascuna wilaya, nel deposito di ogni ospedale, dove abbiamo un collaboratore responsabile dello stock. Ogni daira poi ha una mamma responsabile della distribuzione, che sa quali sono i bambini destinatari che partecipano al progetto.

I bambini celiaci quindi cosa mangiano, per esempio il cus-cus non possono mangiarlo?

No, perché contiene glutine. In questi due anni di attività, con le donne abbiamo cercato di studiare nuove ricette, per variare un po' la scelta tra i cibi senza glutine, ma non è facile. In Europa si trova tutto già pronto: vari tipi di pasta, di pane, anche la pizza… Qui invece abbiamo solo la farina, che è mista di mais e riso, e le mamme devono fare tutto a mano, e non è facile da lavorare come la normale farina bianca di frumento. Per questo sarebbe utile se ci fosse qualcuno in grado di insegnare alle mamme delle ricette apposta, da realizzare con questa farina, disposto a venire qui per qualche tempo, a fare corsi di cucina per celiaci!

Ho capito, abbiamo un appello da fare durante il tuo prossimo viaggio in Italia: "cercasi cuochi senza glutine per bambini profughi in mezzo al deserto"…! A proposito, presto sarai nuovamente in Italia, vero?  Come hai passato i 5 anni in cui hai vissuto nel mio paese?

Ah, sono stata benissimo. Quando sono in Italia mi sento come a casa, non mi sento una straniera. Vado ovunque, senza problemi. Sono arrivata da voi quando avevo 17 anni, e non sapevo la lingua. I miei studi fatti in Algeria non erano riconosciuti, così mi sono iscritta alle superiori ma al contempo ho dovuto studiare per riprendere il diploma di terza media. Facevo due scuole contemporaneamente! Le superiori al mattino, le medie alla sera.

Ti hanno preso alle superiori anche se dovevi rifare le medie?!

Sì, perché sapevano che frequentavo la sera, quindi si sono fidati e mi hanno aiutata, accettando l'iscrizione lo stesso.

Una scuola al mattino e un'altra al pomeriggio… E quando potevi studiare?!

Sì, è stata un po' dura, ma i professori mi hanno aiutata. Io ci tenevo tantissimo ad andare avanti e diplomarmi, e loro vedevano la mia volontà e la determinazione.

Come ti sei trovata con la famiglia italiana?

Benissimo. Sono davvero la mia seconda famiglia, io li chiamo mamma e papà quando vado da loro.

Come li hai incontrati? Avevano altri figli?

Avevano una figlia, più piccola di me. Li ho incontrati alla rappresentanza saharawi a Roma. Loro cercavano di "adottare" un bambino, ed erano venuti in sede per incontrare un bambino celiaco che aveva bisogno di una famiglia per stare in Italia a curarsi. Quando vennero, trovarono anche me, che ero lì per altri motivi. Anch'io non stavo bene in quel periodo, e cercavo una possibilità per restare in Italia anche per studiare. Quando hanno deciso di prendere il bambino hanno detto … "allora prendiamo anche la ragazza che è qui con lui!". Così siamo rimasti entrambi con loro, il bambino è rimasto due anni, poi è tornato ai campi. Mi sono trovata bene subito, non ci sono mai stati problemi. Erano una coppia giovane, sui 40 anni.

Quanti sono i bambini che vanno in Europa ogni anno?

L'anno scorso in Italia sono andati 600 bambini; in Spagna ne hanno presi circa 8000. La Spagna ha una storia diversa con i saharawi, naturalmente. E anche il lavoro fatto con i bambini è diverso. In Spagna i bambini vanno singolarmente presso delle famiglie, per un paio di mesi, mentre in Italia si tratta soprattutto di gemellaggi con comuni e associazioni, che organizzano dei centri estive per le vacanze e la cura di chi ha problemi di salute. Vanno quindi in gruppi di 10, 15, 20 bambini, in paesini diversi, per un paio di mesi, seguiti da un accompagnatore saharawi. Ci sono anche in Italia delle famiglie che prendono i bambini ma per periodi più brevi. Abbiamo gruppi di bambini in tutta Italia, da nord a sud. Io vengo a coordinare un po' il tutto, per vedere le necessità o le emergenze.

Nasra, tu eri piccola quando la tua famiglia ha fatto la guerra, ma quali sono i ricordi che hai dei primi anni della vita nei campi, o quali sono i ricordi che senti più forti, rispetto a ciò che hai sentito raccontare in famiglia?

La mia infanzia è stata qui nei campi. I primi anni sono stati molto difficili, c'era davvero la fame. Le nostre famiglie ci lasciavano tutto il tempo a scuola, e le scuole erano più dure rispetto alle vostre. Si respirava anche a scuola un'atmosfera severa, militare. Eravamo in guerra, e anche il sistema educativo ne risentiva. Ci facevano studiare dalla mattina alla sera, e tutto doveva essere fatto con molta precisione e disciplina. Insomma, c'era molta rigidità. Non c'era quasi spazio per il gioco, e giocattoli non ne avevamo. L'unica possibilità, all'epoca, erano i giochi di gruppo. Sì ne ho dei ricordi un po' duri, ma comunque è andata, e i ricordi piacevoli non mancano. Non ho ricordi di guerra. La guerra non arrivava qui nei campi. Sentivamo dei discorsi, tra adulti, ma siamo sempre stati tranquilli, al di fuori della guerra.

Ma che effetto ti fa il fatto di vivere sempre "in attesa"? in un campo profughi, sempre precari, sempre ad aspettare qualcosa che non arriva mai… Siete qui sempre provvisori, con l'idea di andarvene. Come si vive in questo modo? Che effetto ti fa?

Sì, sono sempre cresciuta con questa idea che "un giorno ce ne andiamo,… un giorno torniamo alla nostra terra…". Ci sono certamente momenti di grande scoramento. A volte ti viene da pensare "in tutti questi anni… non è mai stato fatto niente, perché si dovrebbe fare qualcosa adesso? Non cambierà mai niente!" Ma in realtà, penso che prima o poi qualcosa succederà, e che noi andremo nel Sahara Occidentale. Certo si sente la precarietà, non si riesce mai a fare progetti a lunga scadenza. Pensi di fare qualcosa, però poi quello che hai messo in piedi devi abbandonarlo, oppure pensi di mettere su famiglia, sapendo che però la casa che fai la dovrai abbandonare. Qualsiasi decisione che prendi, sai che è temporanea. Eppure qualcosa devi fare, non si può stare sempre ad aspettare, perché intanto gli anni passano, e la tua vita se ne va…

Tu credi che raggiungerete i vostri obiettivi?

Io credo che anche se ci sono molte difficoltà, le soluzioni possibili sono molte, e con pazienza prima o poi si arriverà a trovare un accordo col Marocco.

Non pensi ad un'altra possibile guerra? (Nasra, mi risponde confusa e sconvolta).

Io spero di no! Non voglio neanche pensarci. La sola idea mi sconvolge. La guerra è orribile. La gente ricomincia a morire. A morire di violenza, a morire di fame, di malattie… No! Non voglio proprio pensarci! Per me possiamo stare qui anche altri 30 anni, ma prima o poi vinceremo. Senza fare nessuna guerra. La  guerra no… La guerra non porta da nessuna parte! No, proprio non ci voglio pensare!

(Strano, forse è la solita differenza tra maschile e femminile. Tutti gli uomini con cui ho parlato fino ad ora, mi dicono proprio il contrario). Cerco di cambiare discorso. Nasra mi racconta ancora qualche ricordo della vita in Italia, di come ci stava bene. Ma non ti è mai venuta voglia di fermarti lì, magari fidanzarti a un italiano, e metter su famiglia? Ride!

No, assolutamente! Ho sempre pensato di tornare dalla mia famiglia. E poi…non potrei mai resistere pensando che io me ne sto lontana e sto bene, senza problemi, mentre qui la famiglia soffre. Mi fa piacere tornare in Italia ogni tanto, vedere la mia famiglia italiana, gli amici, ma io voglio vivere qui, sono cresciuta qui, in questi campi, io sto bene qui.

Lo dice sorridendo, con gli occhi che le brillano.

Ti piace il deserto?

Sì, tantissimo! Certo anche in Italia ci sono posti che amo molto, ma qui ci sono cose che non potrei mai scambiare con nient'altro! C'è questa luce, questo cielo…

Grazie Nasra, per avere raccontato la tua storia, e per tutte le cose che fai.

E mentre i suoi occhi luminosi spaziano sull'immensità del Sahara, io mi sento felice di essere qui, e di incontrare questa gente.

 

PARTE 4. Solidarietà con il popolo saharawi.

Alcuni esempi di chi-fa-cosa e perché.

Come si può facilmente intuire dalle descrizioni dell'ambiente e dalle interviste di queste pagine, la vita in questo deserto non è per niente facile. Ancor meno lo è per persone che da tanti anni  vivono con l'impressione e la determinazione di poter fare le valige da un momento all'altro. Si costruisce ben poco, quando si ha un trasloco in programma.

Ragion per cui la Hammada dei saharawi non è assolutamente una terra dalla quale si può trarre di ché vivere per tutti i profughi che vi sono rifugiati. Hanno bisogno di tutto. Chi ha un parente che lavora lontano, in Europa, può farsi mandare un po' di soldi, può farsi comprare un pannello solare, un frigorifero, o una bicicletta per un ragazzino, ma certo non può farsi spedire pacchi di riso con cui sfamarsi, o litri di olio per cucinare, o sapone con cui lavarsi e lavare le proprie cose, ecc.

La sopravvivenza dei saharawi, e della loro causa, è stata dunque legata in tutti questi anni alla capacità e alla disponibilità delle politiche internazionali degli aiuti umanitari: dalle organizzazioni di solidarietà della società civile, alle agenzie delle Nazioni Unite e dell'Unione Europea.

In quanto profughi, i saharawi hanno beneficiato a lungo del sostegno dell'HCR - Alto commissariato delle NU per i rifugiati -  nonché del PAM - il Programma Alimentare Mondiale - ai popoli in stato di calamità.  Gli equilibri che regolano la disponibilità dell'una agenzia o dell'altra a elargire più o meno quantità di beni, sono evidentemente legati alle scelte politiche internazionali (multi/bilaterali), e a come la comunità degli stati intende gestire un dato problema. Negli ultimi anni, non è un caso se i campi saharawi hanno visto ridursi sempre più gli aiuti da parte delle Nazioni Unite, mentre quelli dell'Unione Europea sono proporzionalmente aumentati di parecchi milioni di euro.

Nell'anno 2002, ECHO, l'agenzia dell'Unione Europea per l'emergenza, ha stanziato 14 milioni di Euro per i campi della Hammada, che vanno a finanziare beni di base. Per quanto riguarda gli alimentari si tratta principalmente di: farina, olio, legumi (fagioli e lenticchie), latte in polvere, tonno. Riguardo i non alimentari: coperte e prodotti per l'igiene quotidiana, e in piccola parte abbigliamento per bambini di età scolare.

LAVORATORI SAHARAWI NEGLI STOCK ALIMENTARI


 

Il racconto di Giulia Olmi

Giulia si occupa dei programmi del CISP in Algeria e nei campi dei rifugiati sahrawi, ma in Italia è una delle fondatrici dell’Associazione di solidarietà con il popolo sahrawi. La sua prima visita ai campi dei rifugiati risale al 1984, e da allora il suo legame con questa gente è stato una costante della sua vita, sempre in crescita. ¼Sono curiosa di sapere come e perché! Sedute su un muretto del "protocollo" di Rabuni, mi risponde con il suo spiccato accento romano. (Nella foto, Giulia con un'amica e la sua bambina).

Nel 1984 il CISP, che era nato da poco e di cui facevo parte, svolgeva attività di tipo informativo e di approfondimento circa i rifugiati in diverse aree del mondo. Io mi occupai, per esempio, dei rifugiati dell'Ogaden in Somalia, e poi dei rifugiati saharawi. Chiamai il rappresentante in Italia del Fronte Polisario e ci proponemmo per fare qualcosa con loro. All'università stavo studiando islamistica e arabo, per cui la situazione mi interessava particolarmente. I progetti di una certa entità sono iniziati dal '93, con le disponibilità di finanziamento dell'Ufficio Umanitario della Commissione Europea (ECHO). A me interessava soprattutto la problematica del conflitto nel Sahara Occidentale, ma l’impegno costante sul campo è stato possibile e si è consolidato grazie alla continuità di progetti che negli anni, con il CISP abbiamo proposto e realizzato. E’ stato il miglior modo per approfondire la conoscenza e stabilire profondi legami con questa popolazione: lavorando insieme, discutendo, affrontando le difficoltà, gli entusiasmi, le delusioni. Non so se senza questa possibilità il mio impegno sarebbe continuato e cresciuto come è avvenuto in questi 18 anni. Nell’84 avevo 22 anni, anche il Cisp era giovane, il mondo della cooperazione in generale si cominciava a muovere. Non esistevano ancora percorsi formativi definiti, ma si stavano creando. Adesso ci sono corsi di specializzazione, master, ¼ Allora si cercavano occasioni per farsi le ossa sul campo, per capire i meccanismi degli aiuti umanitari, le loro implicazioni negli equilibri internazionali. La causa saharawi aveva di stimolante il fatto di avere in Italia e in Europa una dimensione di movimento di base, di riflessione politica. Questo era molto bello e coinvolgente. Era questo che mi aveva attratto subito, poi mi sono appassionata anche del sistema degli aiuti umanitari e della scommessa di trovare negli aiuti di emergenza, occasioni per rompere l’isolamento dal mondo a cui questa popolazione sarebbe condannata: la loro sopravvivenza non solo in senso biologico , ma come esseri umani, come popolo. Ritornai nei campi nell’87, in un periodo in cui ero impegnata in un gruppo scout, nella fascia degli adolescenti. Proposi loro di fare uno studio sul significato e senso di parole come autodeterminazione, popolo, indipendenza. Portai nei campi una trentina di scout, dopo un periodo di studio della storia della causa saharawi, le risoluzioni dell'ONU, dell’OUA, articoli di giornale. Era interessante vedere come la storia si costruisce con le azioni, i documenti, le dichiarazioni, le risoluzioni e ancor prima con le nostre interpretazioni, con le alleanze e le convenienze politiche.  Dopo cominciarono attività di sensibilizzazione sul territorio, cominciarono le donazioni, i piccoli progetti che realizzammo qui. Questo andava anche di pari passo con la crescita del CISP che andava avanti  e si rafforzava. Fu cosi anche per altre persone di questa ong che, per esempio, stavano svolgendo un lavoro analogo in altre zone di mondo, come in Sudamerica. Si studiava la storia e l'evoluzione dei movimenti di base di una data zona per capire quali interventi di cooperazione proporre e realizzare, come scrivere i progetti, con quali partners locali lavorare.

Tutto quel periodo come lo vedi adesso, a distanza di anni? Ne hai soddisfazione, sei riuscita a coinvolgere delle persone?

Beh sì, c'è stata una bella risposta. Ma in generale sono i saharawi che in Italia hanno saputo far  leva su un punto importante: la connessione tra solidarietà alla loro causa e l'impegno della società civile sul proprio territorio. I Comuni sono stati coinvolti, poi è cominciata l'accoglienza dei bambini. Certo, non è una cosa nuova e nata con i sahrawi, è stato fatto con molti altri, ma a quel tempo, nella prima metà degli anni '80, era ancora una cosa piuttosto nuova. Una famiglia di un piccolo comune italiano, si trovava in breve tempo a toccare un angolo di mondo mai conosciuto prima, prendendosi in casa dei bambini saharawi. Si trovava quindi a capire, con dei gesti quotidiani, il significato e il peso di una risoluzione dell'ONU, di cui altrimenti forse non avrebbero nemmeno saputo l'esistenza!  In poco tempo, il Polisario ha seminato una conoscenza diffusa, nei singoli paesi, nelle famiglie, su questioni internazionali prima sconosciute.

Questo poi era un po' il ruolo delle ong alle origini, il lavoro della solidarietà di base, da comunità a comunità.

Sì, ed era una cosa veramente bella! In più c’era una fisica, perché c'erano i rappresentanti del Fronte (e noi ne abbiamo avuto uno che era davvero un leader carismatico) e in molti comuni venivano ospitate persone per motivi di salute, poi c'erano i bambini nd’estate e nelle famiglie.

Seguivamo con ansia gli avvenimenti: le risoluzioni dell’ONU, dell’OU, gli incontri diplomatici. Si organizzavano incontri, si sensibilizzavano i giornalisti….Insomma, per me poco più che ventenne è stata davvero un'esperienza straordinaria ed emozionante. C'era da conoscere le procedure delle Nazioni Unite, e quando ci lavori è ben diverso che studiarle sui libri, perché le vivi sulla pelle delle persone.

Questo mi ha accompagnata per tutta la vita. Attraverso i saharawi io sono cresciuta professionalmente e come persona. Con loro ho conosciuto tantissime cose. Ho toccato con mano il sistema delle relazioni politiche del nostro governo: a 24 anni andavo alle riunioni con parlamentari, Fronte Poliosario, senatori, giornalisti, associazioni italiane. Era davvero bello, forte, positivo!  Ti fa crescere. Le prime volte che mi trovavo a pranzo con un senatore non sapevo cosa dire!  E' stato insieme ai sahrawi che ho fatto queste esperienze, e questo naturalmente ti lega profondamente.

Tu quindi come lo senti il saharawi, dopo 20 anni che vieni qui? Lo senti un po' come una seconda casa, una seconda pelle?

No, né seconda casa né seconda pelle. Anzi, questo ce l'ho sempre avute ben presente: io sono italiana, ho un'altra storia,  loro sono qui, ed è da 27 anni che stanno schiattando qui. Ho dei legami forti con molti di loro, ho persone che mi stanno a cuore, di quelle che conti tra le persone più importanti della tua vita. Non sono mancate le delusioni, le persone che credevi in un modo che poi hai scopert in un altro, o semplicemente che sono scomparse. Come d’altra parte mi è capitato con altri amici e conoscenti non sahrawi. Ma ci sono quelle che conosco da 20 anni, e che per tutti questi anni ho sentito vicine, anche perché, per loro scelta, sono rimaste qui e le ho sempre rincontrate. Alcune di queste persone, sono davvero parte della mia vita. Ma al di là di questo no, non sento questa la mia famiglia, per un motivo molto semplice: io non vivo qui. Io non sono disperata per un futuro incerto come loro. Io ho casa mia, le mie sicurezze, il mio lavoro a Roma. E non mi sogno minimamente di fare discorsi (come sento spesso in tanti stranieri che vengono qui) del tipo "Ah sono con voi, mi sento uno di voi¼". La sola formulazione di queste frasi mi sembra una presa in giro. Quando le sento, penso fra me e me "Ma che accidenti dici? Fra due giorni tu te ne vai, te ne torni a casa tua, con le lenzuola pulite, la Usl nel tuo quartiere¼ Ma come ti permetti?"

Giulia, vorrei un tuo commento sugli aiuti umanitari che ci sono stati in tutti questi anni.

E' una domanda da 10.000 punti! Ci vorrebbe un trattato. Questa tra i campi della RASD è una situazione particolare. E' un territorio molto piccolo, e in un attimo qui vedi di tutto. In altre situazioni, in altri paesi, hai milioni di abitanti, grandi città, vasti territori¼ Qui tutto è piccolo, quindi fai presto a renderti conto di tante cose, anche delle contraddizioni, i benefici, i nonsensi, ¼ Si fa presto qui a capire se un progetto serve o non serve, se un'iniziativa è stata utile o meno. Per di più, oltre ad essere un piccolo paese, sono tutti appartenenti alla categoria dei rifugiati, sono minacciati. Non vivono in un loro territorio, sono perennemente ospiti e dipendenti. Da un lato ti viene immediatamente da chiederti che senso abbia fare delle azioni di sviluppo in una situazione così precaria e così arida. D'altra parte, è chiaro che questa gente deve andare avanti, e deve anche prepararsi ad un futuro "x", che chissà quando verrà, in cui si gestiranno la loro economia.

La contraddizione più grossa sta nella domanda: cosa vogliamo fare di questa popolazione? Vogliamo a mala pena che si reggano in piedi, che abbiano qualcosa nella pancia, ma che siano vuoti dentro? O vogliamo dare loro le condizioni fisiche, mentali, professionali, per gestirsi e costruire un proprio futuro? Il Sahara occidentale ha coste pescosissime, grandi risorse minerarie e quindi una vita economica forte. E sta in mano ad una potenza straniera: tutto questo è folle!

Allora, che si fa? Chi garantisce loro non solo di stare in piedi ma anche di vivere e ragionare?

I fondi per l'emergenza si occupano, ovviamente, solo dei sacchi di farina e poco più¼ Le scuole sono a livelli bassissimi. Come sempre, nessuno si occupa di finanziare l'educazione. Questa gente non ha niente da leggere. Tra avere un'alfabetizzazione di base e comprendere un testo, sappiamo bene la differenza che ci passa! Quindi, come fare un bilancio degli aiuti¼? E' il bilancio della vita politica. Non è possibile staccare le due cose, tutto è in funzione di giochi di appoggi e alleanze, in base ai quali si decide cosa fare, cosa e quanto finanziare, dunque si decide della vita delle persone.

Come vedi la prossima svolta, ora che è crollata la speranza nel referendum? (¼Giulia si lancia nell'ironia verso i paesi ricchi).

Guarda, dopo tanti anni¼non mi viene più in mente niente altro che andare ad accendere un lumino nella chiesetta, e sperare che ci sia qualche convenienza economica da parte degli Stati più potenti che li convinca a non lasciare tutta questa gente nel fondo del baratro!  Come dire: "Oh Gesù, ¼fai che  la Francia, gli Stati Uniti, l'Inghilterra, abbiano un qualche interesse a far sì che questo popolo abbia una terra su cui vivere!"

   

Sara di Lello.   

Sara è una donna minuta. Non la diresti una veterinaria tosta. Una delle cose che in lei mi colpiscono, è il suo farsi semplice con i semplici. Tante volte ho trovato razzismo nei cooperanti, l'incapacità di mettersi alla pari, di avere relazioni di reciprocità. Sara instaura relazioni paritarie. I saharawi con cui lavora sono suoi amici, non sono solo colleghi, né tantomeno sono subalterni, come si vede in tanti casi, dove i locali vengono trattati come tali, anche dai cooperanti.

La incontro alla fine del suo lavoro di circa due anni nel deserto algerino. Ha le lacrime pronte in questo periodo: le costa molto lasciare questo posto, lasciare persone a cui si è affezionata. Ma la aspetta un'altra avventura: …quella di un figlio in arrivo.

Le chiedo di raccontarmi la sua storia, il suo vissuto. Immaginatevi il suo accento milanese, sotto una veranda, di prima mattina, con la luce dell'alba e un fortissimo vento che ci fa volare i turbanti (e che risento persino nella cassetta registrata!). Nella foto, Sara alla partenza, con alcuni degli amici veterinari del suo progetto.

Sono nata a Milano nel '71, a Milano ho fatto il liceo scientifico, poi Veterinaria a Parma. Dopo la laurea, ho fatto un periodo di volontariato in ufficio, alla sede  SIVtro (Veterinari Senza Frontiere) a Padova. Proprio in quel periodo, alcuni veterinari sono partiti con un volo charter per i campi saharawi, e hanno realizzato lo studio di fattibilità di un progetto, poi hanno proposto a me di venire a metterlo a punto con le autorità locali, e di realizzarlo qualora avessimo trovato il finanziamento, che chiedevamo al Ministero degli Esteri italiano. Ho quindi lavorato alla stesura di questo progetto dal '97 al 2000, anno in cui finalmente è stato finanziato grazie alla collaborazione con Africa 70 (di Milano), e così sono partita.

Il dipartimento di veterinaria, qui esisteva solo sulla carta e non in pratica. Moltissimi veterinari tornati dagli studi a Cuba erano dispersi nelle tendopoli, senza un'identità e degli incarichi precisi. Noi abbiamo lavorato sul rafforzamento istituzionale e la formazione. Il progetto ha consistito proprio in questo: ripristinare il dipartimento e renderlo attivo. Dare dei ruoli a ciascuno, creare una rete di servizi territoriali. Le principali funzioni svolte dal dipartimento sono: l'ispezione della carne destinata alla vendita, l'educazione sanitaria ai macellai, lo studio sistematico dello stato di salute del bestiame: cammelli, pecore e capre (questo ci ha preso tutto il primo anno di lavoro, con prelievi e analisi di campioni). Il mio lavoro è stato nel coordinamento di tutto questo, con la formazione e l'aggiornamento dei veterinari. A me si sono affiancati consulenti esperti per periodi brevi, per fare formazione su aspetti specifici: per i tecnici di laboratorio per esempio. Nel secondo anno abbiamo realizzato un corso di omeopatia, con un veterinario omeopata venuto appositamente.

Sul piano professionale, quali sono stati gli elementi che ritieni di maggior successo, che più ti hanno gratificata, e quali quelli di maggiore difficoltà?

Guarda, difficoltà e gratificazioni per me sono state legate ad uno stesso aspetto: io un po' per inesperienza un po' per idealismo, avevo imposto che nel progetto vi fosse un solo espatriato, perché volevo che fosse un progetto dei saharawi, non di persone straniere. Sostenevo che se fosse venuta qui un'équipe numerosa dall'estero, questo avrebbe in qualche modo inibito la loro voglia di partecipare. La gratificazione è stata quindi nel riuscire a mantenere da sola l'unità e la partecipazione di questo gruppo di 18 trentenni scatenati, e naturalmente questa è stata anche la maggiore difficoltà. Proprio il ritrovarmi da sola, senza punti di riferimento, senza persone con cui parlare quotidianamente dei problemi da affrontare, che sono tanti,… per esempio nelle relazioni con le autorità locali.

Già, dimmi. So che hai avuto problemi inizialmente, con i ministeri vari…

Io lavoravo sul terreno, facendo formazione nelle 4 tendopoli, per cui non ero molto presente a Rabuni nelle relazioni sia con altre Ong sia con i Ministeri, perché non era quello il mio ruolo.Né la mia Ong ha mandato qualcuno a tal fine, se non molto tempo dopo, ad un mese dalla fine del progetto. Questa mancanza di rappresentanza ha causato un po' di disinteresse nei nostri confronti da parte delle autorità locali. Se poi aggiungi che l'interlocutore per loro ero io, una donna, giovane,… ha creato una certa diffidenza, sin dall'inizio. Mi sentivo guardata un po' dall'alto in basso, come la ragazzina che dopo 10 giorni avrebbe mollato tutto e sarebbe tornata a casa sua.

Col tempo poi, ho visto proprio l'atteggiamento dei ministeri cambiare gradualmente nei nostri confronti. Specie da parte del Ministro della Salute, che è un uomo determinato, selettivo. Sa dire di no, ma sa apprezzare e rettificare il proprio giudizio.

A un certo punto, quando abbiamo cominciato a portare dati concreti sul nostro lavoro, abbiamo visto la tacita dichiarazione di stima. Loro cominciavano a chiederci consigli… Questa è stata certamente una grande gratificazione e non solo per me singolarmente, ma per tutti i veterinari saharawi, che adesso possono andare al Ministero e farsi ricevere, essere ascoltati, con maggiore credibilità. E vengono sostenuti  e aiutati molto di più rispetto a prima.

Prima di questo progetto, il dipartimento di veterinaria dipendeva dal Ministero dell'Agricoltura. Il ministro della Salute ha voluto che rientrasse sotto il suo Ministero, e questo è stato molto importante. Noi ci occupiamo primariamente di salute pubblica, non di produzione maggiore di carne o di latte. Il ruolo del veterinario riguarda la salute, non la produzione o il commercio. Quando però il Ministro ha visto che di questo progetto me ne occupavo io…non l'ha presa come una cosa molto seria! Ma poi ha visto che le cose venivano fatte, che io non mi arrendevo davanti alle difficoltà,… Insomma, ha visto i risultati.

Che cos'è che ti ha reso così determinata nel realizzare questo lavoro, da sola, giovane, in un posto così difficile? Cosa ti ha spinta maggiormente: l'aspetto professionale, l'adesione alla causa dei saharawi, …?

Un po' tutto questo. Io volevo innanzitutto fare questo lavoro, che è sempre stato il mio sogno, e alla prima occasione è chiaro che ce la metto tutta. Io poi sono tenace per carattere: più difficoltà incontro, e più mi viene voglia di mettermi in gioco. Dopo è subentrato l'affetto per questi ragazzi. Passi con loro giorni e giorni, li conosci uno a uno, conosci le loro storie, molte delle quali drammatiche… Cominci a conoscerli, a capire il perché di loro comportamenti apparentemente strani: perché uno è pigro, perché un altro mette i tappi nelle orecchie durante le riunioni… E allora non puoi non affezionarti. All'inizio poi erano molto depressi professionalmente, perché erano sottoutilizzati. Alcuni di loro facevano le vaccinazioni ai bambini, altri si occupavano di acqua potabile,… perché il dipartimento come ti ho detto c'era solo sulla carta. Quando è partito il progetto, si sono passati la voce fra loro, laureati a Cuba: all'inizio erano 6 poi sono diventati 18. Io ho sempre cercato di far rientrare tutti, e loro stessi si sono accordati tra loro per dividersi il budget disponibile per gli incentivi, ma lavorare tutti. Questo è stato molto apprezzato da loro e ha anche consentito di creare uno spirito di gruppo che li ha rafforzati: loro adesso si sentono la categoria dei veterinari, proprio perché sono stati inclusi tutti quelli presenti nelle diverse wilaya. Naturalmente continuano ad avere grandi difficoltà tecniche, ma riescono ad andare avanti per loro conto. Studiano sempre, e fanno tutto quello che possono. Hanno anche conquistato una visibilità sociale e quindi una maggiore credibilità.

Come sei arrivata ad avere con loro una relazione così stretta, ben più che professionale, quasi fraterna?

Per me è stato abbastanza naturale. Io giravo nelle varie wilaya, quindi stavamo insieme a mangiare e a dormire, nelle loro case, in tanti. In queste serate ad aspettare la cena (che da loro arriva a mezzanotte!) si parla tanto… Così ci siamo raccontati la vita, loro chiaramente parlano sempre di Cuba, e tra le cose allegre e gli aneddoti saltano fuori storie pesanti. Tutti loro hanno lasciato a Cuba affetti forti, fidanzate,… o comunque la parte più felice della loro vita. Raccontano la loro infanzia qui, come sono cresciuti, quello che ricordano della fuga dal Sahara Occidentale. Tutto sommato, nonostante la povertà, la loro qui è stata un'infanzia felice. I loro racconti mi ricordano un po' il bambino de "La vita è bella": la guerra non l'hanno vista veramente, e l'hanno vissuta un po' come un gioco. Si tiravano pietre da una daira all'altra simulando gli scontri tra Polisario ed esercito marocchino, con le scatole di sardine facevano le ambulanze,… Facevano gli assalti al camion del pane perché avevano fame: uno saltava sopra e buttava giù il pane per tutti. Un po' le cose che facevamo anche noi in Italia, da piccoli, in campagna.

Poco a poco, siamo diventati tutti una grande famiglia. Ci vogliamo molto bene. Naturalmente non è uguale con tutti: ci sono quelli più chiusi, o quelli che sono gentili con te solo perché tu sei responsabile del progetto, ma con la maggior parte di loro si sono instaurate relazioni veramente belle.

E adesso che hai finito il tuo lavoro, che torni in Italia dopo quasi due anni qui, come ti senti?

Tornerò senz'altro. E poi anche loro verranno in Italia. Abbiamo deciso insieme di organizzare per tutti dei periodi di due mesi, a turno due alla volta, per studiare, aggiornarsi, e anche per uscire un po' dalla vita di qui. Ne hanno bisogno. Dunque, ci rivedremo. Non potrei certo pensare una separazione definitiva!

Come sei riuscita a conciliare questa tua esperienza con la vita familiare?

Eh, è stato difficile!  Io ho conosciuto mio marito mentre era assessore alla Pubblica Istruzione e Cultura nel comune di Pian di Scò, in provincia di Arezzo, che era gemellato con i campi saharawi. Dunque, l'ho conosciuto grazie ai saharawi! Io all'epoca stavo già lavorando a questo progetto, anche se dall'Italia, per cui sapeva sin dall'inizio che sarei partita appena possibile. E lui ha un rispetto totale per il lavoro e gli interessi degli altri, quindi non mi ha assolutamente ostacolata. Nonostante le difficoltà, abbiamo cercato di condividere questo impegno. Lui è venuto due volte mentre io lavoravo qui. Non è stato facile, soprattutto perché sono esperienze che ti cambiano profondamente, e quando torni a casa a volte gli altri non capiscono e non riescono a condividere i tuoi cambiamenti. Però ce l'abbiamo fatta, ci siamo sposati dopo un anno che lavoravo qui. Certo è stato importante il fatto di condividere questo impegno, sul piano politico e su quello sociale. Altrimenti non credo che sarebbe stato possibile.

Sara, immagino tu sia piena di ricordi che potresti raccontare, ma ne hai uno in particolare, più piacevole di altri?

Sì, sicuramente è difficile scegliere un'immagine fra tante … Ma sicuramente uno dei ricordi più belli è di quando mi sono ammalata di morbillo. Otto giorni di febbre a 40, nessuno che capiva cosa avessi!  Avevo tutti gli amici intorno che quotidianamente venivano in pellegrinaggio in ospedale portandomi biscotti, formaggini, … mi prendevano le cose da lavare e facevano il bucato… poi  quando ho dovuto ripartire per l'Italia mi hanno nascosto nello zaino una marea di provviste di alimenti, e io nel delirio della febbre dicevo che volevo lo Stracchino, allora loro hanno chiesto a un altro italiano cosa fosse lo Stracchino, e quando hanno saputo che era un formaggio mi hanno riempito lo zaino di formaggini! Lì ho capito che c'era un affetto vero.

E qual'è invece una storia che ti ha colpito particolarmente, tra le tante che ti hanno raccontato, delle loro storie di vita?

Mah, alla fine è quella che è un po' la storia di tutti: questo grande amore per Cuba, dove non potranno tornare. Questo è un vissuto collettivo, poi fra le tante ci sono le storie più drammatiche. Uno di questi ragazzi, mentre era sull'aereo che partiva, ha visto la sua ragazza sulla pista dell'aeroporto che si è data fuoco con la benzina. Se l'è vista morire sotto gli occhi. E poi quelli che arrivati qui hanno scoperto che i genitori erano morti da anni,  e nessuno glielo aveva detto… Sono storie drammatiche, ma molto comuni purtroppo, e questo se non altro rende loro almeno un po' più facile il sopportarle, condividendole, parlandone spesso tra loro.

Pensi che continuerai il tuo impegno per i saharawi anche una volta rientrata in Italia?

Spero di sì, anche se non è facile, perché non sempre il mondo della solidarietà e quello della cooperazione si incontrano. Molti gruppi per esempio pensano di fare solidarietà ma lo fanno in modo sbagliato.

Per esempio?

Per esempio mandando aiuti con le carovane, senza poi preoccuparsi della destinazione, per cui molte cose arrivano qui e poi si perdono, oppure mandano cose non necessarie perché non conoscono i bisogni veri della gente di qui, e ne ipotizzano altri che la gente non ha. Oppure occupandosi solo dei bambini, che vengono accolti in Italia a volte come bei balocchino da mostrare ai vicini di casa… Mentre chi ha bisogno di più qui, secondo me, adesso non sono tanto i bambini, quanto proprio questa generazione di trentenni. Loro hanno bisogno di esprimersi, di far sentire la loro voce, far conoscere la propria storia. Credo che se fossero invitati loro in Europa, a parlare del popolo saharawi, farebbero più presa di molti politici che parlano in maniera più ufficiale, ma magari più soporifera.

La loro storia, della loro duplice deportazione, di come hanno perso per anni ogni riferimento, come hanno dimenticato la loro lingua, perché sono cresciuti parlando e studiando solo in spagnolo di Cuba, per poi essere rituffati qui, in un paese musulmano di cui non ricordavano quasi più nulla, questa storia secondo me sarebbe più attuale e più rappresentativa del popolo saharawi come è oggi, che non la storia della guerra e della lotta di liberazione di 30 anni fa.

Questi ragazzi sono il futuro di questa gente, e sarebbe giusto dare la voce anche a loro. In questa società non si ritrovano, non possono esprimersi, non possono neanche guardare una ragazza in pubblico (figurati, cresciuti a Cuba!), …è chiaro che cercano di andarsene, di emigrare.

Ma secondo te, dopo la delusione e l'amarezza del referendum che non si è realizzato, cosa sentono questi ragazzi? Tornerebbero, per esempio, a fare la guerra contro il Marocco?

Fino a due anni fa si parlava molto di guerra, ma adesso la depressione ha preso il sopravvento. Non ci si crede più. C'è quindi un grande individualismo, dovuto allo smarrimento, e ognuno cerca una propria via di fuga e sopravvivenza. Col caldo dell'estate poi è ancora peggio, perché col grande caldo i depressi crollano del tutto. Tra quelli che io conosco, la maggior parte sono completamente disperati, alla ricerca di un passaporto e di un visto per andare via. E se io all'inizio dicevo che non è giusto, che dovevano stare qui e lavorare nel loro paese,… dopo quasi due anni qui, se posso aiutarli per avere un visto li aiuto! Anche perché comunque sono sicura che il senso di appartenenza è ben forte, e se davvero ci fosse bisogno di loro qui tornerebbero subito. D'altra parte, tutti si sentirebbero più utili alla loro famiglia se potessero lavorare in Europa a mandare qui dei soldi, anziché stare qui a fare quasi niente o a lavorare per due soldi.

Grazie Sara, e auguri cari, per la tua prossima avventura. (Una persona come te, deve moltiplicarsi!)

 

STEFANO VACCARI SINDACO DI NONANTOLA  (Modena).

Le organizzazioni e le iniziative di solidarietà verso il popolo saharawi negli anni, in Italia, sono state e continuano ad essere moltissime.

Stefano Vaccari è stato fino al 2002 il coordinatore di queste azioni per l’Emilia Romagna. Ho chiesto a lui di dirci un come-e-perché un’amministrazione comunale decide di impegnarsi a favore di questa causa[3].

Nella regione Emilia Romagna nascono negli anni '90 delle associazioni di solidarietà con il popolo saharawi, che si legano all’Associazione nazionale di Solidarietà con il popolo Saharawi (ANSPS) , e avviano un lavoro di sensibilizzazione in stretto contatto con le esperienze toscane, avviate molti anni prima. Successivamente tra il 1996 e il 1997 matura l’esigenza, di costituire un coordinamento che in Regione possa aggregare altri comuni, provincie, la Regione come istituzione (prima il Consiglio Regionale e poi la Giunta stessa)  e amministratori locali che autonomamente e per scelte personali avevano già conosciuto la causa saharawi, come nel mio caso. Io avevo conosciuto questo problema già quando, da giovane, ero nella FGCI di Modena. E', per molti, una conoscenza che viene da lontano. Comincia quindi a nascere la trama di un ordito che lega enti diversi: piccoli comuni, associazioni, province, per coinvolgerli in quelle che sono le due più importanti iniziative che l'associazione nazionale svolgeva e svolge: da un lato l'accoglienza dei bambini nei periodi estivi, dall'altro, le carovane degli aiuti. Questa trama ha trovato nella Regione un supporto fondamentale per i progetti di cooperazione, con l’istituzione di un Tavolo-Paese specifico per i saharawi, da parte dell’Assessore Borghi.

Può darmi qualche dato numerico? Quanti sono i bambini che vengono accolti in Emilia Romagna? Chi è che vi partecipa?

Come province emiliano-romagnole abbiamo attualmente: Modena, Bologna, Rimini. Poi molti comuni capoluogo: Modena, Reggio Emilia, Parma, Bologna, Ferrara, Ravenna, Cesena, Forli e Rimini . Poi molti comuni piccoli e grandi di queste province. I bambini accolti ogni anno variano tra 30 e 50. Non molti, perché si spostano. Si fermano più di due mesi, luglio e agosto, spostandosi nei vari comuni, assistiti dalle associazioni e dai comitati locali che ne curano l’accoglienza.

Questa rete in ER si è fatta promotrice nel coinvolgere altri comuni confinanti, per esempio in Lombardia o nelle Marche. La regione più attiva resta comunque, da sempre, la Toscana. Vi aderiscono tutte le province e centinaia di comuni. È stata la prima, partita dal comune di Sesto Fiorentino, il cui sindaco Marini cominciò negli anni 80 questo lavoro di tessitura e trama di rapporti. La Toscana è quindi quella che conta anche il maggior numero di bambini presenti in estate, e di attività per loro. L’ ER è la seconda sia in ordine temporale che quantitativo. Segue poi il Lazio, la Lombardia, e si stanno sviluppando progetti con le Marche, in Campania, la Sicilia, …quest’anno per la prima volta dei bambini sono andati a Palermo!

Come le sembra che sia quest’esperienza per il vissuto, l’impatto che ha sui bambini?

Io credo che sia molto positivo. Hanno la possibilità di conoscere tante facce dell’Italia, girano molto, pur restando sempre in gruppo, con l’accompagnatore che li guida, che è sempre saharawi come loro. I bambini che vengono non sono sempre gli stessi, e così tanti hanno la possibilità di conoscere istituzioni e famiglie che si impegnano nella solidarietà verso il loro popolo, e questo è molto importante per loro. Inoltre, va considerata l’assistenza sanitaria fornita a questi bambini. Soprattutto negli anni passati, la priorità era data a bambini che avessero bisogno di cure mediche. Era dunque un’organizzazione che cominciava mesi prima, con le USL, le quali si accollavano su nostra richiesta i costi delle visite mediche ed eventuali cure.

In termini economici quindi, per esempio, i viaggi dall’Algeria sono a carico di chi?

Dell’ente ospitante: quindi le associazioni di solidarietà con i relativi comuni di riferimento.

Quindi è una cosa anche piuttosto onerosa per i servizi pubblici, un impegno solidaristico notevole.

Sì. Tutto è diviso tra i comuni e le associazioni. I comuni danno contributi economici oppure mettono a disposizione gli spazi per la logistica: scuole per allestire dormitori e cucine, oppure mezzi ecc.  Noi quest’anno abbiamo fornito i pasti e sostenuto i costi della struttura ospitante, che era la casa di una parrocchia. I costi comunque sono sempre ridotti al minimo, perché c’è tanto volontariato.

Quindi anche una grande collaborazione tra istituzioni, società civile, mondo della Chiesa… E rispetto alle carovane di aiuti?

Qui l’organizzazione è più complessa. Fa riferimento sempre alla Toscana, che coordina le necessità di materiale con la Mezzaluna Rossa nei campi in Algeria. Occorre quindi vedere ciò che serve di più e di meno: che sia materiale per la scuola, o abiti, o certi tipi di alimenti, medicinali, ecc. quindi occorre verificare lo spazio disponibile sulle navi, o sui voli charter.  Poi si fanno i conti delle risorse economiche disponibili, per coprire sia i costi dei beni sia quelli del trasporto. E comincia la raccolta nei diversi territori attivata sia dagli amministratori in prima persona che dalle associazioni e dai comitati locali. In genere facciamo almeno una carovana all’anno.

Veniamo alla domanda politica: perché scegliere questa causa. Perché un’amministrazione comunale, di un piccolo comune, o di una provincia importante, sceglie di sostenere la causa del popolo saharawi? quale influenza spera / conta di poter avere, SE spera di averla, o  si risolve solo in aiuto alle persone?

Mah, fondamentalmente credo per un dovere delle istituzioni di occuparsi dei problemi di chi ha meno strumenti di noi per sopravvivere, o vedere rispettati i propri diritti. E questo credo davvero che sia uno dei popoli più dimenticati, se vogliamo fare una bruttissima graduatoria tra “chi sta peggio”, nel panorama di popoli che vedono calpestati i propri diritti nonostante siano sanciti dai maggiori organismi internazionali.  Il ruolo di una amministrazione comunale anche piccola, in quest’ottica, credo davvero che sia un dovere, oltre che un diritto, con gli strumenti che la legge gli dà. I gemellaggi (o patti di amicizia) ad esempio sono uno dei modi per legare in modo solido un comune con una wilaya saharawi in esilio. Naturalmente è una scelta che va motivata, come azione che in nessun modo vuole essere “contro” qualcuno (ovvero i marocchini) ma solo “a favore di” qualcuno.  Nel nostro comune, abitano moltissimi marocchini uno dei quali siede in Consiglio comunale come consigliere aggiunto, e certo nessuno dell’amministrazione si è mai sognato di considerare in qualche modo il popolo marocchino come responsabile delle sofferenze del popolo saharawi. Lavoriamo per cercare di portare la nostra voce, ciò che rappresentiamo nelle sedi che possono realmente fare qualcosa.

Vi sentite ascoltati in questo senso? Visto che dopo tanti anni non si è arrivati da nessuna parte, vi prende un po’ di sconforto…?

Sì un po’ di sconforto c’è, ma c’è anche la determinazione a continuare, perché ti rendi conto che comunque l’azione portata avanti in tutti questi anni a qualcosa è servita. Tutti i messaggi mandati negli anni via fax, via e-mail, a questa o quella organizzazione, che sia il governo italiano, l’Unione Europea, le Nazioni Unite, tutte le iniziative di sensibilizzazione, i convegni, le delegazioni al Parlamento di Strasburgo…fanno sentire l’adesione del territorio alla causa saharawi. Quindi servono  a spingere verso una soluzione anziché un’altra. Questo è un ruolo importante che non bisogna dimenticare, perché complementare alla solidarietà concreta.

Adesso però, dopo tanti anni di lotta politica e diplomatica senza esiti, pare che il Fronte Polisario si sia stancato di sentirsi preso in giro, e che ci siano forti pressioni per ritornare alle armi.

Sì, c’è un dibattito aperto nel Fronte, ma democratico, che dovrà essere sviscerato con il loro prossimo congresso ad ottobre, e dovrà portare ad una decisione, chiara e operativa. Certo io mi auguro che il Fronte non scelga di abbandonare la via diplomatica, anche se comprendo la stanchezza e la frustrazione della gente, che da 30 anni vive nella sabbia, senza una patria. Per non parlare degli altri, quelli che sono rimasti all’interno del Sahara Occidentale, in condizioni spesso denunciate da Amnesty International per il disprezzo dei diritti umani, per la sparizione fisica delle persone, per le esecuzioni sommarie.  La strada delle armi era già stata presa in passato. Forse, riprendendola, vincerebbero sul Marocco, perché per i saharawi il deserto è davvero casa loro. Ma non voglio neanche pensarci. Sarebbe una sconfitta per tutti.

Si, molti tra di loro sono convinti che sconfiggerebbero facilmente il giovane Mohamed VI.

Certo, per la comunità internazionale è una, ennesima, tra le tante sconfitte. L’Onu continua a fare “Risoluzioni” che non vengono rispettate, e si va avanti così! Il Medio Oriente è l’esempio supremo. E così, mentre a oriente abbiamo l’incendio dell’Iraq, il conflitto Israelo-palestinese che non vede la fine dopo decenni di tentativi inutili perché neppure profondi e reali, ora si apre forse un altro braciere ad occidente. 

Questo è uno scenario possibile, ma certo, se così fosse, sarebbe un vero disastro. Se i saharawi decideranno per la ripresa delle armi, il coinvolgimento di Algeria e Mauritania al loro fianco, contro il Marocco, sarà inevitabile. Dunque, non si sa dove potrebbe portare.

D’altra parte, se la risoluzione diplomatica perseguita per 30 anni non ha sortito alcun effetto, che cosa ci si aspetta? Che la gente rimanga a subire all’infinito? Se poi i saharawi riprendono la via delle armi, sicuramente molti saranno pronti a parlare di un “nuovo fronte terroristico” o un nuovo “fanatismo islamico”…!

Sicuramente! E tutti quelli che negli anni hanno sostenuto i saharawi, incluse le amministrazioni comunali, …diventeranno “amici dei terroristi”!!!

Eppure, si fa presto a dire “terroristi”. Ma se per 30 anni una lotta pacifica, politica, diplomatica, non ha portato a nulla, cosa si pretende che faccia della gente oppressa?

Perfino la religione cristiana sostiene il diritto a difendersi da chi ci opprime! Chissà perché “i grandi della terra” considerano difesa solo quella che compiono  loro, mentre per gli altri il diritto a difendersi e a lottare per la libertà non è contemplato, ma anzi diventa terrorismo.

Io credo che chiunque, proprio chiunque  vorrebbe fare a meno di imbracciare un fucile, o sedersi dentro un carrarmato, per poter un giorno vivere in pace. 

Già. Speriamo non avvenga, perché già il panorama mondiale è alquanto inquietante, senza aggiungere anche un altro conflitto, nel Magreb.

Un ultimo aneddoto?

Beh, …quando il console del Marocco (di sede a Bologna) ci ha aspramente accusati di essere “anti-marocchini”, perché difendiamo la causa saharawi! Ma è un’accusa facile da smontare. I marocchini presenti sul nostro territorio sono ben integrati. Noi, lo ripetiamo sempre, non siamo CONTRO niente e nessuno. Siamo A FAVORE, di qualcosa e di qualcuno. Del diritto dei popoli, innanzitutto.

   

Bambini saharawi nello studio del sindaco di Nonantola, Modena.

 

PARTE 5.  Incontro con il Dott. Omar Mansur,  Ministro della Salute

A cui ho semplicemente chiesto…il racconto della sua vita.

E' sera. Ha lavorato tutto il giorno ascoltando, come sempre, tante persone. Il suo ufficio, come l'intero ministero, ha sede dentro un paio di vecchi containers. Ma c'è l'aria condizionata, nonché rete telefonica, computer, tra poco ci sarà anche l'e-mail. Nel giardino, un piccolo orto e la parabolica: collegamento con il mondo. Non abbiamo limiti di tempo, e ho portato cassette in abbondanza. Possiamo parlare a 360°.

Sono nato nel 1953 a Dajla, nel Sahara Occidentale. E' una città su una penisola, una costa molto molto bella, e lì sono rimasto fino all'invasione del Marocco.

Dunque, sono nato e cresciuto durante la dominazione spagnola, e ho fatto i miei studi in spagnolo e arabo. Ho fatto le scuole a Dajla, fino alla maturità, poi per l'università sono andato a Tenerife, per un anno, e poi a Madrid, dove mi sono laureato in Giurisprudenza. Durante le vacanze tornavo sempre a casa, e viaggiavo molto nell'interno del Sahara occidentale, nel deserto. Mi piaceva molto viaggiare per conoscere il mio paese nell'interno, fino in Mauritania, dove erano dei parenti nomadi. Naturalmente, non ho mai visitato il Marocco, e fino al momento dell'esodo, non avevo mai conosciuto neppure l'Algeria.

Mi racconta alcuni ricordi della sua infanzia e giovinezza durante la dominazione spagnola?

A quell'epoca, dovevamo convivere con i giovani figli degli spagnoli,  e avevamo buoni rapporti effettivamente. Però siamo cresciuti con la consapevolezza, e con il dolore, dei limiti che questi compagni avevano nei nostri confronti, posti dai loro padri, che in gran parte erano militari. Anche se eravamo molto amici, non potevamo avere rapporti completamente liberi e tranquilli. Vi erano posti nei quali loro potevano andare, ma noi saharawi no.

Una sorta di apartheid? 

In parte, sì. Centri culturali e ricreativi, piscine… per noi non erano accessibili. Questo fatto, ha contribuito in maniera determinante, nel tempo, a rafforzare la coscienza identitaria, lo spirito di appartenenza saharawi.  La discriminazione esercitata su di noi dalla Spagna ha rafforzato enormemente il nostro spirito nazionalista. Noi eravamo amici dei ragazzini spagnoli, andavamo nella stessa scuola, me c'erano sempre delle differenze, e queste hanno rafforzato la nostra identità. Naturalmente c'erano anche grandi differenze economiche. Noi eravamo figli di funzionari locali, che avevano stipendi locali. I funzionari spagnoli venivano in Sahara con stipendi da espatriati, pari al doppio di quanto avrebbero preso nel loro paese.

Senza dubbio, una cosa che ricordiamo bene e che ci ha aiutato moltissimo nella nostra crescita come saharawi, è che nelle scuole coloniali abbiamo avuto degli ottimi insegnanti, uomini e donne. Loro sapevano riconoscere le nostre capacità intellettuali, e aiutarci ad andare avanti nella studio, e con alcuni di questi insegnanti abbiamo stabilito ottime relazioni, che si sono mantenute negli anni e continuano ancora oggi.

Un altro fattore che ha contribuito molto al consolidamento dell'identità saharawi è stato il tipo di amministrazione della colonia spagnola. Era un potere militare, e tutto ciò che faceva lo faceva con un obiettivo politico, che andava a due velocità: una per gli spagnoli, una per i saharawi. E un altro fattore ancora che ha inciso sulla nostra infanzia, è stata la presenza della legione straniera. La legione straniera non si mescolava mai ai saharawi, e anzi per qualunque motivo, se la faceva con loro. Questo è un aspetto che incide profondamente e inevitabilmente sulla sensibilità di un bambino,  indicandogli quindi poi un cammino anziché un altro. Cresci sapendo che devi sempre fare i conti con quella amministrazione, e che hai una presenza straniera occupante.

Certo ricordiamo con molto affetto anche relazioni con amici e amiche spagnoli, che hanno condiviso con noi quasi gli stessi sogni, e gli stessi interessi. Si giocava insieme su quelle splendide spiagge… Abbiamo quindi un insieme di ricordi belli e negativi, tipici forse di chi ha vissuto la colonizzazione, e che segnano la sua vita per sempre. La vita dei saharawi era povera, le nostre case erano povere. Tutto era difficile e faticoso durante l'epoca coloniale, e questo è un retaggio che la mia generazione in particolare, di quelli nati tra gli anni 40 e i 50, si porta dietro per sempre. E' la generazione che di fatto è stata destinata alla lotta per la libertà. Questa generazione ha avuto un'infanzia molto breve. Erano molti gli elementi che ti costringevano a pensare presto come un adulto, anche se eri ancora un bambino. Io partecipai al mio primo sciopero nel 1969, a 16 anni, contro un insegnante spagnolo che ci imponeva un metodo che non accettavamo. Praticava l'assimilazione dei saharawi alla spagnolizzazione. Voleva eliminare qualunque caratteristica della nostra cultura e del nostro modo di essere. Così facemmo la nostra prima rivolta. L'anno dopo ce ne fu un'altra e questo scatenò la reazione dell'amministrazione scolastica, e questo a sua volta determinò la nascita del movimento studentesco e la sfida degli studenti saharawi. Questi fatti, ti segnano la vita. Io fin da allora ricordo che siamo sempre stati impegnati per far valere il nostro gruppo, i nostri diritti, la nostra identità. Ed è una lotta che gradualmente prosegue, fino arrivare ad una coscienza sociale e di lotta politica.

Quando gli spagnoli se ne sono andati, vi aspettavate la Marcia del Marocco?

Sì, era immaginabile. Io credo che gli ultimi anni della presenza spagnola fossero la "cronaca di un'invasione annunciata". Il Marocco aveva già cominciato a reclamare il Sahara, e si capiva che era nell'aria qualche tentativo, anche dopo che il tribunale dell'Aia aveva dato il suo parere contrario alle richieste del Marocco.

Nel settembre del '75, il generale Franco aveva cominciato a stare male di salute, e questo ha aiutato il Marocco a fare maggiore pressione nelle sue richieste e rivendicazioni, nonché a preparare la marcia di invasione. Gli spagnoli erano in una fase di fragilità, perché la morte del generale poteva essere imminente, e questa avrebbe gettato il paese nel caos. Non potevano quindi permettersi una guerra con il Marocco per il Sahara occidentale, così pensarono bene di lasciare il territorio, e lo fecero nel  modo peggiore: con accordi segreti con Marocco e Mauritania nello stesso momento in cui si accordavano con noi. Lavoravano su due binari in contemporanea. Io all'epoca ero il Rappresentante generale dell'Unione degli Studenti saharawi che raggruppava studenti di vari livelli ma anche giovani lavoratori. Era dunque una grossa forza di mobilitazione, e facemmo una vasta opera d'informazione dell'opinione pubblica per prepararla  a qualunque tipo di eventualità e di evento. Dunque, sapevamo sì che l'invasione del Marocco era alle porte, e per questo cominciammo a fare opera d'informazione e a studiare delle forme possibili di evacuazione.

Fu un periodo di grande fermento, di grande mobilitazione. Tante associazioni aderirono alla nostra causa. Ma fu anche tutto molto doloroso, perché implicava la rottura con molti amici spagnoli. Ci si sentiva traditi dal governo spagnolo, pur avendo tanti spagnoli, che dovettero lasciare il Sahara. Speravamo che affrontassero la situazione con noi, al nostro fianco, ma pochissimi sono stati quelli che lo hanno fatto. E naturalmente il dolore fu anche perché con l'invasione marocchina cominciò la separazione delle famiglie. Vi erano persone infatti che non potevano fuggire, come gli anziani. Nel mio caso, mia nonna, mia sorella e un fratello sono rimasti a Dajla. Io e altri due fratelli partimmo alla guerra. Mio padre è venuto più tardi qui nei campi, altri familiari sono rimasti là, e non ci siamo più rivisti per anni, perché è assolutamente vietato, dal Marocco: proibito vedersi, proibito telefonarsi, proibito scriversi.

L'invasione e il conseguente esodo sono stati una pagina dolorosissima della nostra vita. Nella guerra, moltissimi nostri amici sono morti.

La reazione contro l'invasione fu totale, violenta, dura. Il Polisario era nato nel 1973, ed era sinonimo di saharawi. Non c'era nessun saharawi che non facesse parte del Fronte Polisario, se non per motivi di impedimento fisico.

Al momento della spartizione, dopo l'accordo segreto della Spagna, il 30 ottobre 1975, ci siamo svegliati e alcuni di noi erano mauritani, altri erano marocchini. Quelli di noi che cercavano la libertà, si sono ritrovati in una "No man's land". In mezzo al deserto, una terra di nessuno. Non c'era altro da fare che combattere, e stare uniti. Tutte cose che ti segnano la vita.

Chiunque noi, della mia generazione, non può parlare della propria vita senza parlare della lotta per la libertà. Raccontare la nostra storia personale significa parlare della storia del processo di liberazione del popolo saharawi. Non è possibile separare le due cose: la vita, e la lotta. Anche se naturalmente i gradi di intensità e di coinvolgimento possono essere diversi per ognuno di noi.

Ci siamo ritrovati nel deserto senza niente: senza armi, senza medicine, senza mezzi di trasporto. Niente!

Come è avvenuto l'esodo, come sono scappate le persone? Da qui alle città della costa sono 3-400 chilometri!

La gente è venuta con mezzi diversi. Qualcuno a piedi, fino a un certo punto, altri su camion, e comunque l'esodo non è avvenuto tutto in una volta. Non si pensava di arrivare in Algeria! Si pensava di lasciare le città, invase dai marocchini, ma poi di riconquistarle. Poi via via l'occupazione è avanzata, e noi ci siamo ritrovati spinti sempre più verso est, verso il confine algerino, per cercare posti più sicuri dove portare i civili e metterli in salvo.

Chi vi ha aiutato inizialmente, in quei primi tempi? Come avete trovato le armi per combattere?

Le prime armi ci furono date da alcuni ufficiali spagnoli in partenza, che stavano dalla nostra parte. Alcuni le consegnarono al Polisario personalmente. Al contempo ci fu l'appoggio dell'Algeria, che ci diede alcuni mezzi di trasporto. Poi le nostre prime azioni, sia verso l'esercito marocchino che quello mauritano, furono imboscate volte proprio a reperire armi. Per i primi due anni è stato così, attaccavamo i convogli militari sempre con questo obiettivo principale: recuperare mezzi per combattere. In una sola battaglia riuscimmo a prendere 39 mezzi blindati, nuovi! Li abbiamo ancora. Alcuni sono nel museo della guerra, altri sono qui in città, pronti ad un eventuale utilizzo.  Sono carri di produzione sudafricana, poi ci sono fucili e altri mezzi più sofisticati, che all'inizio non abbiamo usato molto.

Dott. Mansur, come avete fatto a mettere in piedi uno stato, qui, in mezzo al nulla? Una nazione con le sue strutture, con le sue istituzioni, partendo dal niente!

Eh sì, è stata durissima! Noi eravamo giovani… Già è difficile mettere in piedi un apparato statale in condizioni "normali", quando hai i mezzi e un'economia funzionante. Noi eravamo in mezzo al nulla. Scappati da casa nostra con quattro capre. Però era anche un'avventura straordinaria, che noi vivevamo insieme con tanta rabbia, con tanto coraggio, e con tanto orgoglio rispetto al Marocco. Volevamo assolutamente creare uno stato saharawi come contrapposizione all'invasione. In qualunque modo. Nell'ottobre '75 comincia l'invasione da parte del Marocco. Il 27 febbraio 1976 fu proclamato lo stato del Sahara. I membri del direttivo del Polisario si riunirono. Io in quanto Segretario generale dell'Unione degli studenti ero già parte del Polisario, clandestinamente, sotto la dominazione spagnola. Nel '76 ci siamo messi intorno a un tavolo e ci siamo detti "Bisogna creare uno stato saharawi!".

…Eravate tutti dei ragazzi!

Sì! 24, 30 anni… Massimo 35, non credo ci fosse neppure uno di 40! Altri erano più anziani ma non facevano parte del direttivo. Facemmo un'assemblea con tutti i notabili, cioè i rappresentati dei gruppi etnici tradizionali presenti nel Sahara. Abbiamo creato così un Consiglio Nazionale, che aveva la fiducia della popolazione, e con questo abbiamo realizzato il documento che proclamava la nascita dello stato. La direzione del Polisario ha poi designato il governo. In quel primo governo io fui nominato ministro dei trasporti. Iniziai iI mio ministero con 3 macchine! (ride e ripete: Con 3 macchine!).

C'era da fare tutto: organizzare la struttura, trovare i mezzi, garantire la sicurezza e la difesa dei civili, nonché fare informazione, affinché il mondo capisse le nostre ragioni.  E così…abbiamo cominciato a lavorare, su tutti questi fronti.  Senza mai smettere di lottare, per riconquistare i nostri diritti.

Ne avete fatto del lavoro!

Sì! Abbiamo lavorato tanto!

Ministro, in tutto questo percorso, in tutta questa lotta, portata avanti per tanti anni, lei sente l'eredità culturale dei vostri padri? I saharawi, fino a una generazione fa, erano beduini del deserto, nomadi e guerrieri. Persone abituate a combattere e a difendersi contro il nemico.

Sì certo. I saharawi sono sempre stati abituati alla guerra. Dal momento stesso in cui un bambino saharawi cominciava a distinguere le cose del mondo, trovava nella propria tenda le armi dei guerrieri beduini. Le armi, anche per noi, sono state tra i primi "giocattoli" conosciuti. Nella cultura beduina, tra i primi insegnamenti vi erano: essere un buon guerriero, sparare bene; al contempo,  essere molto ospitali, e avere un carattere aperto, perché nel deserto… se hai un carattere chiuso vivi poco! Noi siamo stati cresciuti con questi principi. I guerrieri saharawi hanno difeso per anni un territorio vastissimo contro l'invasione coloniale. (286.000 km2 ! ) Dal 1884, data di inizio della colonizzazione in Africa, il  Sahara è stato preso realmente dagli spagnoli solo nel 1934! Nel continente africano, i saharawi sono stati gli ultimi ad essere colonizzati, perché hanno combattuto sempre!   E gli spagnoli sono entrati  nella nostra terra attraverso un patto, non con le armi. E' stata una negoziazione commerciale, non un'invasione militare. (Negli anni 30 poi in Spagna c'era la guerra civile, che finì nel '36, quindi non era interessata ad aumentare la presenza militare in Sahara). Dunque sì, il sentirsi guerriero è un'identità forte che viene dal passato e dalla vita nomade. Così come viene dalla cultura del deserto anche la nostra concezione della donna.

La donna saharawi, proprio per la durezza della vita nel deserto, è una donna molto forte, che ricopre un ruolo fondamentale nella società, che per certi aspetti diventa quasi una società matriarcale. Il beduino sta sempre lontano, e lei diventa signora e padrona della sua tenda, responsabile della famiglia. Per questo, quando arriva la guerra, la donna saharawi prende in mano la situazione, mentre noi uomini siamo a combattere. La sua funzione per portare avanti la società in esilio, la sua funzione educativa, è stata quindi fondamentale, importantissima. Anche oggi, vi sono molte donne impegnate e coinvolte sia politicamente che professionalmente.

Insomma, possiamo dire che il popolo saharawi è un popolo pacifico, ma è un popolo... di pacifici guerrieri! Gente che ama la pace, ma capace di fare la guerra. Per questo, pur essendo un piccolo popolo, siamo riusciti a resistere fino ad ora, per 27 anni, contro un popolo di 28-30 milioni di persone, che non è riuscito a sottometterci né politicamente né militarmente. Questo la dice lunga sull'identità del popolo saharawi!

Già! Ma come mai il popolo saharawi ha caratteristiche così diverse, e così ben definite, sia rispetto agli altri popoli musulmani, sia rispetto ad altri popoli nomadi del deserto? Io ho lavorato in altri paesi musulmani, e non potevo immaginarmi tante differenze, venendo qui, anche solo nel vostro grado di accettazione delle differenze culturali, del modo di essere di noi stranieri, per esempio. Perché i saharawi non sono musulmani integralisti? Perché avete un modo di vivere e sentire la religione così diverso?

Il popolo saharawi ha origini curiose. E' uno strano mix di tre popolazioni: i berberi, gli arabi, gli africani. Questo cocktail si realizza in un luogo, il deserto, che fa sì che noi siamo sì musulmani, ma anche molto aperti, tolleranti, capaci di accettare le differenze. Noi per esempio riteniamo che il fondamentalismo sia una mal comprensione dell'islam e del libro sacro del Corano. Per noi l'islam non è diverso dal cristianesimo e dal giudaismo, per quelli che sono i principi fondamentali. Portano lo stesso messaggio, in lingue diverse.

Il saharawi non accetta intermediari nel suo rapporto con Dio. Crede in Dio, ma non accetta mediazione. Per questo la moschea per il saharawi non è un luogo granché significativo. Per noi, quando una persona vuole parlare con Dio, lo può fare in qualunque posto. Non c'è una "casa di Dio". Dio è ovunque, e se vuoi parlare con lui puoi farlo dove  vuoi: in casa tua, in mezzo al deserto,… Per questo noi non accettiamo nessun Imam, e non abbiamo luoghi obbligatori per il rito sacro. Abbiamo qualche moschea, ma se si va a vedere, ci sono poche persone, e quelle che ci vanno si sentono libere. Non ci vanno perché si sentono costrette dalla maggioranza. Certamente noi prima di costruire una moschea costruiamo una scuola, un ospedale, un centro per bambini handicappati,… Siamo religiosi, ma siamo liberi, e tolleranti.

Questa è anche una concezione molto laica, infatti poi le vostre scuole pubbliche sono scuole laiche, non sono scuole coraniche, come avviene in molti altri paesi.

La scuola coranica per noi è una libera opzione. Se vuoi studiare il corano sei libero di studiarlo, e di andare da un maestro del corano. A scuola no, alla scuola pubblica si fanno tutte le altre materie. Questo fa sì che i saharawi siano diversi: per la sua concezione della religione, e perché partiamo da un presupposto di rispetto dell'altro, della religione e dell'essere dell'altro.

Non vi coinvolgono dunque le "guerre sante"?!

No! Se tu sei cristiana, tu sei libera di fare la tua vita in terra saharawi. Nelle città del Sahara spagnolo, in tutte le città, vi erano chiese cristiane. Non vi è mai, mai stata una sola aggressione contro una chiesa cristiana. E neppure vi è mai stato un saharawi convertito al cristianesimo. Noi siamo per la convivenza pacifica, il rispetto, ma non accettiamo tentativi di conversione! Gli spagnoli in Sahara lo sapevano, e contrariamente a quanto avvenne in altre colonie, da noi gli spagnoli impedirono qualunque proselitismo religioso. Non vi erano missionari da noi. Vi erano sacerdoti, ma erano per gli spagnoli, e quando a scuola si faceva l'ora di religione, noi tranquillamente uscivamo dalla classe.

Abbiamo convissuto senza nessun tipo di problema, durante tutto il periodo della dominazione spagnola.

Abbiamo una diversa concezione della religione, così come abbiamo una diversa concezione della donna rispetto ad altri paesi mussulmani. Noi non abbiamo la minima idea di una ragione per la quale la donna dovrebbe essere sottomessa all'uomo!  Anche a scuola, bambini e bambine si siedono nello stesso banco. Per noi davvero è incomprensibile che in certe società mussulmane vi siano classi divise per sesso, o che addirittura le bambine non possano andare a scuola! E' molto più importante che maschi e femmine vadano a scuola insieme, che siedano nello stesso banco, e imparino a rispettarsi, anziché (come avviene) che ingannino genitori e maestri perché …si sa: il desiderio sta in ciò che non si può fare!

Anche questa saggezza psicologica e libertaria è per i saharawi di antica origine?

Sì! Tante cose si decidevano insieme, tra uomini e donne. Il  Consiglio dei 40, nella società tradizionale, era un consiglio di guerra, che quindi era riservato ai guerrieri. Ma le donne esprimevano le loro idee, al di fuori del consiglio, e venivano ascoltate.

Torniamo alla difficoltà di mettere su uno stato dal nulla. Io provo ancora fascino al ricordo di quando si parlava del Fronte Polisario, in Italia, nei primi anni della guerra. Era una causa coinvolgente, che ci prendeva più di altre, che forse numericamente erano più grandi della vostra, e più conosciute. Mi viene da chiedere come avete fatto ad essere degli ottimi "pubblicitari", a far conoscere così bene la vostra causa, mandando dei rappresentanti in molti paesi, al punto da riscuotere una solidarietà enorme, che vi ha garantito la sopravvivenza in tutti questi anni. Perché è stata, ed è, così amata la causa dei saharawi?

Credo che questo si debba al fatto che noi fin dall'inizio abbiamo presentato la nostra lotta come una lotta di liberazione nazionale. Non era una causa di sinistra, né di destra. Non ci siamo legati a una bandiera o a un'altra, non abbiamo sposato un campo per escluderne un altro. Questo ci ha reso graditi ai più. Ci siamo presentati semplicemente come un popolo aggredito, alla ricerca di riconquistare i propri diritti. Un popolo senza altri nemici. La percezione da parte dell'opinione pubblica internazionale è quindi quella di un popolo che lotta per dei diritti calpestati, non per una ideologia che vuol fare prevalere. Tra di noi abbiamo ideologie diverse, ma un fronte comune, che è quello patriottico. In questo modo abbiamo avuto molto appoggio e molta solidarietà, sia in Europa che in Africa. Noi siamo un popolo invaso.

La maggior parte degli aiuti però, per diverso tempo, non è arrivata dal blocco sovietico?

No, il blocco sovietico non ha dato alcun aiuto diretto ai saharawi. Non abbiamo avuto una rappresentanza a Mosca fino a dopo gli anni della Perestroyka. E neppure in altri paesi europei socialisti, a parte la Yugoslavia. Noi eravamo più vicini all'approccio del non-allineamento. La Russia esigeva allora, per sostenere i movimenti di liberazione, che seguissero una linea comunista. Cosa che non abbiamo scelto. L'aiuto lo abbiamo avuto principalmente dall'Algeria, che era vicina ai paesi socialisti, ma non abbiamo mai avuto nessun appoggio diretto dall'Europa orientale in periodo comunista. Certo, hanno appoggiato la risoluzione dell'Onu per il diritto all'autodeterminazione del popolo saharawi.

Diverso è il discorso della relazione con Cuba. Questa relazione, come con il resto dell'America Latina, viene dal fatto che il Saharawi è l'unico paese arabo di lingua spagnola. E questa è un'altra delle nostre peculiarità. La relazione con Cuba è quindi nata principalmente su basi linguistiche, e solo in un secondo tempo Cuba ha "scoperto" l'importanza del nostro movimento, e ci ha aiutato. L'aiuto di Cuba è stato i due forme fondamentali: l'invio di medici, e la formazione dei nostri giovani nelle sue scuole. Mai, mai ha fornito aiuto militare.

Mentre i paesi socialisti non riconoscevano la Repubblica saharawi, Cuba sì, la riconosceva, e aprimmo un'ambasciata. Lo stesso per la Yugoslavia, e per il Vietnam.

E i paesi arabi?

Lo stato indipendente del Sahara è stato riconosciuto solo dalla Siria, dallo Yemen, la Libia e naturalmente l'Algeria. Dopo l'ingresso della RASD nell'OUA, abbiamo avuto relazioni migliori anche con l'Egitto, il Sudan, ecc. Certo gli altri paesi, le monarchie, o gli Emirati Arabi, non hanno riconosciuto la Repubblica Saharawi, anche se riconoscono i nostri diritti, fondamentalmente per non creare tensioni con la monarchia marocchina. Ma di fatto anche loro appoggiano il piano di pace delle Nazioni Unite. Insomma, è una situazione molto delicata. Ma del resto, anche noi non abbiamo mai tentato di porre la nostra lotta all'interno del contesto arabo, come ha fatto la Palestina (cosa che noi consideriamo un errore). Non è un lotta "degli arabi". E' una lotta dei saharawi, ed è una lotta per l'affermazione del diritto internazionale, non è una lotta razziale, né religiosa o etnica. E' una lotta per la libertà e contro la colonizzazione. E' quindi una lotta di tutti. Noi non andremo mai a cercare di porre la nostra lotta all'interno della Lega Araba. Mai! E quando poi avremo conquistato la nostra libertà e indipendenza, vedremo bene se sarà il caso di entrare o meno nella Lega Araba. Perché se abbiamo passato tutta una vita senza un minimo pronunciamento della Lega in nostro favore… non si vede per quale motivo dovremmo entrare a farne parte!

Veniamo al periodo del referendum. Lei ha partecipato all'identificazione degli aventi diritto al voto. So che è stata un'esperienza molto dura e dolorosa per lei. La vuole raccontare?

Sì, dunque… Noi abbiamo accettato il referendum come soluzione politica, dopo molte pressioni. Negli '70, noi avremmo potuto chiudere la questione vincendo la guerra. Il Marocco era in una situazione molto difficile, ci furono vari colpi di stato, e noi ricevemmo pressioni affinché ci ritirassimo, perché se il re fosse caduto a quel tempo, ci saremmo ritrovati nel paese un regime militare. Questo, con la promessa di aiuto di una soluzione pacifica. Accettammo la proposta, aspettando che il Marocco si ritirasse dal conflitto e riconoscesse i nostri diritti. Nel 1981 Hassan II si pronuncia a favore del referendum, ma è da allora che si produce l'incendio sulla questione del censimento dei saharawi aventi diritto al voto. Il processo di pace comincia nel '91, e noi pensavamo tutti che il referendum si potesse realizzare in sei mesi-un anno. Cosa ci voleva? Non è tanto difficile fare il conto dei saharawi: noi ci conosciamo tutti, per nome e cognome! Ma il Marocco non voleva accettare il referendum, perché voleva un risultato diverso, così ha cercato di falsificare i dati. E il processo di identificazione si è realizzato solo nel '95!  Cinque anni per mettersi d'accordo sulle regole di definizione per l'identificazione dei votanti!!!  Nel '98 il censimento era terminato: c'era la lista dei saharawi aventi diritto al voto, fatta con le Nazioni Unite, insieme agli onnipresenti osservatori Onu. Niente. Il Marocco non ha accettato questa lista. Tre anni di lavoro per niente, perché la lista non conteneva la popolazione che il Marocco voleva includere, al fine di vincere il referendum!

Com'è andata nei territori occupati?

A El Ajun eravamo 3 membri del Fronte Polisario (oltre a me, il capo della Sicurezza Saharawi, Mohamed Wali, ed un tecnico); poi vi era un vecchio notabile, un osservatore marocchino e uno delle NU.

Per noi è stato molto interessante rivedere il nostro territorio, e ci sentivamo anche orgogliosi di essere lì, rappresentanti della nostra lotta. La gente veniva a salutarci, a toccarci, quasi fossimo profeti!

E' vero che non potevate avere relazioni con nessuno?

Sì, è vero. La gente si avvicinava al centro delle Nazioni Unite, salutava, e tirava dritto. Se possibile, ci passavamo velocemente dei biglietti di messaggi, o anche solo con dei saluti.

Evidentemente il Marocco aveva paura che noi potessimo diffondere idee rivoluzionarie! Dare informazioni, stimolare azioni,…  Avevano molta paura, sicuramente! Ed è la tipica paura di un paese che ne ha occupato un altro.

Dentro al centro delle NU ci si poteva scambiare qualche parola, ma non granché, perché la gente era intimorita. Noi fuori dal centro non potevamo fare praticamente niente, e per muoverci eravamo sempre sotto la sorveglianza della polizia marocchina. Non potevamo fermarci  in nessun posto, né potevamo salutare, o tanto meno far visita a parenti o conoscenti. E' stato molto doloroso.

Ho passato 3 mesi a Dajla come osservatore, e ogni giorno, ogni giorno io passavo davanti alla casa dove sono nato, dove vive ancora gran parte della mia famiglia. Il centro era da un lato della piazza, la mia casa dalla parte opposta. Per tre mesi ci sono passato davanti tutti i giorni, e non ho potuto mai fermarmi. I miei familiari mi salutavano dalla finestra, nient'altro.  Erano sempre alla finestra, alla stessa ora, per vedermi passare. Questo rende un'idea di cosa è il regno del Marocco, e la sua politica! Cosa poteva esserci di "pericoloso" nel salutare parenti che non rivedevo da vent'anni?  Il Marocco è un invasore, è un occupante insicuro, senza sentimenti umani. Questo è stato uno dei gesti più assurdi che ha commesso. In quella casa c'era mia nonna, che era vecchia, e non camminava più, non poteva venire al centro dell'ONU. Ora è morta. Io per tre mesi sono passato davanti a casa sua, senza poterla salutare. Se n'è andata con questo dolore: non hanno lasciato neppure che io entrassi a salutarla. Per 3 mesi!

Come vivono i saharawi nei territori occupati? Voi qui siete in mezzo al deserto, ma siete liberi. Loro non vivono come prigionieri in casa loro?

Durante l'identificazione dei votanti, io ho rivisto mio fratello, che non vedevo da anni.

Lui ha 10 anni meno di me, e a rivederlo, non ho potuto non notare il suo profondo invecchiamento. Capelli bianchi, faccia rugosa… Nessuno delle NU credeva che fosse più giovane di me. Gli ho chiesto come mai fosse cambiato così tanto, se era successo qualcosa di grave che non sapevo… Mi ha risposto piangendo. Senza dire nulla. Solo, piangendo come un bambino.

Noi qui ci sentiamo liberi, e lottiamo per i nostri ideali. Là vivono prigionieri, senza potersi esprimere o poter incontrare la loro gente.

Hanno il passaporto? Possono chiedere visti per uscire dal paese?

Ultimamente hanno dato ad alcuni la possibilità di uscire dal paese, ma non tutti possono avere il passaporto marocchino. Quando lo chiedono, possono avere risposta positiva o negativa.

Hanno una carta di identità, e su questa carta c'è scritto un numero di riconoscimento - come nel regime di apartheid - diverso da quello degli altri marocchini. Così se un agente ti ferma vede subito che sei "di serie B", perché sei saharawi. Proprio come poteva essere l'identificazione degli ebrei, che erano "diversi", e dovevano essere riconoscibili.

E' quindi un popolo che vive in una condizione di terrore. Dopo la guerra contro il Marocco, sono scomparse più di 700 persone. Senza nessun motivo. Desaparecidos. Molte si è detto che fossero morte in un incidente con un camion, ma guarda caso… non si trovano mai i resti di questi incidenti. Né i camion, né gli autisti dei camion… Tutti i saharawi più impegnati, quelli che avevano problemi con il governo marocchino, sono scomparsi. Ci sono poi moltissimi che sono in carcere da anni, e vi sono i casi di donne arrestate mentre erano incinte, che hanno partorito in carcere, e i loro bambini sono cresciuti lì, tra quelle mura, per anni, senza conoscere niente altro. Alcuni sono usciti che erano degli adolescenti, e non avevano idea di cosa vi fosse fuori. Non conoscevano il loro padre né altri parenti.

Famiglie intere sono finite in carcere al minimo sospetto. La popolazione nei territori occupati è assolutamente indifesa, soffre pressioni, violenze, ricatti senza fine. Un marocchino può svolgere qualunque attività commerciale e ricavarne i relativi guadagni. Un saharawi no. Lui è sempre sotto controllo, anche negli affari commerciali.

Nei territori occupati le organizzazioni di solidarietà non possono andare a portare aiuti, Amnesty International non ha accesso. Neppure la commissione delle NU per i diritti umani a potuto entrare in Sahara Occidentale!  Ultimamente, Danielle Mitterrand non ha avuto il visto del Marocco perché considerata "persona non grata", per la sua posizione dichiarata nei confronti della nostra lotta.

Tutto ciò è assolutamente inumano, e mostra come il Marocco non si preoccupi minimente di rispettare gli accordi presi in ambito internazionale.

Questo purtroppo sappiamo che avviene in tanti altri paesi, dove i diritti umani sono calpestati violentemente (pensiamo alla Turchia verso i curdi..) o dove gli accordi firmati diventano carta straccia (come tra Israele e Palestina…).

Sì, ma suona davvero come un enorme paradosso! L'Europa fa tanti discorsi in difesa della democrazia, della giustizia, dei diritti umani… e poi accetta una connivenza con governi del genere!

…è la solita legge del mercato… Pensiamo al caso della Cina, e a come ci siamo dimenticati in fretta di piazza Tienammen, pur di avere un miliardo di potenziali clienti…

Sì. Il mercato ha più potere della libertà.

Ministro Mansur, come vedete il futuro? Il Marocco non cederà mai i territori occupati del Sahara Occidentale. Ha mandato famiglie intere di coloni pur di farlo diventare suo! Come pensate di potervene riappropriare?!

No, non bisogna mai pensare che le cose non possano cambiare. Tante cose inattese sono avvenute negli ultimi decenni… Non sembrava possibile che gli spagnoli lasciassero il Sahara, come non sembrava che i francesi lasciassero l'Algeria. Non sembrava possibile che finisse l'apartheid in Sudafrica…

...o che crollasse il Muro di Berlino, quando è crollato

Per esempio! … o che si arrivasse alla libertà per Timor Est, dopo tanti anni di guerra.

Noi abbiamo raggiunto risultati importanti. I nostri diritti sono stati riconosciuti e abbiamo appoggio a livello internazionale. Abbiamo un esercito, con cui abbiamo fatto una guerra, e questa guerra ci è servita per fare un'esperienza amministrativa importante, per la gestione di un paese. Attualmente la soluzione è chiara: non c'è che farla rispettare. Può essere rispettata per via pacifica, da parte delle NU e delle potenze europee. E se questa non verrà realizzata, come i saharawi hanno lottato in passato, lotteranno ancora, se sarà necessario, senza paura. Non sono necessarie molte armi per fare guerra al Marocco! Noi sappiamo come farla. Conosciamo il nostro territorio e possiamo fare una guerra anche molto costosa per loro, e molto economica per noi. Lo abbiamo fatto contro Hassan II, che era un uomo molto intelligente, machiavellico, con molti amici, e che ha diffuso la paura in tutto il suo paese. Possiamo farlo anche contro il giovane Mohamed VI, che non il carisma paterno, mentre ne ha tutti i difetti!  Non ha alcun consenso nel suo paese. Per lui una guerra contro i saharawi, anche molto breve, sarebbe fatale.

Se dunque non ci sarà la soluzione pacifica che noi abbiamo auspicato in tutti questi anni, noi torneremo a fare la guerra. E non saranno necessari tanti mezzi per mettere il Marocco nel panico. Noi aspettiamo una soluzione pacifica, ma se questa non arriva, per tutto il mondo sarà chiaro che noi abbiamo fatto tutto il possibile, e che se ritorneremo alla lotta armata sarà perché non vi era più un'altra possibilità.

Gli attuali tentativi per far rientrare i saharawi in una federazione marocchina sono assurdi. Solo chi vuole scatenare un conflitto generale in Marocco può volere una soluzione simile. Il Marocco ha già tanti problemi, con i berberi, con i fondamentalisti, … perché aggiungerne un altro?! Si vuole creare un'altra frantumazione come in Jugoslavia? Non credo!  Per la Francia è molto difficile non assecondare i desideri di Mohamed VI. Ma se Chirac tiene tanto a lui, perché non gli regala la tour Eiffel ?! Vuole regalargli i saharawi! E' come condannarli a morte!

La comunità internazionale, e la Francia in particolare, non pensano realmente a cosa sia meglio per i saharawi e per il Marocco. Forme di convivenza federale sarebbero mortali anche per la monarchia marocchina, così come i grandi stati africani, mal gestiti, mal governati, sono diventati delle catastrofi incredibili.  E grandi grattacapi per la comunità internazionale.

Perché continuare così? E' interesse di tutti, anche dell'Europa, creare le condizioni per un buon governo di paesi piccoli. Ci sono tanti esempi di piccoli paesi, in America Latina, in Asia, in Africa, in cui è stato possibile realizzare governi di buona gestione, in cui si è sviluppata una democrazia dinamica,  mentre tanti grandi paesi sono stati fallimenti amministrativi totali: Zaire, Sudan, Angola, Argentina,… La comunità internazionale dovrebbe riflettere su questi esempi e favorire la crescita di paesi piccoli, come sarebbe per il popolo saharawi, che è aperto e pragmatico, con una sua democrazia e un potere economico, anziché metterlo tra le fauci di un altro paese, che lo distruggerebbe. I saharawi non sono certo disposti a vivere come cittadini di 3° categoria in un paese dove già quelli di 1° categoria preferiscono buttarsi in mare per tentare di approdare in Europa!  Perché non ci vanno i francesi a vivere in Marocco?!?!

Questo è ciò che la comunità internazionale deve capire. E se non lo capisce lo capirà. E se non verrà compreso con il dialogo e la pace, noi riprenderemo la lotta. Ma l'obiettivo è di ritornare nel nostro paese, e da persone libere e indipendenti.

Sig. Ministro, la vostra gente però sta pagando, e da anni, un prezzo altissimo per tutto questo. La sua generazione ha fatto la guerra, ma voi almeno avete vissuto la vostra infanzia a casa vostra, nelle vostre belle città sul mare, relativamente liberi, anche se sotto il dominio spagnolo. I giovani nati qui, o venuti qui da piccoli, non hanno conosciuto quella libertà, sono cresciuti nel deserto, e negli spazi limitati dei campi per rifugiati. In molti casi hanno conosciuto l'esperienza traumatica dell'essere mandati lontano per studiare, e adesso pagano un altissimo prezzo psicologico ed emotivo. Mi chiedo se potrebbero avere la forza necessaria per riprendere una lotta, così come avete fatto voi. La vostra generazione ereditava direttamente dai vostri padri lo spirito guerriero dei vostri padri. Non è così per questi ragazzi, nati da una popolazione già a sua volta traumatizzata, sedentarizzata, urbanizzata. Ora, la domanda la rivolgo a lei anche in quanto ministro della salute. Non le sembra che questa generazione sia molto provata, stanca, stanca dentro? Non ha la forza che avete avuto voi anche se ha la stessa fierezza, forse non ha la stessa determinazione.

Io credo che sia faticosissimo crescere qui, ancor più poi per quei tanti giovani che da piccoli sono stati sradicati per studiare lontano. Penso a quelli che hanno passato tanti anni in un posto così diverso come è Cuba! Lì sei sul mare, ti diverti, balli, sei libero, in tutti i sensi. Poi vieni sradicato un'altra volta, dopo anni in cui hai costruito la tua vita, la tua giovinezza, e ti ritrovi qua, un'altra volta. In mezzo al deserto. Non so, ma credo che ci sarebbe davvero motivo sufficiente per uscire pazzi! Non pensa, come persona e come ministro, che sia una realtà con cui dover fare i conti? E' una generazione figlia dell'esodo, di genitori sconvolti dalla guerra, che ha vissuto un doppio trauma, e si ritrova a vivere in un posto …dove non si sta proprio meravigliosamente. Sono in mezzo alla sabbia. Non possono certo ricaricarsi andando al cinema o a ballare, …

Sì, è vero che noi abbiamo ereditato per via diretta la forza dei nostri padri. Però io credo che anche i trentenni di oggi, nati durante la guerra, siano giovani che sentono la guerra, anche se da essa sono stati segnati. Alcuni hanno certamente più difficoltà perché quella guerra ha imposto loro un doppio esodo, ma io credo che proprio per essere nati in guerra, questi giovani sono molto legati alla loro libertà.Credo che se ora si vede che essi vivono un periodo di confusione, è perché allo stato attuale non siamo né in pace né in guerra.

Quando c'è stato bisogno di unirsi e fare fronte comune, ho visto questi ragazzi tornare con determinazione, dall'Algeria, da Cuba, … Loro combinano la forza guerriera che abbiamo nel sangue, con la conoscenza tecnologica moderna. Lo stato attuale di confusione e di incertezza porta molti giovani alla ricerca del cammino da compiere. Emigrare? Restare qui? Entrare nell'esercito? Che studi fare? Cercano quale sia il sistema di vita più coerente con i loro ideali. Ma io non dubito che se si crea una situazione di maggior tensione con il Marocco, questi ragazzi tornano qui a combattere, e sono meglio di noi. La nostra paura, piuttosto, è che proprio questa situazione di confusione e di stallo finisca per spingerli verso scelte sbagliate, personali, non canalizzate dal Fronte Polisario. Questa infatti è la situazione tipica in cui facilmente si infiltrano i movimenti fondamentalisti e il terrorismo, soluzioni radicali, e azioni imprevedibili per noi.

Certo, poi vi è una depressione diffusa, che è difficile da reggere, su tempi lunghi…

Questo ci crea inquietudine, nonché la difficoltà per il Fronte di tenere tutto sotto controllo, e al contempo arrivare ad una soluzione, in un modo o in un altro! La gente è stanca, e delusa, per tutte le promesse non mantenute delle Nazioni Unite. Per questto è arrivato per noi il momento di separarci dalle forze UN. La gente qui, ormai, i militari delle NU li chiama VU, Vacanze Unite! La loro presenza qui ormai è inutile. Sono ben pagati, non corrono rischi, hanno frequenti vacanze per tornare a casa… O fanno qualcosa di utile, o se ne vadano, e noi ci troveremo faccia a faccia con il Marocco!

Questo è ciò che sente la gente adesso. La delusione dovuta al referendum che non si è realizzato, dopo anni di attesa, dopo tanto lavoro fatto e miliardi spesi per organizzarlo, ha posto la gente in uno stato di apatia e di confusione, da cui sta cercando come uscire.

La nostra paura dunque non è che i giovani abbandonino la lotta, quanto piuttosto che scelgano soluzioni estreme per portarla avanti. E questa è una paura giustificata poiché sappiamo che molti tra questi giovani non hanno paura per la loro vita. Questa generazione è nata nella guerra, ed è abituata alla vita nel deserto. Noi siamo nati vicini al mare, loro nella sabbia, e per loro questo è un ambiente naturale. Quando la temperatura qui tocca i 50° C, io non posso neanche uscire dall'ufficio! Loro riescono anche a giocare a football! Quando qui ci sono zero gradi, loro sono capaci di uscire scalzi! Io …se non sono obbligato, non esco di casa con zero gradi, credimi!

Loro dicono che noi siamo "poveretti" quando ci vedono che non riusciamo a reggere il clima del deserto! Quando abbiamo allenamenti militari, davvero ci si rende conto della loro forza fisica, rispetto a noi. Non sento né il caldo nel freddo, posso andare avanti per ore. Possono stare nel sole ad aspettare un mezzo, per ore, tranquilli!

Loro sono nati in piena guerra, in condizioni difficili. Per questo, sono estremamente forti.

Se 20, 30 anni fa si fossero risolti i problemi della Palestina, oggi non avremmo né Hamas, né hesbollah, né intifada… Quando poi questi movimenti sono nati, è ben difficile la via del ritorno. E la scelta armata rimane per sempre nel destino di un popolo. Per questo, i problemi bisogna risolverli quando è il loro tempo . Non si può far passare anni, lasciando la gente in balia di essi, con la propria sofferenza. Oggi qui in saharawi la soluzione del problema è davanti a noi, sulla carta. Occorre solo far rispettare le risoluzioni dell'ONU. Non ci sono più blocchi contrapposti, si tratta solo di questioni di giustizia. Di diritti elementari, di base. Bisogna che questi diritti umani elementari siano fatti rispettare, e che si pervenga ad uno stato democratico, prima di arrivare a soluzioni estreme. Altrimenti si diffonde inevitabilmente un sentimento di rivalsa: contro gli altri, contro l'occidente, contro tutti.

Avete quindi delle strategie, o delle azioni in programma, per tentare di prevenire scelte del genere tra i giovani?

Cerchiamo di creare alcune alternative per impegnare i giovani: centri di formazione professionale, attività ricreative e culturali, in modo da aiutarli a farli sentire meno soli e meno sconfitti, fintanto che si aspetta una soluzione definitiva ai problemi politici.

Allora anche gli aiuti internazionali dovrebbe attivarsi in tal senso?

Sì, certo, sarebbe molto importante!

E avete contributi per programmi di questo tipo?

Molto limitati. Unicef per esempio non fa nulla in questo ambito. Unione Europea aiuta solo in piccole iniziative di formazione professionale, con una scuola per infermieri. Nient'altro.

Va bene, farò un appello!

E' da ore che chiacchieriamo, il ministro Mansur ed io. E' un uomo colto e affascinante, che ama raccontare e farsi ascoltare, con il quale si potrebbe continuare ancora a lungo. Ed è lui che chiede a me "Altre domande? Cos'altro vuole sapere?" ridiamo. Come sempre, trovo talmente bello ascoltare le storie di vita che non mi fermerei mai. Parliamo della cultura tradizionale, del mondo nomade, per la cui scomparsa io soffro tanto quanto soffro per la scomparsa del mondo contadino in Italia, del quale a malapena ho conosciuto l'odore, negli anni '60, poco prima che gli ultimi superstiti lasciassero l'Appennino tra Bologna e Pistoia, per diventare gente di città. Gli parlo degli incontri con i vecchi beduini, nei giorni scorsi. Lui mi parla di come raccoglie le testimonianze di suo padre, e le scrive, consapevole del sapere che porta. Suo padre ero uno sceicco, un capo tradizionale, quando i saharawi erano ancora divisi nelle tribù rappresentate dal Consiglio dei Quaranta, ed ora che ha 80 anni continua ad essere un membro del consiglio legislativo della RASD. "Ora non ho tempo per scrivere - mi dice - prendo solo delle brevi annotazioni, e le lascio dormire, ma quando avrò più tempo le riprenderò in mano, un giorno". Mi parla di ricerche antropologiche svolte dall'Università di Girona, e delle difficoltà di portare avanti attività culturali, perché non vi sono finanziamenti e soprattutto quadri preparati in questo campo. Mi parla - con fierezza paterna - di sua figlia adolescente, che fa il liceo classico in Italia, "ed è brava, e anche lei ama scrivere, a ha partecipato a concorsi di poesia". Si vedono circa una volta all'anno, come avviene per quasi tutte le famiglie saharawi, che hanno i figli lontani, per offrire loro qualcosa di buono. La figlia del ministro ha potuto usufruire della solidarietà di una famiglia italiana, che l'ha presa a vivere con sé nel 1995, in provincia di Pisa, offrendole così la possibilità di studiare nel nostro paese. E in Italia collabora alla lotta della sua gente, aiuta ad organizzare i viaggi dei bambini in estate, e ama suo padre come si ama un papà lontano… che diventa un mito!

…Bello. Sono tra l'estasiato e lo sgomento. Non so che dire. Bravi. Mi chiedo cos'avrei fatto io in una situazione simile. Ventisette anni,… sono tanti. Circa i tre quarti della mia vita…

Spero di rivedervi, di tornare qui un giorno, e camminare ancora tra questo meraviglioso deserto. No, non lo dovrei dire. Per rivedere questi amici, devo sperare piuttosto di andare sulle rive dell'Atlantico, nelle loro città liberate. Senza spagnoli, senza marocchini. Per la prima volta, senza dominatori. Senza dominati.

Ci sarà mai un mondo di giustizia per tutti?

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RIFLESSIONI

di Hamdi Khandoud, vice rappresentante del Fronte Polisario in Italia.

 

Silvia Montevecchi è stata, ha visto, ha promesso. Ha voluto farsi  porta-parola di coloro che, per lei, sono divenuti amici, fratelli, sorelle, perché ha vissuto i loro dolori, le loro tristezze, i loro sacrifici, attraverso le loro storie.

Silvia che si rende cittadina del mondo, portavoce di coloro che non hanno accesso ai grandi media (le tv, le parabole, le grandi testate,…) e che è riuscita a trasmettere la realtà del popolo saharawi, e soprattutto a mantenere le promesse fatte: a Hamdi, a Mbarka, a Ibrahim,…

Grazie alle storie di ciascuno di questi, la scrittrice ha tracciato la storia del nostro popolo e della sua lotta durante il periodo coloniale, con gli spagnoli, e soprattutto ha fissato il dolore, le sofferenze, i sacrifici, durante l’invasione marocchina.

Al contempo, Silvia ha messo in evidenza l’esperienza politica democratica del popolo saharawi, e la sua determinazione a riprendere il Diritto che è stato riconosciuto e confermato a più riprese dalla comunità internazionale (Unione Europea, Onu, OUA,..).  Ha marcato il cammino del popolo saharawi fino al presente e al futuro, mettendo l’accento sulla cultura stessa dei saharawi, la sua origine nomade, che ha mostrato un alto grado di civiltà, permettendo una lotta senza terrorismo, nonviolenta, con una ricchezza di apporti culturali (arabo, musulmano, spagnolo, cubano, europeo,…) . Una cultura, un popolo, che per 30 anni ha saputo sopravvivere dando un proprio posto alla figura della donna, a quella degli anziani, a quella dei giovani: tutti membri attivi di un popolo che ha creato una rete di solidarietà civile nel mondo intero, dall’Algeria, alla Spagna, all’Europa, a Cuba, agli Stati Uniti e Canada,…

Infine Silvia, attraverso i suoi scritti, ha presentato il popolo Saharawi, la RASD, il Fronte Polisario, come un esempio di lotta pacifica, di tolleranza. Soprattutto un popolo che accetta gli altri, e che dagli altri vuole essere rispettato.

Speriamo tutti che gli sforzi di questo popolo, lontano dai grandi media, potranno avere l’esito di farlo ritornare alla propria terra: il Sahara Occidentale, occupato dal Marocco.

Il Marocco è responsabile di questa crisi che da decenni sconvolge il Nord Africa, ostacolando profondamente l’unione dei popoli del Magreb. Crisi che impedisce la pace e la stabilità del Mediterraneo.

Per quanto riguarda il Sahara Occidentale, la risoluzione del 31 luglio 2003 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che approva la richiesta di Baker  - dare il territorio ad un governo eletto tra i saharawi identificati come elettori dall’ONU per un periodo di 4-5 anni per poi arrivare ad un referendum di autodeterminazione – NON è stata approvata dal Marocco, che anzi la rifiuta, CON L’APPOGGIO DELLA FRANCIA. Al contrario degli altri paesi coinvolti dal conflitto - Algeria, Mauritania, Spagna – i quali concordano di discutere tale risoluzione.  Entro l’ottobre 2003, il Consiglio di sicurezza dovrà pronunciarsi su delle misure definitive per uscire da questo impasse decennale. Al contempo, tanta carne è al fuoco: l’Assemblea Nazionale del Fronte Polisario, che dovrà decidere sulla linea da tenere in futuro, ma anche le elezioni negli Stati Uniti, che potranno portare ad un cambiamento delle relazioni.

Ma la questione fondamentale è: cosa vuole il Marocco?  Dopo aver invaso il Sahara Occidentale nel 1975, malgrado le risoluzioni dell’Onu; dopo avere rifiutato il Piano di pace delle Nazioni Unite; dopo avere rifiutato il referendum per l’autodeterminazione dei saharawi; dopo avere rifiutato tutte le proposte di Baker…. Cosa vuole fare il Marocco?

La risposta, deve venire ormai dalla comunità internazionale, soprattutto dai membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che sono i responsabili del mantenimento della pace e di far rispettare il diritto dei popoli all’autodeterminazione. Ma maggiormente la risposta deve venire dalla Francia, che ha una responsabilità storica e morale enorme su tutto il Magreb e il Nord Africa.

Solo quando la crisi del Sahara Occidentale sarà definitivamente risolta, noi potremo davvero parlare di libertà vera in questa regione, e di cooperazione e stabilità nel Mediterraneo, e tra Nord e Sud.

Grazie dunque a Silvia Montevecchi per il suo libro, e a tutti coloro che nel mondo intero hanno dato il loro contributo per far conoscere la lotta del nostro popolo e sono stati a fianco dei saharawi per realizzare il loro diritto alla libertà e alla pace.

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Bibliografia

I titoli sul popolo saharawi non sono pochi, ma purtroppo sono pochi quelli che ormai si trovano in libreria, essendo i più già esauriti, o distribuiti a suo tempo soprattutto nel mondo dell’associazionismo.

Si veda, tra gli ultimi usciti:

-          Aniello Barone, Saharawi, la terra sospesa, Electa 2001

-          Carmen – Cladellas, Fiabe saharawi, Emi, Bologna, 2002

-          Comune di Sesto Fiorentino, Il volo della piana: il viaggio di un gruppo di studenti in visita agli accampamenti saharawi,  Sesto F.2001

-          Umberto Romano ha scritto vari libri e romanzi sui saharawi, tra cui Rabbia di Sabbia, Mangone, 2000

   

Siti web

Sono numerosissimi, naturalmente. Oggi sul web si trovano milioni di informazioni, che un tempo richiedevano anche mesi di ricerche. Ecco alcuni tra i tanti indirizzi disponibili.

-          www.arso.org  è l’associazione di sostegno al referendum. Vi si trova, fra l’altro, il testo della Costituzione della RASD

-          www.saharawi.it  la rappresentanza in Italia

-          www.rocknowar.it  musica per la solidarietà, del gruppo modenese

-          www.riodeoro.it  associazione di solidarietà

-          www.saharawi.tk  associazione ligure di solidarietà

-          www.celiachia.it  interventi per bambini affetti da celiachia, informazioni anche sui saharawi

-          www.scuolecascinesi.it  accoglienza dei bambini saharawi durante l’estate


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E io…non so mai cosa fare. Certo,
questo deserto è bellissimo. …Una parte di me
vorrebbe vivere senza radici.
Più che nomade, randagia. Senza pormi domande.
Senza, tanto meno, cercare risposte.
Vivere per vivere. Per conoscere, incontrare, annusare.
Sorridere, ridere, amare, giocare, divertirsi. Questa è la vita.
La vita è qui, adesso. La vita è nell’ incontro.
 

S. Montevecchi, dai taccuini  di viaggio

   

L’autrice di questa raccolta, nata a Bologna nel 1962, è pedagogista, educatrice specializzata nell’integrazione dei bambini con handicap. Scrittrice, fotografa, viaggiatrice e cooperante internazionale. Ha lavorato a lungo in paesi africani in guerra come responsabile di progetti educativi di Unicef e Unione Europea. E’ stata tra i campi profughi saharawi in Algeria nel 2002, e nel 2003 tra i bambini di Ramallah, nei Territori Occupati della Palestina.

Aderisce alla Libera Università dell'Autobiografia, di Anghiari, fondata da Duccio Demetrio e Saverio Tutino.

Esperta di intercultura e peace education, ha curato e scritto numerosi libri per bambini e per adulti, pubblicati in gran parte da Emi di Bologna.

Sono suoi anche Il sogno ostinato, lettere dall'Africa, editrice Berti, Piacenza, 2001 (contiene gli scritti premiati nel 2000 dall'Archivio Diari di Pieve Santo Stefano) e Realizzare i sogni. Storie di donne e uomini felici, con la prefazione di Patrizio Roversi, edizioni Unicopli, Milano, 2002.

Ulteriori informazioni sulla pagina web: www.silviamontevecchi.it

 

Ringraziamenti

Ringrazio tutte le persone che mi hanno offerto le loro storie. Ringrazio quanti mi hanno ospitata e riscaldata, preparandomi tè e cous cous sui loro tappeti, dentro grandi tende, o sotto meravigliosi cieli stellati. Ringrazio chi non ho potuto intervistare, ma avrebbe avuto tanto da raccontare. Ringrazio il Cisp, che mi ha reso possibile l'incontro con la Hammada e la gente saharawi.  

Note

[1] La cronologia e il brano sulle Vittime sono cortesemente tratti dal sito internet di peacelink/kalama/saharawi

[2] Raccolte e tradotte da Sara di Lello

[3] Mentre tutte le interviste raccolte sono avvenute nei campi della RASD in Algeria nell’anno 2002, il colloquio con il Sindaco di Nonantola avviene nella sua bellissima cittadina (sede della medievale, famosa abbazia) nel mese di settembre 2003.

©  Silvia Montevecchi

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