Silvia Montevecchi GRIDO DI LIBERTA'
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Questa raccolta di racconti di vita di profughi saharawi in Algeria è avvenuta nel mese di maggio 2002, quando ho lavorato con il CISP di Roma per la distribuzione degli aiuti (alimentari e non) forniti dall'Unione Europea. Spero che possa costituire uno strumento utile per conoscere la loro causa, la loro situazione di sopruso, e la difficoltà della loro vita nel deserto. SOMMARIO -
Grido di libertà. Introduzione storica e
geografica, cronologia dei fatti, cartine e mappe di wilaya in Algeria. -
Storie di vita. L'ambiente
- Riflessioni. Di Hamdi Khandoud, vice rappresentante del Fronte Polisario in Italia
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"Così
questo paese, dove non
sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso
che il mondo l'ho visto davvero e
so che è fatto di piccoli paesi, non so se da ragazzo mi
sbagliavo poi di molto"… "Un paese ci vuole. Non fosse che per il
gusto di andarsene via. Un
paese vuol dire non esser soli, sapere che nella gente, nelle
piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che
anche quando non ci sei resta ad aspettarti" Cesare
Pavese, La luna e i falò. |
GRIDO DI LIBERTA' Siamo tranquillamente intenti a svolgere le nostre attività
quotidiane. C'è il sole. Qualcuno di noi è in ufficio e lavora al computer. Altri
hanno preso alcuni giorni di vacanza e stanno facendo windsurf. Due giovani
amiche, neomamme, in un giardino pubblico, attaccano i loro bimbi al seno. Un
verduraio serve i clienti della sua bottega. Un ristorante prepara un
banchetto per un pranzo di nozze… Nel pomeriggio c'è ancora il sole. Sembra inamovibile. Lì,
inoffuscabile, per l'eternità. Il paese confinante con il nostro, dopo mesi di minacce e
raggiri, decide senza mezzi termini di passare all'azione. Il nostro paese è
invaso. Il sole è sempre lì. E' una splendida giornata. Il nostro quotidiano non c'è più. L'ufficio è abbandonato. I bambini si attaccheranno ai
seni di mamme in fuga. I giorni di vacanza diventeranno un'utopia. Il
verduraio chiude bottega e non ha più clienti. I fidanzatini che avevano
preparato il banchetto sono costretti a rimandare le nozze a non si sa quando.
Tutti scappano. Via, prendiamo poche cose, torniamo presto. E' solo per pochi giorni, poi tutto torna come prima… Non è un film. Non
ci sta questa storia sul piccolo schermo, e neppure su quello grande. E' avvenuto realmente, milioni di volte, in centinaia di
paesi. Avviene anche adesso, quotidianamente.
E certamente avverrà ancora, perché l'uomo più di tanto non impara
dalla storia. Un giorno del 1975, è avvenuto in Sahara Occidentale, che
allora si chiamava Sahara spagnolo, perché era una colonia di Spagna, allora
sotto il governo del dittatore Franco. La Spagna se ne va, e il Marocco lo invade decretandone il
possesso quasi "naturale". Come se nulla vi fosse di più ovvio che
fare proprio quel pezzo di terra. Le persone se ne devono andare, di corsa, perdendo tutto
il loro quotidiano, con i suoi affetti, i suoi oggetti cari, i suoi
riferimenti, i suoi odori. Gli abitanti in fuga erano - e sono - i saharawi. Un
popolo fiero, abituato alla durezza, ma anche alla libertà, del deserto. Un
popolo che il vento caldo di scirocco può curvare e coprire di sabbia. Ma che
non si spezza. L'invasione del Sahara Occidentale da parte del Marocco
dura da circa 30 anni. 30 anni di lotta, per il popolo saharawi. Di vita profuga,
di bambini nati e diventati adulti come profughi. 30 anni ospiti dell'Algeria, amica, nonché sulle
difensive, perché il Marocco invaderebbe volentieri anche lei, con un
progetto delirante di "grande Marocco" che non può non ricordare un
altro delirio: quello di una "grande Germania". E le due "menti" avevano in comune la fondamentale
strategia: seminare il terrore. Con la violenza, l'incarcerazione arbitraria,
le torture. Non c'è libertà di sorta con chi è preda della propria
follia, e per realizzarla è pronto a calpestare la logica più elementare del
diritto. Ho voluto ascoltare le loro storie, di donne e uomini,
giovani e meno giovani. Gente semplice. Perché le loro voci arrivino lontano,
si facciano sentire. Perché urlino i loro diritti calpestati. La loro fatica.
Il dolore, la stanchezza. Loro sono i poveri, i miti, i dannati della terra. Sono i
diseredati nel senso più vero:
loro un'eredità ce l'avevano, bella anche, ed è stata rubata, strappata loro
di mano. MAPPA DELL'AFRICA
NORD-OCCIDENTALE
Le vittime
La
resistenza e la lotta per l'indipendenza hanno provocato un elevato numero di
perdite, militari e civili, tra i Saharawi.
Foto della
Hammada e tende
saharawi
MAPPA
DI UNA WILAYA
I capitoli che seguono, sono i colloqui - brevi o più
lunghi - intercorsi tra me e alcune delle persone incontrate nei campi
saharawi, tra maggio e giugno 2002. La raccolta
di storie di vita, è una metodologia preziosa e arricchente a vari
livelli, e per diverse ragioni. Innanzitutto lo è per chi la fa. E' estremamente bello
porsi semplicemente all'ascolto di
chi ha belle storie da raccontare. Ogni volta si esce cresciuti dallo scambio,
sia per ciò che si è appreso, sia per la relazione che si instaura tra chi
si sente libero di parlare, e chi si pone ad ascoltare con curiosità, ma
senza il minimo giudizio. E' in qualche modo una relazione che produce amore,
perché si crea una comunicazione/comunione profonda.
Chi parla di sé, dei propri ricordi, spesso si commuove, gioisce,
ride, soffre. In ogni caso, alla fine, generalmente ringrazia, perché è
sempre bello trovare qualcuno a cui raccontarsi. Quelli che seguono sono colloqui avvenuti quasi sempre col
registratore, tranquilli, seduti sul tappeto attorno al tavolino del tè, o
bevendo una birra sotto un cielo stellato…, senza un argomento preciso di
cui parlare, e soprattutto senza limiti di tempo. Quando chiedo a una persona
di raccontarmi pezzi della sua vita, può essere velocissima e dirmi tutto in
un paio d'ore, oppure in due giorni… Ciò che conta è la relazione che si
instaura, affinché il racconto salti fuori nella maniera più immediata, e
quindi autentica. Ciò che viene registrato, in tal modo, rimane fra me e
l'interlocutore. Il dattiloscritto della sbobinatura viene poi (quando è
possibile, dipende anche dalle distanze, e dalle lingue di lavoro) rivisto e
corretto da chi si racconta, e ciò che viene da me pubblicato è
esclusivamente ciò che la persona vuole dire, apportando i tagli o le
aggiunte che desidera, affinché il messaggio sia il suo, e non il mio. E così arriviamo ad un'altra delle ragioni di fondo per
cui amo sempre più scrivere raccogliendo storie: per poter essere un semplice
strumento, per dare il più possibile la voce a chi - generalmente - non ne
ha. E su questo, i poveri del mondo sono davvero resi campioni. Campioni di
silenzio. Estromessi dai G8. Ai
margini delle grandi catene editoriali. Ancor più tagliati fuori dai grandi
sistemi della comunicazione globale, dell'informazione, della cultura. E' facile parlare dei poveri. E' molto più difficile fare
in modo che loro possano parlare. La raccolta delle storie di vita nasce proprio dalla
filosofia pedagogica di fondo secondo cui ogni
storia è degna di un romanzo. Se poi consideriamo l'altro detto secondo
cui ogni vecchio che muore in Africa, è
una biblioteca che brucia,… non
c'è bisogno di aggiungere altre spiegazioni alle ragioni di questa scelta
metodologica. Quella che segue è dunque una raccolta di brevi storie, e
possiamo considerarla anche una palestra
per allenarci alla pratica dell'ascolto. Perché ascoltare è conoscere, ma è
anche divertimento, piacere. E soprattutto, è relazione. L'AMBIENTE Il governo profugo della RASD è nato e si è sviluppato
in una zona dell'Algeria all'estremo sud-ovest, in pieno deserto del Sahara,
in particolare su quello che è il vasto altopiano della Hammada. Il deserto
in sé, per molti è affascinante, per altri è generatore di angoscia.
Personalmente, sono tra coloro che lo amano immensamente. Amo in generale i
grandi spazi in cui lo sguardo può quasi percepire lo zenit, senza
interferenze. Senza confusioni, limitazioni, rumori. Ero felice quando potevo
percorrere ore e ore di pista nel deserto roccioso, rosso e arancio, del nord
della Somalia, o quello del Sinai, variegatissimo e sacro, o sulle bellissime,
rilucenti dune sabbiose della penisola arabica. Così come amo le grandi
savane dell'est Africa, dove gli occhi possono spaziare sull'infinito,
incontrando quel che resta dell'incredibile, meravigliosa fauna dei grandi
mammiferi e felini africani. Sono paesaggi ancestrali, che fanno forse vibrare
nelle nostre viscere ricordi perduti delle origini prime. Il deserto della
Hammada, a prima vista, appare ciò che
possiamo definire una "rappresentazione del nulla". A trovarmi lì,
mi tornavano alla mente elucubrazioni sartriane; come giochi di parole
"l'essere e il nulla", "la morte nell'anima"… Eppure
quella distesa per me era (è, e suppongo sarà) una continua, inesauribile
fonte di sorprese, di meditazioni, di stupore rispetto a ciò che è la
natura. La "capitale", o meglio la sede del governo
della Rasd, è a Rabuni, che dista circa 20 km dalla città militare algerina
di Tindouf (e 2000 da Algeri). A Rabuni non ci sono campi profughi, ma solo
gli uffici amministrativi del governo della Rasd con i vari ministeri, e
alcuni ostelli detti "Protocollo", per ospitare gli stranieri. Tra Rabuni e il campo più lontano, quello di Dajla (si
pronuncia Dacla), sono circa 150 km di deserto, in cui ti chiedi come
accidenti fa l'autista a sapere con tanta sicurezza dove andare! comunque lo
sa… e tu fiduciosamente ti lasci trasportare, eliminando -se per caso le
hai- le nevrosi occidentali da bisogno-costante-di-gestire-e-dominare.
Nel deserto è difficile per noi "avere tutto sotto controllo".
Siamo preda degli eventi (per questo bisogna tenersi amica la natura!). Il paesaggio percorso cambia a tratti, prendendo sfumature
di colori magiche, alternando le dominanti di rosa, di nero, poi di rosso, o
di giallo… e poi l'erosione dei millenni ti lascia assolutamente senza fiato
davanti a canyon incredibili, dove percepisci i fiumi che furono un tempo, e
dove per una volta ritrovi la potenza della natura, senza il dominio
dell'uomo. Dalla Hammada mi ritrovai a mandare un sms ad un amico
(che vive in Italia in mezzo ad un bosco rigogliosissimo, a 1000 mt di
altezza, nell'Appennino tosco-emiliano) che diceva "In
mezzo al deserto. Meravigliosa madre terra!". E lui, che ama
immensamente la natura e in quel periodo si godeva una stupenda primavera di
pioggia e di profumi, tra sé e sé ha pensato…"caspita, in mezzo al
deserto… eppure sì, anche quella è la madre terra!". Gli era
difficile immaginarlo. Eppure anche lì, quella madre che si fa così arida,
egoista, severa, è una madre stupenda. Anche una madre può essere egoista e
tenere per sé le sue ricchezze. Nel deserto, la natura si cela. Bisogna
volerla amare davvero per accettarne le bellezze nella sua ermeticità. Eppure
è madre. Ha pieno il grembo. E' ricca. Ed è bellissima. Il deserto è un incantesimo che ti fa cogliere le
contraddizioni. Ti ci pone davanti. Bisogna riuscire a lasciarsi andare, non
aver paura della paura, e neppure paura di perdersi. Prima o poi ci si
ritrova! Questa terra, un po' terribile un po' incantata, è da
sempre la terra di beduini e tuareg. E dal 1975 è la terra dei saharawi in
esilio. Nota per i viaggiatori: l'Algeria è un paese molto bello.
Evitiamo (come fanno i più) di saltare Algeri. E' una gran bella città, con
gente ospitale, per nulla integralista, e gran belle spiagge nei dintorni.
Attualmente i gruppi di turisti arrivano ad Algeri con il volo internazionale,
per poi tuffarsi subito - perlopiù - nei safari nel deserto, a vedere le
incisioni rupestri dei Tassili, ecc. L'Algeria ha molto da vedere, comprese le
zone di verde mediterraneo, a vigneti e uliveti, nonché diverse zone
archeologiche, romane e preistoriche. Chi lo desidera, in Algeria può
compiere sia un viaggio umanitario, sia un bellissimo viaggio di conoscenza
antropologica, storica e naturalistica.
Parte
1. I ricordi degli anziani, biblioteche di un mondo scomparso. Immagini di vita nomade e della dominazione spagnola.
AHMED ALI MOHAMED EL MEQUI Siamo
nell'ospedale di Rabuni, e Ahmed ha appena fatto fare a un suo nipotino - che
non sta bene - un esame del
sangue: i risultati vanno bene, nulla di grave. Gli
chiedo di raccontarmi alcuni ricordi della sua vita quotidiana da giovane,
quando viveva come nomade nel deserto. Vedo immediatamente i suoi occhi
aprirsi e illuminarsi. L'amico
veterinario Gaid mi traduce in spagnolo dall'hasanja. Ahmed mi ringrazia per
essere interessata alla sua storia, e sottolinea l'importanza di far conoscere
ad altri la sua voce e quella del popolo saharawi. Prima dell'occupazione spagnola, il Sahara è stato sempre
la terra dei saharawi, che vivevano divisi in tribù indipendenti e ben
organizzate, condividendo tutto ciò che potevano condividere. Vivevano
nomadi, ma avevano la loro organizzazione politica. Per esempio centinaia di
haimas, le tende
tradizionali, erano guidate da un saggio,
che cercava di portare il meglio a tutta la popolazione. Inoltre, avevano la
propria organizzazione per la difesa militare, con cammelli e cavalli, in
grado di intervenire per esempio quando vi era l'invasione di altre tribù. In
che modo veniva nominato, o scelto, questo anziano saggio? Quanti anni doveva
avere per diventare un capo tribù? Il saggio veniva eletto da tutta la popolazione insieme,
perché tutti vivevano insieme, e si conoscevano uno a uno, quindi conoscevano
qualità e difetti di ciascun membro delle tribù. Il saggio veniva eletto
quindi in base alle sue esperienze e alle sue qualità. La popolazione nomade divideva tutto equamente. Era quindi
importante che il capo tribù fosse riconosciuto come una persona
assolutamente giusta. Mi
racconta dei ricordi della sua infanzia nel deserto? Come giocavate voi
bambini, cosa facevate, lavoravate? Eravate molti fratelli? C'erano dei giochi tradizionali, che ora sono quasi
scomparsi come il gioco del "rah". Si faceva in gruppi di 6 bambini,
messi in cerchio, il 6° al centro, e gli altri che cercano di toccarlo e lui
deve cercare di non farsi toccare, altrimenti viene scambiato con un altro.
Poi c'era un gioco che si faceva con il turbante. Ci si toglieva il turbante
per arrotolarlo e farne una specie di palla, divisi per squadre, un gruppo
sotto e un gruppo sulle spalle degli altri……… Giocavate
insieme maschi e femmine, o facevate giochi diversi? No, le femmine facevano giochi diversi. Per esempio lo
zijhe: si faceva in terra, tirando dei sassi, o dei pezzi di carbone, per fare
dei punti da segnare sulla sabbia. Anche questo si faceva in due squadre. C'erano
giochi da fare insieme, maschi e femmine? No, si giocava separati. Ci si trovava insieme solo a
studiare il corano. Ahmed,
lei è cresciuto in questa terra. Ha un bel ricordo della sua infanzia nel
deserto? Ho vissuto nel deserto fino a 50 anni. Sì, è stata
felice la mia infanzia nel deserto. Era bella la vita nomade. Si andava in
giro, a cercare pasto per i cammelli. Erano bellissime le haimas. Non sono
tende come quelle che abbiamo qui nei campi. Erano molto grandi, con un solo
palo centrale, e fatte di pelle di cammello. Quando
lei era bambino, come erano gli spostamenti, quante volte cambiavate nell'arco
dell'anno? Quando io ero piccolo, stavamo circa un mese in un posto,
se vi era da mangiare per i cammelli, poi ci si spostava in un altro posto, a
cercare altra erba fresca. Si andava anche molto lontano. Si poteva camminare
per venti giorni, un mese, e i cammelli mangiavano quello che si trovava lungo
il percorso. In estate invece ci si fermava, perché era troppo caldo. Si
cercava un posto vicino all'acqua, e si stava lì 2-3 mesi. Quindi
all'epoca non c'erano confini per voi, potevate andare dall'Algeria al Sahara
spagnolo, alla Mauritania…? Sì certo. Ci si spostava ovunque. Ovunque vi fossero
acqua e pascolo per le bestie. Quante
famiglie insieme si spostavano? Potevano essere 5, 10 o anche 20 haimas insieme. Era
importante stare uniti, per difendersi meglio dalle invasioni delle tribù
nemiche, che venivano per rubare il bestiame. Bisognava essere in zone vicine. Le
vostre mandrie erano importanti: quanti animali potevate avere nei vostri
spostamenti, tra cammelli e capre? Sì, avevamo molti cammelli, ma non c'era un numero
regolare. Alcune haimas potevano avere 50 cammelli, altre 100, altre 200.
Tutti insieme facevamo più di mille bestie. C'erano quelli da trasporto, non
molti, e quelli da latte, che erano la maggior parte. Questi erano tenuti
separati, alcuni vicini alle haimas, altri in altre zone a pascolare, proprio
perché quando si era attaccati da bande di ladroni, loro prendevano tutto ciò
che trovavano, quindi bisognava fare in modo che le mandrie non fossero tutte
insieme. A quell'epoca, il tempo non era come adesso. Il clima era
molto più umido, pioveva più spesso, ed era possibile dedicarsi
completamente all'allevamento del bestiame, cammelli e capre. Quindi
lei trova che anche qui, nel deserto, il clima è molto cambiato? Sì, assolutamente! Pioveva molto di più. Adesso non ci
sono più i pascoli di una volta. Non si potrebbe più vivere come allora.
Adesso, qui, è da tre anni che non piove! Un tempo, i cammelli erano la nostra vita, e molte tribù
cercavano di rubarceli. Facevano delle scorrerie, anche appiccando il fuoco
intorno ai nostri accampamenti. Noi eravamo sempre armati. Avevamo quei fucili di una
volta, dove si metteva la polvere dalla bocca della canna. Ognuno di noi aveva
un fucile. Si mescolava la polvere da sparo con un po' di sterco di cammello,
e si sparava così un solo colpo. A volte, durante gli attacchi di tribù
nemiche, molti animali morivano. Ma
questi attacchi, queste battaglie, accadevano di frequente? Sì, accadevano spesso. Le tribù saharawi erano tribù
pacifiche, ma guerrigliere. Abbiamo avuto tante invasioni, per esempio da tribù
della Mauritania, o del Marocco, ma sempre ci siamo difesi combattendo. Prova
nostalgia per i tempi della vita nel deserto? Noi siamo sempre stati nomadi, ed era una bella vita, ci
piaceva. Ma adesso mi piace la vita che faccio ora. Va bene così. Ogni
periodo cambia. Qui abbiamo la nostra causa da difendere, e preferisco stare
qui, a lottare per la causa saharawi. Quali
erano i ruoli degli uomini e i ruoli delle donne? Che mestieri facevano? Gli uomini si dedicavano alla cura delle bestie e alla
guerra, mentre le donne si dedicavano alla haima. Lavoravano le pelli dei
cammelli per fare le tende, e anche i tappeti o le stuoie. Queste si facevano
con tre piante diverse, che avevano una diversa durata. E poi si facevano le
coperte con la lana di capra, conciata con un'erba speciale per renderla più
resistente. I bambini già da piccoli studiavano il corano. C'era una
haima apposta, che era la scuola coranica. Tra gli adulti delle diverse haimas
vi era qualcuno disponibile a insegnare il corano, e noi gli davamo un aiuto
economico ogni mese, per esempio qualche animale. Finita la scuola islamica,
anche i bambini si dedicavano alla pastorizia. La
scuola coranica era sia per i maschi che per le femmine? Sì, però andavano in posti diversi, femmine da una parte
maschi dall'altra. E ognuno aveva la propria tavola di legno, su cui si
scriveva il Corano con tinta di carbone. La "biro" era un pennello
fatto con peli di capra. Scriveva bene! Molto meglio di queste biro moderne! Maschi e femmine erano sempre tenuti separati, perché non
vi fosse tra loro mancanza di rispetto. Era una donna delle nostre famiglie
che insegnava il Corano alle bambine. Quindi
i maestri si spostavano con voi, facevano la vostra stessa vita. I maestri erano persone delle nostre famiglie. E per fare
la scuola, tutti si svegliavano presto. I bambini andavano a lezione alle 4,
le 5 di mattina, che erano le ore più fresche. I
mestieri di cui mi ha parlato, soprattutto quelli che facevano le donne,
esistono ancora o sono scomparsi? Sì, si fanno ancora. I tappeti per esempio, sono fatti
qui. Anche certe tende di pelle si trovano ancora, ma è più raro. I cammelli
e le capre sono molto meno numerosi di un tempo. Ce ne sono di più nei
territori liberati, e lì questi mestieri tradizionali sono un po' più
diffusi. Le tende tradizionali, erano molto belle, ma anche molto
pesanti. Per questo, erano scomode da trasportare. Quanti
fratelli aveva, Ahmed? Eravamo 4 maschi e due femmine. E
quando si è sposato, a che età? Avevo 25 anni quando mi sono sposato la prima volta. Poi
mi sono sposato una seconda volta, dopo la prima moglie. Ho avuto 5 figli
dalla prima e 2 dalla seconda. Dove
è nato? A
Dajla, vicino al mare. Era
bello viaggiare dal deserto al mare? (ride!)
La vita ha sempre cose belle,
e cose cattive! Ma
lei pensa che la sua infanzia sia stata più felice o no di quella dei bambini
di adesso, che vivono qui, hanno la televisione,… come vede l'infanzia di
questi bambini? La vita nomade era molto più libera, si stava con gli
animali, all'aria aperta. Mentre qui c'è l'odore delle macchine… Però..
ogni tempo, ha la propria storia, non si può cambiare! Questi bambini sono
qui perché hanno la causa del loro popolo da difendere. Quando io ero
piccolo, non c'era nessuna lotta da fare per il popolo saharawi. (insisto) …ma
se non fosse per la causa da difendere, cosa preferirebbe: la vita nomade o la
vita cittadina?! Alla mia epoca, spostandosi con le haimas da un posto
all'altro, non avevamo medici, né medicine, né ospedali. Qui, si possono
avere cure mediche, e ci sono le scuole… Era una vita dura. Qui almeno
quando un bambino si ammala, c'è un medico per curarlo. Anche se è vero che
nella vita nomade avevamo la medicina tradizionale, con le piante, e poi non
avevamo molte malattie. Facevamo una vita molto più naturale e più sana, quindi
non avevamo molte malattie. Però tutto questo se n'è andato! Era un altro tempo. Se
n'è andato con il vento. Il tempo è come l'uomo: un uomo è stato bambino,
poi diventa adulto e vecchio. E così è per il tempo: ciò che è stato, non
può tornare. La
vostra vita nomade è finita prima o dopo il dominio spagnolo? È finita per
le condizioni politiche, o quelle climatiche? La vita nomade per il saharawi non è finita, e non finirà!
Adesso siamo costretti a queste condizioni, ma molti di noi continuano a
vivere nomadi. Certo, siamo stati costretti dalla grande siccità di questi
anni. Ma ci sono ancora alcune famiglie che vivono spostandosi con le loro
tende. I
suoi figli sono qui, o sono anche nei territori occupati? Ho una figlia nei territori occupati. Non la vedo dal '75.
Tre miei figli hanno combattuto nella guerra, e ora sono qui. Ho perso 3
fratelli però, nella guerra. Per
Ahmed è tempo di andare. Facciamo una fotografia? …. Grazie. È stato un piacere parlare con te. Ti
aspetto nella mia haima, quando torni, a Dajla. I saharawi sono gente
ospitale! Due
"vecchi guerrieri". Villaggio
di Smara. Alcuni vecchi, coi visi segnati dal sole e dal vento del deserto,
con il turbante nero e i loro tradizionali abiti blu, giocano, seduti sulla
sabbia, alla tradizionale scacchiera. Alla
ricerca di storie di vita tra questo popolo che ha vissuto guerre, violenze,
diaspore, nonché prese in giro senza fine, colgo in questi visi e in queste
barbe bianche il tesoro di mille libri, impolverati, su vecchi, preziosi,
scaffali di biblioteca. Chiedo così a loro di dedicarmi un po’ di tempo. Benani
Sid Bachir e Azmali Brahim Maatala, sono entrambi settantenni, nati nei
territori del Sahara Occidentale e vissuti per decenni secondo la loro cultura
nomadica. Sono mille le domande che vorrei fare loro, nel tentativo di
cogliere almeno qualche lontana impressione di un mondo ormai scomparso, che
non ho potuto conoscere. Mi invitano nella classica stanza con i tappeti e il
fornelletto per il te, e mi danno il loro affettuoso benvenuto, ringraziandomi
dall'inizio per il desiderio di ascoltarli. Hamdi
mi farà da interprete, in spagnolo, ma premette subito che lui ha passato 13
anni della sua vita a Cuba, e non conosce perfettamente l’hasanja di questi
vecchi. Anche Hamdi, poi, mi racconterà la sua storia di esodi e separazioni. Benani,
Azman, parlatemi della vostra vita, quando vivevate nomadi del deserto. Cosa
ricordate maggiormente, cosa vi manca di più, rispetto alla vita che fate
oggi, qui nel campo di Smara? Avete nostalgia dei tempi andati? (mi rispondono
insieme, integrandosi l’un l’altro). Eh, eravamo nomadi… I cammelli erano tutto per noi. La
nostra vita, la nostra auto, il nostro aereo... Andavamo dappertutto con loro,
in Mauritania, in Algeria… Eravamo una tribù di guerrieri, e combattevamo
stando sui cammelli, con quei fucili vecchi e pesanti di una volta! Il nemico
allora non era “un paese”. Era un gruppo, era qualcosa di astratto. Era
chi non apparteneva alle nostre tribù. Per noi non c’erano confini, si
andava per tutto il Sahara, e con i cammelli – tanti – affrontavamo tutto
e tutti. La famiglia si spostava
raramente. La lasciavamo al campo
con le tende, insieme ad alcuni uomini per fare la guardia e proteggere le
donne e i bambini, e noi andavamo via con i cammelli, a cercare l’acqua e il
pascolo per le bestie. Amavamo la vita di allora. Avevamo meno problemi, meno
malattie, meno povertà. Avevamo tutto ciò che ci serviva. Però stiamo
meglio adesso. Ora sentiamo di essere un paese, sentiamo un’appartenenza
politica, capisci?, che prima non c’era. Prima della dominazione spagnola,
le tribù saharawi si ritrovavano nel Consiglio dei Quaranta. Quaranta adulti,
rappresentanti di tutte le tribù, che garantivano il rispetto della legge
tradizionale. E tutta la legge ruotava intorno ai cammelli, che erano
migliaia. Così per esempio, per l'uccisione di una persona, si doveva un
risarcimento di 100 cammelli. Se si procurava una ferita, per esempio la perdita di un
occhio, 50 cammelli. Cinque per un dente caduto, e così via. I cammelli
valevano enormemente per noi, e un singolo capofamiglia poteva averne anche
500. Adesso… non ce ne sono più! Il Consiglio dei 40 finì nel 1936, con la dominazione
spagnola. Allora gli spagnoli proposero agli sceicchi di lavorare per loro
come notabili stipendiati E'
stato un modo per comprare la classe politica? No, non li hanno "comprati". Li stipendiavano, e
loro lavoravano per gli spagnoli. Insisto:
… ma non è un po' la stessa cosa? Mi risponde Hamdi dicendo "secondo
me sì, ma secondo loro no!" (ci sorridiamo con una strizzatina d'occhio,
per queste differenze generazionali nell'analisi politica del colonialismo!) (Ora
è soprattutto Benani a parlare). L'invasione della Spagna, rispetto a quella dei francesi,
è stata molto più morbida, più rispettosa. Gli spagnoli ci hanno
colonizzato con il commercio, più che con le armi come i francesi nei loro
territori. E ci hanno lasciato più libertà. Ad ogni modo, non abbiamo
nessuna nostalgia della colonia! Stiamo
molto meglio adesso, che siamo una nazione, una coscienza come popolo e come
paese. E lotteremo fino a riavere la nostra terra. Noi…siamo sempre stati un
popolo di guerrieri.
Combattevamo contro le altre tribù, contro gli invasori stranieri,
abbiamo combattuto contro l'invasione del Marocco, e continueremo a combattere
se sarà necessario. Non abbiamo paura di fare la guerra. Il nostro motto è
"O la patria, o il martirio!". Meglio morire, certo, meglio morire,
che andare sotto il Marocco! Io,
nel 1974 ho partecipato alla definizione e alla raccolta del censimento fatto
dagli spagnoli. 200.000 persone furono registrate come saharawi, ma il Marocco
niente! Non ha voluto riconoscerle. Ascoltano solo le soluzioni che gli
interessano! Adesso basta, non
vogliamo più che altre persone parlino per noi, vogliamo noi parlare per noi
stessi. (prosegue
Azmali). L'Italia è sempre
stata dalla nostra parte, ufficialmente. E la portiamo nel cuore. Tutti voi
italiani, che venite qui per aiutarci, vi ringraziamo molto. Anche con la
Spagna oggi abbiamo buone relazioni. Ha capito gli errori fatti in passato, e
manda molto sostegno, economico, alimentare, sanitario. Il Marocco invece, si
è svegliato solo nel '75. Il Sahara occidentale non è mai stato del Marocco,
e di colpo il Marocco "si è accorto" che gli appartiene! Quando la
Mauritania si è ritirata dal conflitto, il Marocco la voleva invadere, con il
suo progetto di un "Grande Marocco".
Molti nostri figli, le nostre proprietà, sono rimasti in Sahara.
Molti di noi erano ricchi a casa propria. Quando è cominciata la
Marcia Verde, l'invasione dei marocchini, le nostre donne hanno preso una
tenda e qualche capra, e con tutti i bambini si sono messe in marcia verso il
nulla, per arrivare dove siamo adesso. E sono state loro a tirare avanti le
famiglie, da sole, mentre gli uomini erano a combattere, o dovevano emigrare,
per lavorare e studiare in paesi civili e democratici. Per questo, per tutto
quello che abbiamo subito, noi potremo essere morti, ma non vinti!
Se l'ONU non è capace di risolvere i nostri problemi, che se ne vada.
Noi li risolveremo a modo nostro. Abbiamo accettato gli aiuti umanitari tutti
questi anni per vivere e per lottare. Non per essere sottomessi! Nel
frattempo, mi hanno offerto il classico te nei bicchierini di vetro. E' sempre
un momento di grande condivisione. E' lo stare insieme per stare insieme. Per
parlarsi comodamente seduti, con il rito della teiera che si alza sui
bicchieri, per mescolare la bevanda, e formare la schiumetta che piace tanto. Mi
dispiace doverli salutare. Ci sono tante cose ancora di cui vorrei parlare con
loro, vorrei "bere" dalle loro conoscenze, ma mi rendo conto che il
mio interesse va al di là delle questioni politiche. Io, figlia dei
telefonini e della pubblicità, sono affascinata da questi uomini che vivevano
nella sabbia, a 48°C, e che mi riportano a mondi per me tristemente perduti. Ma
loro, al contrario, vogliono parlarmi della loro lotta, di ciò in cui credono
adesso. Ciò
che per me è nostalgia, che mi procura amarezza, forse è solo un inutile,
bucolico mito (mentre chi faceva quella vita è felice di farne ora una meno
faticosa). Molti di noi che vivono nell'occidente ricco e libero, sentono
dolore per l'omologazione culturale del mondo, che ha anche coinciso con il
depauperamento delle risorse naturali e quasi la distruzione del pianeta.
Eppure, forse, se il mondo si è omologato è perché la tecnologia è comoda
per tutti, e lo sviluppo porta (forse) inevitabilmente all'appiattimento, che
ci piaccia o no. Alcuni
giovani sopraggiunti ci hanno ascoltato con interesse, molte cose non le
sapevano neanche loro. E io butto il mio sassolino a favore della raccolta
delle storie di vita: "questi vecchi, sono la vostra storia, le vostre
radici; raccogliete le loro storie, scrivetele, e voi anziani, raccontate,
fatevi ascoltare, affinché la vostra memoria non vada perduta!". Il
te è finito, la macchina mi aspetta. I due vecchi amici, contenti, mi
salutano con calore. ****
Parte 2. Giovani "cubani": una generazione traumatizzata.
Racconto
di Brahim cheik Breih, Immaginatevi
un caldo cocente, nel deserto, sotto l'ombra di due alberelli esili, alle 4
del pomeriggio. Brahim è un uomo corposo, con occhi e capelli scuri, lo
sguardo spesso "birichino". Gli piace molto scherzare, prendere in
giro, fare un po' il clown, provocare. Ecco il suo racconto, tradotto dallo
spagnolo. Brahim,
parlami dei tuoi ricordi dell'infanzia. Tu sei nato nel Sahara Occidentale,
quando c'erano ancora gli spagnoli, giusto? E poi, cosa è successo? Sì, sono uno di quei giovani nati nel Sahara occidentale,
e che hanno poi vissuto la disgraziata storia della Marcia Verde, l'invasione
dell'ex Sahara spagnolo da parte del Marocco, e così anche noi ci siamo
trovati a marciare nel deserto. Io sono stato abbastanza fortunato, perché
con la mia famiglia scappammo in Spagna con l'aereo, ma tanti altri hanno
camminato nel deserto, sotto i bombardamenti marocchini, e fatto la guerra.
Era il 1979 e io avevo circa 6 anni. Andammo in Spagna per poi raggiungere
questi campi di rifugiati, dunque io non ho vissuto il momento più difficile
della fuga e dell'esilio. Venuti qui, pensavamo di restare per pochi giorni, e
poi invece… Ho fatto qui, nei campi, la scuola elementare e superiore, poi
(come molti altri perché per l'università si doveva andare
all'estero, ad Algeri, in Spagna, in Siria..)
sono andato a Cuba, dove andava la maggior parte. Cosa
ti ricordi della scuola elementare dei campi profughi di allora? Eh, ricordo molte cose, ma piuttosto tristi. Ero piccolo,
venivo da una bella città del Sahara spagnolo, Dajla, vicino al mare. E mi
ritrovo qui, in pieno deserto, dove si pensava di stare pochi giorni… Fu un
cambiamento anche climatico terribile. Trovai uno scirocco terribile,
difficile da sopportare. A Dajla stavamo bene, avevamo la nostra bella casa,
come voi, e poi, con la disgrazia della guerra… Nel campo di Tifariti
pensavamo di stare pochi giorni, come tutti. E ora sono 27 anni, in questo
deserto! Ma
la tua famiglia poi se ne è andata da qui. Sì, mia madre vive in Marocco adesso, mio padre è ancora
qui. E
com'è andata a Cuba, cos'hai fatto? A Cuba sono rimasto dieci anni. Volevo fare gli studi per
diventare regista, ma non sono riuscito a finire l'università perché era da
pagare in dollari, e io non avevo soldi abbastanza, c'era solo un piccolo
aiuto di una borsa di studio. Feci un anno di sociologia, e degli studi di
teatro. Poi però ho deciso di tornare qui, nel mio paese. E' stata comunque
un'esperienza molto importante. Il livello delle nostre scuole qui ai campi
non era un granché, e a Cuba quindi ho imparato moltissimo. E' la mia seconda
patria Cuba. Sono cresciuto moltissimo là, non solo a livello di studi ma di
vita in generale. Certo, mentre eravamo là, non ci rendevamo conto di cosa
vuol dire vivere nella durezza del deserto. E' duro stare qui. Però
sei tornato lo stesso, perché? Eh, perché! Perché io sapevo che un giorno dovevo
tornare nel mio paese, e che qui posso essere utile. Noi siamo in guerra, e
non possiamo fare ciò che vogliamo. Forse un giorno, quando la guerra sarà
finita. Ma adesso posso essere utile qui, non importa se non ho conseguito
nessun titolo. Quello che conta
non è il titolo, è che trovi un posto nella tua società, e che riesci ad
occuparlo. Può essere un posto importante, o molto semplice, ma comunque ti
senti utile, per il tuo popolo, il tuo paese, o per te stesso. Non
ti è mai venuta voglia di stare in un posto più tranquillo e più piacevole,
come tua madre, o come tuo fratello che vive in Italia? Magari! Sì certo, noi tutti vorremmo vivere in un posto
migliore, felice, tranquillo. L'esempio che mi hai fatto, mio fratello, è un
dolore per me. Lui è andato in Italia per studiare musica, poi però alla
fine degli studi ha trovato una ragazza, si è sposato, ora ha una bambina,
vive a Roma ed è contento. Avevo altri due fratelli, più grandi, entrambi morti in
guerra. Lottavano perché volevano per noi un futuro migliore, a casa nostra.
Avevo molti amici che sono morti, e sono morti non certo perché
volevano che stessimo a vivere qui, in questa landa deserta.
Noi vogliamo tornare nella nostra patria. Cosa
pensi ora della situazione del tuo paese, dopo che se ne sono andate in fumo
le speranze di un referendum? Penso che è una situazione molto difficile. Noi abbiamo
fatto molto per il Piano di pace. Ma ora penso che non valeva la pena. Il
Fronte Polisario scelse il cessate il fuoco nel '91, per dimostrare al mondo
che i saharawi sono un popolo di pace e di giustizia, mentre il mondo non ha
mostrato nessun interesse e non si è reso conto che la nostra guerra è
giusta, perché non abbiamo altra alternativa alla lotta. Così come il popolo
italiano ha lottato per la sua libertà, e tanti altri popoli, nella storia
hanno lottato per la loro libertà. La guerra non la guadagna nessuno, solo chi vive. Per
questo abbiamo sempre cercato di evitare la guerra. Ma per me, la storia mi ha
dimostrato che i poveri non hanno mai ragione. Il popolo saharawi vive da anni
negli accampamenti. Io non credo che il referendum fosse o sia necessario. La
presenza stessa del popolo saharawi in questo deserto, è una ragione
sufficiente per dimostrare che questo popolo esiste, e che ha diritto alla sua
indipendenza. Noi non vogliamo vivere sotto la bandiera di nessuno, vogliamo
la nostra libertà. Quando siamo venuti qui, 27 anni fa, non è stato per
vivere degli aiuti umanitari, per farci portare l'acqua e il cibo. No, siamo
venuti qui perché vogliamo vivere in pace, con la nostra bandiera sovrana.
Per questo un referendum non è necessario: nessuno vorrebbe vivere in questo
deserto, non ci si può vivere! Credo che la comunità internazionale, le Nazioni Unite,
si siano resi conto che la maggior parte dei saharawi che vanno a votare,
stanno in questo deserto! Il referendum non c'è stato perché il Marocco non lo
vuole fare. Le Nazioni Unite non hanno la volontà politica di costringere il
Marocco. Le NU sono il portavoce degli interessi americani e francesi! Ma
l'obiettivo più importante adesso, è di stabilire la pace nel nord Africa.
Questo è più importante di qualsiasi referendum! La nostra unica forza è la pazienza! La guerra l'abbiamo
evitata già più di una volta, non abbiamo risposto alle provocazioni. Ma la
pazienza ha il suo limite! Se il referendum non è possibile, noi chiediamo
che le NU si ritirino, e noi risolveremo il conflitto a modo nostro. Saremo
obbligati a prendere di nuovo le armi. E' orribile uccidere, lo sappiamo. Lo
sanno tutti quelli che la guerra l'hanno già fatta. Ma se è necessario
uccidere per vivere… non potremo fare diversamente. Noi
non vogliamo fare una guerra interna al Marocco, contro civili, né
alcuno di noi pensa a fare il terrorista, ma dobbiamo lottare. E noi siamo
orgogliosi di sapere che sappiamo lottare. …e quale sarà il
limite della vostra pazienza? Noi abbiamo un proverbio che dice "Il cammello vive
33 anni, ed è molto paziente. Ma anche il cammello un giorno può perdere la
pazienza". Noi
siamo esseri umani, ma ti assicuro che io come saharawi, e qui credo di
parlare a nome del mio popolo, preferisco vivere in questo deserto, preferisco
vivere in una prigione, piuttosto che vivere sotto la bandiera marocchina! Perché
questo, perché pensate di non poter vivere insieme al popolo marocchino? Noi non proviamo nessun odio verso il Marocco, verso la
gente. Gran parte della mia famiglia vive in Marocco. Ma siamo due popoli
diversi. Io non ce l'ho con il popolo, ce l'ho con la monarchia marocchina.
Con il re e la sua mafia, i suoi servi, i suoi traffici… Noi avevamo sperato in un cambiamento nella politica del
Marocco quando è morto Hassan II e gli è succeduto il figlio. Pensavamo
davvero che le cose potessero girare diversamente, ma questo non è avvenuto.
La Francia e altri paesi sostengono la monarchia. E' incredibile quanto il
Marocco spenda per mantenere il muro che lo divide dal Saharawi. Credo che sia
l'ultimo muro rimasto al mondo per separare fisicamente due paesi, e costa
milioni di dollari! (Purtroppo, proprio
mentre questo libro è in redazione, un ennesimo muro viene costruito: quello
tra Israele e Palestina. Simbolo della stoltezza umana. Nda) Comunque
i soldi ce li ha, pensa al traffico dell'hashish!
Non credo quindi che il Marocco cambi la sua politica nei confronti del
nostro popolo. Sicuramente noi abbiamo fatto degli errori all'inizio della
guerra, ma tutte le lotte fanno degli errori, tutte le rivoluzioni. Noi
abbiamo saputo cambiare e modificare gli errori. E
cosa pensate dell'ospitalità dell'Algeria, che dura da tanti anni? non pensi
che anche l'Algeria abbia i suoi interessi, che non si tratti solo di
un'operazione umanitaria? Non vi sentite in qualche modo strumentalizzati? Io non credo tanto negli interessi politici ed economici
dell'Algeria nell'ospitare il popolo saharawi. Quando nel '74 siamo scappati dalle nostre case, solo
l'Algeria ci ha accolti. E' anche il paese che ha rifiutato la politica della
Spagna, del Marocco e della Mauritania. Credo che l'Algeria
abbia davvero un motivo umanitario. Ha lottato per l'indipendenza del
nostro popolo, così come lo ha
fatto per altri , ad esempio Timor est, che è ben lontano da qui. Certamente
avrà i suoi interessi, ha diritto ad averne. Ma l'Algeria ha aiutato il
popolo saharawi, lo ha aiutato economicamente. E non solo, ma l'Algeria non si
è mai intromessa nei nostri problemi. Noi siamo un paese dentro un altro
paese, e lo stato algerino non ha mai provato a infiltrarsi nelle nostre
istituzioni e nella nostra democrazia. Non ci ha mai detto che cammino
seguire. Noi siamo indipendenti, abbiamo le nostre elezioni, il nostro
presidente, facciamo i nostri congressi, sul territorio algerino. Siamo
riconosciuti così, e questo per me è più che sufficiente. Certo che
l'Algeria avrebbe interesse ad avere come confinante un paese amico, il Sahara
Occidentale, e ha aiutato moltissimo in tutti questi anni, per arrivare ad una
soluzione pacifica del conflitto. Hai
parlato degli errori fatti in passato dal Polisario. Che cosa pensi che
rifaresti, e che cosa no? Si certo, errori ce ne sono stati, tutte le rivoluzioni
hanno degli errori. Ma nessun altro paese, nessun gruppo politico ha montato
uno stato nel nulla, come abbiamo fatto noi del Polisario. E quando dico
Fronte Polisario, intendo dire Popolo Saharawi. Mettere su uno stato dal
nulla, in mezzo al deserto, con tutte le sue strutture, le sue istituzioni. E
sentiamo che questi 20-30 anni non sono passati invano, perché abbiamo
puntato molto sulla formazione delle giovani generazioni, abbiamo un alto
tasso di scolarità e di formazione, e questo è fondamentale per la
costruzione di una democrazia. Il 70 % della popolazione saharawi è composto
da giovani, e questi si sono formati in paesi diversi. Questo aiuta il nostro
sviluppo, non solo in senso tecnico, ma culturale, sociale. I
giovani che vanno all'estero a studiare generalmente tornano qui, o molti si
fermano in altri paesi? Quasi tutti tornano, alcuni si fanno famiglia all'estero.
Qui la vita è dura, lo vedi. E ora c'è molta delusione e sfiducia. Pensavamo
che con le Nazioni Unite avremmo raggiunto un accordo, che si sarebbe fatto il
referendum per l'indipendenza, ma tutto è crollato. Comunque, quando c'è stato bisogno di essere uniti, nel
periodo della guerra, moltissimi sono tornati qui a combattere, tra quelli che
erano in altri paesi. E io credo che se ci sarà bisogno ancora, molti
torneranno di nuovo. In
tutti questi anni, avete avuto tanta solidarietà, da organizzazioni
umanitarie di tanti paesi europei. Mi dici la tua impressione su questo
movimento di adesione culturale, politica, umana che il Polisario ha avuto? Sai, abbiamo un bel proverbio che dice così: "Los hombres
non pueden ser tan perefectos, como el sol.
El sol quema con la misma luz con que brilla. El sol tiene manchas". Gli uomini non possono essere perfetti, come non lo è il
sole. Il sole brucia con la stessa luce con cui illumina. Il sole ha macchie.
Chi lo gradisce parla della luce, chi non lo gradisce parla delle macchie. Guarda quello che il nostro popolo ha passato con la
Spagna. Noi siamo stati traditi dalla Spagna. Però oggi, tutto il popolo
saharawi ringrazia il popolo spagnolo, perché la Spagna poi non ci ha
abbandonato, non ci ha venduto. Il popolo spagnolo, con la sua solidarietà,
recupera gli errori fatti dal governo spagnolo. Lo stesso per l'Italia. Noi
ringraziamo il popolo italiano. Qui arrivano tanti voli charter di carovane di
aiuti dall'Italia, continuamente. E noi abbiamo caro il popolo italiano, anche
se sappiamo bene che l'Italia ha aiutato il Marocco, vendendo le mine che il
Marocco ha messo sulla nostra terra, per impedirci di tornare a casa. Tutti noi ringraziamo per gli aiuti umanitari, ma abbiamo
ben presente che questi aiuti servono affinché possiamo un giorno fare
ritorno alla nostra terra, non per abituarci a stare qui prendendo le cose
gratis! Se siamo riusciti a crescere nel processo di sviluppo e di
democratizzazione, è perché in tutti questi anni siamo stati aiutati e
sostenuti. Brahim,
ci sono altre cose che vuoi dirmi, che ti stanno a cuore? Una cosa che voglio dirti io, una qualsiasi? Sì, ce l'ho:
ritroviamoci a fare questa intervista il giorno dopo la nostra indipendenza! Va
bene, è una promessa! Grazie Brahim. *****
Hamdi
Sidahmed Ahmed Direttore
della cooperazione, Hamdi
mi ha aiutata a intervistare i due vecchi di Smara, e ora mi racconta la sua
storia. Siamo seduti dentro una specie di igloo di mattoni, che è la
stanzetta dei guardiani, davanti alla lunga fila di containers che circondano
gli uffici del Ministerio de Equipamiento.
[Foto: Hamdi da solo, e con il padre durante l'intervista] Hamdi
è un uomo dal fisico minuto, con bellissimi occhi neri, e uno sguardo
penetrante. Quando cominciamo il colloquio, entrando si toglie il turbante che
aveva mentre lavorava al sole, ma per tutto il tempo mi accorgo che suda in
maniera intensa, gocciolante. Mi chiedo se non è anche la fatica del
ricordare, e di buttare fuori cose che lo hanno fatto soffrire per tanti anni. Hamdi,
tu sei piuttosto giovane, quando la tua famiglia è venuta via dal Sahara
occidentale, con la fuga seguita alla Marcia Verde, avevi solo due anni. Che
cosa ti ricordi della tua infanzia qui nei campi? Quando sono venuto qui sì, avevo 2 anni, quindi della
fuga non ricordo nulla. I ricordi dell'infanzia che ho più lontani,
cominciano con uno scorpione. Sì, in mezzo a questo deserto, uno scorpione!
Presi un pizzico in un dito, e ricordo che mi portarono all'ospedale di Tinduf.
Però ho un ricordo molto velato. Invece ho ricordi precisi del campo di Dajla,
e della scuola elementare. Ho fatto la prima nel campo di Dajla, la seconda a
El Ajun, poi dalla terza alla quinta andai in un internato in Algeria, a
Bechar, dove dei parenti di mia madre vivevano già da tempo. Nel 1985, avevo
13 anni, e facevo il sesto anno. Fu a quel punto che mi trovai paracadutato a
Cuba, come moltissimi dei miei coetanei, tutti insieme, e ci sono rimasto 13
anni, fino alla laurea in Diritto. Arrivammo a Cuba dopo un viaggio di 15
giorni, partendo da Orano su una nave sovietica. Quindici giorni di mare! Sono tornato qui nel '98, per il processo di
indentificazione per il referendum. Mi mancavano due mesi alla laurea. Dopo l'indentificazione,
sono tornato a Cuba per la presentazione della tesi, e poi sono tornato qui
definitivamente. Per 13 anni sono rimasto a Cuba senza notizie della mia
famiglia. Avevo avuto qualche fotografia, ma nessuna dei miei genitori, solo
qualche parente in Algeria. Dal 1986 all'89 è andata abbastanza bene, poi però è
cominciato il periodo più difficile, dopo il crollo del muro di Berlino e la
fine del socialismo. In ogni caso, ne ho un ricordo meraviglioso. Quando io sono arrivato a Cuba, il 70/80 % della sua
economia dipendeva dai paesi socialisti. Con la fine dell'epoca socialista è
iniziato un periodo che io definisco infernale. Hanno cominciato a girare
tanti dollari, e noi saharawi non ne avevamo. Non potevamo comprare nulla. Per
questo, è stato un periodo molto duro. Dall'università ricevevamo 60 pesos
al mese e ci voleva praticamente un intero stipendio per pochi dollari. E
tieni presente che molte cose si potevano comprare solo in valuta, non in
pesos. C'erano i negozi che erano solo per stranieri, in dollari, dove i
cubani non potevano fare acquisti, ma noi non avevamo i soldi per nulla: il
sapone migliore, un buon vestito, un profumo,… tutto si doveva comprare in
dollari. A volte qualcuno
riusciva a comprare una saponetta in uno di questi negozi, e rivenderla più
caro a chi non poteva entrare. Io dividevo la casa con uno studente yemenita e due
saharawi. Lo yemenita stava molto meglio di noi economicamente. Noi tre
saharawi, ci siamo trovati a
condividere lo stesso sapone, perché avevamo solo quello. Mangiavamo insieme,
riso bianco e poco altro. Era difficile convivere con studenti di altri paesi,
e vedere che loro potevano permettersi molte cose che per noi erano un sogno
impossibile! A volte io restavo fuori di casa tutto il giorno, proprio per non
aver a che fare con quelli più ricchi di noi. D'altra parte, sapevamo
l'impegno del Fronte Polisario, sapevamo com'era la situazione a casa nostra,
che il Polisario non aveva niente di più da offrirci, e per questo abbiamo
resistito, per tanti anni, fino a finire i nostri studi. Tra di noi, ci siamo
aiutati in tutti i modi. A volte, non avevamo nemmeno abbastanza pantaloni per
andare alle lezioni, così si aspettava che uno tornasse dall'università, per
metterli a un altro. Abbiamo condiviso tutto. E abbiamo anche avuto tanti
amici a Cuba; in un certo senso, anche una seconda famiglia. Siamo diventati
in gran parte cubani. Nel mio caso per esempio, pensa: avevo tredici anni
quando sono stato mandato a Cuba! Tutto
il periodo dei mie anni di crescita, tutta l'adolescenza e gli studi
universitari, insomma gli anni che ti formano maggiormente, io li ho passati a
Cuba, senza mai neppure parlare con la mia famiglia per telefono. Ma non
abbiamo mai perso la nostra coscienza politica e il senso di appartenenza alla
causa saharawi, e alla sua lotta. Non
hai mai pensato di fermarti a Cuba, di farti una famiglia lì? No no no! Cuba non è un paese dove uno possa pensare di
stabilirsi. Se io avessi studiato in Spagna per esempio, o in Italia o in un
altro paese europeo, avrei potuto pensare a trovare un lavoro lì e prendere
la residenza. A Cuba questo non era possibile. A quell'epoca, l’isola non
era un paese libero. Non avrei potuto avere un passaporto cubano. Lavorare lì,
avere un visto, era molto molto difficile. Fino al 1995, a Cuba non potevi
neanche comprare una macchina se eri straniero. Se la compravi, era
illegalmente, clandestinamente. Dal '95 sono cambiate molte cose. Adesso
quello che conta sono i dollari, e se hai dollari, fai quello che vuoi. Quindi
durante tutti i 13 anni che hai vissuto a Cuba, hai pensato che saresti
tornato a casa, prima o poi. Ho sempre pensato che sarei tornato a casa, sì, dalla mia
terra, dalla mia gente. Ho passato anni immaginando la mia famiglia,
come poteva essere il volto delle mie sorelle, che erano piccole quando
le ho lasciate. L'ultima aveva pochi mesi. E tutti noi saharawi soffrivamo nel
vedere che gli altri nostri compagni di studi, i cubani, avevano tutta la
famiglia con loro, per esempio nel giorno della laurea. Noi eravamo sempre da
soli. Non avevamo mai l'affetto della famiglia intorno. E' stato molto
doloroso, molto amaro. Ma era necessario vivere tutto questo, per fare
qualcosa di utile per il nostro popolo. Tredici anni certo, non credo sia
facile per nessuno (No - commento - anche solo due, in quelle condizioni, sarebbero stati
difficili ). Tantopiù se pensi che eravamo poco più che bambini. A
tredici anni, stavo in collegio, e alla fine della scuola, il venerdì, tutti
i cubani se ne andavano a casa per il fine settimana. Noi no, stavamo lì.
Pensa che prima di lasciare il campo di Dajla, ero legatissimo a mia madre.
Stavo male se stavo lontano da lei anche solo una settimana. Per questo, a
Cuba mi sono fatto poi tanti amici, e tante famiglie mi hanno
"adottato", così mi sono ritrovato ad avere tanti padri, tante
madri. Ero davvero diventato cubano, parlavo come i cubani, vivevo come loro.
Tutti gli altri studenti, dall'Etiopia, dallo Yemen o da altri paesi,
tornavano a casa per dei periodi di vacanza. Noi no, sempre lì! Però, bueno.
In ogni caso, non ho mai pensato di fermarmi a Cuba. E' un paese che va bene
per una visita, per una vacanza. Non per trasferircisi. Ma
non era comunque più facile, e più bella, la vita a Cuba rispetto alla vita
di qui, dove non c'è nulla? Sai, dipende. Se io devo vivere in un posto anche bello,
ma dove devo soffrire continuamente per la mancanza della mia famiglia,
preferisco soffrire con i miei parenti! Con i miei fratelli, i miei amici, la
mia gente. Io soffrivo a Cuba, dunque… preferisco soffrire qui! Sarebbe
diverso se si trattasse di un altro paese, dove potessi portare la mia
famiglia, pagare un biglietto per andare e tornare quando voglio rivedere la
mia gente. A Cuba questo non era possibile. Era un inferno avere un visto, e
il viaggio poi era costoso, non come andare in Spagna o in Italia. Era
possibile per noi studenti, perché tutto è stato organizzato dal Fronte
Polisario, e pagato e sostenuto dal governo cubano. Ma diversamente, no. Quanti
eravate quando tu sei stato messo sulla nave per Cuba? Uh, eravamo moltissimi! Solo sulla mia nave eravamo 800.
Ma non tutti si sono laureati poi. Alcuni hanno fatto studi tecnici, altri
sono entrati all'accademia militare. Qui ai campi, la gente, il paese, aveva bisogno di tecnici
e di quadri. Quindi non si poteva aspettare dieci anni che noi facessimo i
nostri studi e tornassimo laureati. Molti sono tornati dopo le scuole
superiori e professionali, e hanno dovuto poi adattarsi a fare di tutto. Per esempio un mio caro amico che studiava da dentista, è
stato obbligato a tornare prima di finire i suoi studi, e qui si è ritrovato
a fare il medico in tante specialità diverse, ed è diventato bravissimo,
perché devi arrangiarti a saper fare di tutto. E' uno dei migliori medici di
tutte le wilaya. Ad ogni modo, tutti noi che siamo passati per Cuba, ne
conserviamo un ricordo indelebile, profondo. E tutti vorremmo tornarci qualche
volta. I cubani sono gente calda, dolce, allegra, amabile. Sono contenti con
poco. Sì, dunque: come ti ho detto, mi mancavano due mesi alla
discussione della tesi, quando sono stato chiamato qui per il processo di
identificazione dei votanti saharawi al referendum per l'indipendenza. Era il
1998. Dopo l'identificazione tornai solo per la tesi. La partenza da Cuba mi provocò un conflitto di sentimenti
pazzesco. A me come a tutti i miei compagni. Da un lato c'era una felicità
enorme, incontenibile, per l'idea di ritornare a casa dopo tanti anni, poter
rivedere la propria famiglia, rivedere e riabbracciare la propria gente. Al
tempo stesso, c'era un dolore enorme, perché lasciavamo un'altra famiglia,
degli amici di tanti anni, molti di noi lasciavano la fidanzata. Io dissi alla
mia ragazza che certamente non avrei potuto ritornare, e di farsi un'altra
vita a Cuba. Chiunque altro, un italiano, un tedesco che avesse avuto amici
cari a Cuba, poteva pensare di tornare una o più volte. Noi no, sapevamo che
questa possibilità non l'avremmo avuta. Io avrei potuto uscire dalla terra
saharawi solo con un mandato ufficiale, per una missione o qualcosa da fare di
preciso in un certo posto. Così, la nostra sofferenza alla partenza è stata
totale, perché sapevamo che quella era una separazione per sempre. Non
avevamo speranza di tornare. Da qui per esempio, non sono neanche riuscito
più a telefonare ai miei amici a Cuba, a parte il fatto che la
chiamata sarebbe molto costosa. Mi sento bene qui, sono qui ormai da tre anni, ma ancora
non mi sono abituato alla vita di qui. Neppure al cibo, e da quando sono qui
ho sempre mal di pancia. Questo non vuol dire che preferissi stare a Cuba, no.
Mi piacerebbe andarci una volta per un periodo, rivedere tutte le persone
care. Ma preferisco mille volte essere qui, vicino alle mie sorelle. (Hamdi
parla con fatica, suda molto, si asciuga spesso col telo del turbante che ha
in mano. Mi sembra trattenere un groppo in gola). Chiunque preferirebbe una vita migliore di questa, è
chiaro. C'è chi è riuscito ad andare in Europa, e anche stando in un altro
paese ci sono moltissimi modi per lottare per la causa saharawi. Ma io sono
contento di essere qui, di fare il mio lavoro qui, al ministerio de
equipamiento. Mi piacerebbe fare viaggi all'estero, certo, e mi piacerebbe
poter studiare ancora. Mi piace godermi la vita. Molti pensano di poter andare
via, e di non tornare più. Io no, anche se vado via, penso sempre di fare
ritorno. La mia famiglia, le mie sorelle, sono ciò che ho di più caro al
mondo. Se sto in questo inferno, è per loro. Ho sofferto troppo per essere
stato strappato alla mia famiglia quando ero un bambino, per non aver avuto
l'affetto, le carezze della mia famiglia. Ho sofferto tantissimo per non aver
visto crescere la mia sorella più piccola. L'ho lasciata che aveva pochi
mesi, e l'ho ritrovata già ragazza. Per me resta sempre una piccolina. Com'è
stato quando hai ritrovato la tua famiglia, dopo tanti anni? La mia famiglia non sapeva niente del mio ritorno. Si
sapeva in generale che tornavamo per il referendum, ma non sapevano
esattamente chi di noi tornava, e quando, con quale aereo. Mia madre non
sapeva neppure esattamente se io ero vivo o morto. Aveva solo delle speranze,
ma nessuna certezza. Io ed un gruppo di compagni, arrivati ad Algeri, fummo
messi su un pullman per venire qua. Duemila km. di deserto: da Algeri a
Tindouf, tre giorni di viaggio, tremendi! E poi da Tindouf al campo sopra un
camion, sul rimorchio. Arrivai al
campo nel buio della notte, alle 3 di mattina, e non sapevo dove cercare la
mia famiglia, neppure esattamente sapevo chi trovavo ancora vivo e chi no.
Anch'io, avevo solo speranze. Alle tre della mattina, non si vedeva niente. Non c'era
neppure la luna, solo qua e la, tra le tende, qualche lucetta accesa. Trovai
qualche donna per chiedere dove andare, e mi diedero le indicazioni. Ero morto
dalla stanchezza, e non ero abituato a camminare sulla sabbia, con in miei
bagagli addosso. Quando trovai la casa della mia famiglia, chiamai, e una voce
rispose chiedendomi chi fossi. Risposi il mio nome, ma ci volle un po' perché
potesse capire chi ero. Era una cosa troppo incredibile. Era una zia che mi
aveva risposto, e andò subito a chiamare tutta la famiglia dentro la haima, e
vennero fuori nel buio, e sentivo già i pianti ancor prima di vedere le
facce. Ci abbracciammo, e anch'io piangevo. Le mie sorelle vennero fuori e
cominciarono a toccarmi, e poi saltavano fuori altri parenti, in piena notte,
che non conoscevo e non mi aspettavo neppure. Mia madre piangeva, piangeva.
Non ci credeva. Non poteva convincersi che ero proprio io, che ero vero, ed
ero tornato. Tutti questi parenti mi venivano a salutare, mi dicevano
"sono il tale, e il tale,…" e io subito mi resi conto che mia
nonna non c'era più. Era morta molto tempo prima, e nessuno mi aveva detto
niente. Io l'amavo moltissimo. Mi dissero
di non avermi detto niente perché pensavano che sapendolo a Cuba mi
avrebbero fatto soffrire di più. La gente continuò per ore a venirmi a salutare e a
rendere omaggio. Io continuavo a piangere per mia nonna. Poi andai a cercarla
al cimitero, con mia sorella che mi teneva per mano. …Ecco, in sintesi, questa è stata la mia vita. Da allora, da quando sono tornato, ho lavorato al
ministero dei trasporti, poi il ministro de Equipamiento, vedendo il mio
lavoro, mi ha proposto di venire qui, come direttore della cooperazione. E'
stata una bella soddisfazione. Vuol dire che qualcuno ti apprezza, apprezza
quello che fai, come lavori. Mi ha dato fiducia e responsabilità. Sono
contento, è un lavoro stimolante. Come
vedi la situazione politica adesso, e il futuro del tuo paese? Eh, è una situazione difficile, molto difficile. Ormai,
anche se la speranza è sempre l'ultima a morire, non nutro però più alcuna
speranza che il Marocco possa convincersi che il Sahara è dei saharawi. Non
si convincerà mai, se non con una guerra! Hanno avuto tutte le possibilità
immaginabili per una soluzione pacifica del conflitto, per anni, ma non c'è
stato niente da fare. Io non vorrei dover tornare alla guerra, ma credo che
ormai non ci sia rimasta altra soluzione. Tutti vorrebbero la pace e godersi
la vita. Ma con il Marocco, credo che non ci siano alternative. E' dal 1976
che aspettiamo una soluzione pacifica! (mentre
parliamo, arriva il padre di Hamdi, che lavora anch'egli nello stesso
ministero de Equipamiento; mi fa piacere conoscerlo, dopo il racconto di Hamdi,
sulla loro lunga separazione). Mio padre ha lavorato per anni in questo
ministero. Sempre noi pensiamo di lottare e di lavorare per il nostro paese,
perché speriamo di essere anche noi un giorno un paese come il vostro: dove
la gente sta bene a casa propria; un paese che può aiutare gli altri, quelli
più poveri, anziché uno che deve chiedere e ricevere gli aiuti. Non
ti sei sposato da quando sei tornato? non hai bambini? No, non mi sono sposato e per il momento non ci penso. In
questa situazione, noi viviamo come sospesi. Aspetto ancora una soluzione alla
situazione del nostro paese, perché sinceramente, non è davvero bella l'idea
di crearsi una famiglia e fare dei figli per farli vivere profughi, in un
deserto come questo. Io vorrei qualcosa di meglio per la mia futura famiglia,
che non stare a soffrire qui, non avendo nulla da offrirle, per avere una vita
bella da vivere. Dunque, aspetto ancora uno o due anni, per vedere cosa
succede, e poi prenderò una decisione, e se non ci saranno alternative, farò
quello che fanno tutti: mi sposerò qui, tra questa sabbia. Ad ogni modo, non
sono uno che si conforma alla maggioranza, e non mi interessa fare tanti
figli, come molti fanno tra i saharawi. Dunque, ho ancora tutta la vita
davanti! Grazie
Hamdi. E' stato bello ascoltare la tua storia.
*****
Poesie della diaspora[2] La generazione di cui fanno parte Luali e Saleh (come
abbiamo visto per Brahim e Hamdi), attualmente trentenni, è caratterizzata da
una storia comune: una prima infanzia nel Sahara Occidentale, allora colonia
spagnola, bruscamente interrotta dall'invasione marocchina e dalla fuga della
popolazione civile attraverso il deserto fino in Algeria. A seguito di accordi tra il Fronte Polisario,
rappresentanza politica e militare della popolazione Sahrawi esiliata, ed il
governo cubano, centinaia di bambini Sahrawi vengono accolti a Cuba per gli
studi secondari (scuole medie inferiori e superiori) ed universitari, al
termine dei quali ritornano, oramai uomini e donne, nelle tendopoli algerine.
Luali e Saleh erano tra questi bambini. Il deserto, la sabbia, la polvere, il vento, il calore
insopportabile fanno da cornice alla ricerca di un’ identità che
difficilmente si incontra, in bilico tra la "leggerezza del vivere"
cubana e le rigide leggi mussulmane che, per quanto stemperate dagli anni di
esilio, dalla tolleranza ed accoglienza tipiche delle culture nomadi, e dai
continui contatti con le culture occidentali, vengono difese come stendardo di
un popolo a rischio di estinzione. La frustrazione dell'attesa è un altro tema ricorrente: l'assenza di orizzonti - non si torna alla guerra, non si fa il referendum - Il tempo passa e si dimentica anche il perché dell'attendere, non ha più senso programmare, progettare. Gli studi fatti perdono di significato se la cornice in cui viverli e concretarli è perennemente temporanea. Così poco a poco i giovani intellettuali stanno decidendo di andare a vivere altrove (Spagna, Mauritania, Italia), e quelli che rimangono sempre più soli ed isolati, in bilico tra i ricordi, l'utopia ed un futuro incerto, si preparano a fuggire.
Poesie di Luali Lehsan Salama
Poesie
di Saleh Abdallahi Hammadi
PARTE EMBARKA
BRAHIM Embarka è un mito tra i saharawi. La conoscono praticamente tutti. E' una pietra miliare nella storia del movimento di liberazione, testata d'angolo nella costruzione della vita del popolo in esilio, quando gli uomini erano al fronte, e tutta la sopravvivenza è passata nelle mani e sulle spalle delle donne. La sua tenacia e capacità organizzative sono state fondamentali. Rimane tutt'oggi uno dei maggiori rappresentanti del movimento femminile, ma si rilassa anche a fare la nonna, pur senza tralasciare gli impegni politici. Mi racconta la sua storia con la consapevolezza profonda della necessità di far conoscere al mondo la fatica del suo popolo. Non mancano, durante il racconto, i momenti di commozione, ma proprio per questo, mi chiede di sorvolare su quei ricordi lontani, più dolorosi, che ora cerca di superare. Siamo sedute nella sua grande
tenda, fatta di un bel tessuto bianco e azzurro. I bambini (figli e nipoti)
vanno e vengono, con fare da scugnizzi pepati e birichini!
Si divertono ad ascoltare i racconti della nonna, con questa amica col
registratore… Traduce per me la figlia Nasra, questa volta almeno direttamente
in italiano. Poi capirete il perché. [Nella foto, Embarka prende l'acqua pulita dalla cisterna] Eravamo una famiglia semplice, normale, numerosa. Mio
padre lavorava per l'esercito spagnolo. Si è sposato due volte, così ho avuto
due madri e molti fratelli e sorelle! Sono
nata a El Ajun, come mio padre, nel 1955, e sono andata a scuola fino alla 3°
media. Mi sono sposata a 13 anni, con un matrimonio combinato, come si faceva
allora. Mio marito aveva 34 anni. Aveva già due mogli, e dopo di me ne ha avuta
una quarta! Ma
tu eri contenta, ti piaceva? (ride!) Non sono mai stata contraria a questo matrimonio. Sì, ero
contenta. Cosa
ti ricordi della vita all'epoca degli spagnoli? Ho cominciato presto ad entrare nel movimento di
liberazione, subito dopo sposata, alla fine degli anni '60, quindi ero molto
giovane. Il movimento era nato proprio contro la dominazione spagnola, e mio
marito ne faceva già parte. Nel '70 erano cominciate le manifestazioni di
protesta, per far sì che gli spagnoli se ne andassero, ed essere indipendenti.
Gli spagnoli hanno risposto con le armi, ci sono stati molti morti. Il leader
del movimento sparì, non si seppe mai più nulla di lui, se lo avessero ucciso
o altro. Molti furono fatti prigionieri, tra cui
mio marito. Prima fu messo ad El Ajun, poi a Dajla. Qui, la prigione era
in mezzo al mare, nell'Atlantico. Rimase prigioniero per più di un anno, poi fu
mandato in esilio, condannato a non fare mai più ritorno in Sahara spagnolo.
Andò in Mauritania, e io rimasi a casa, in un primo tempo. Avevamo già due
figli. Ad un certo punto, decisi di partire anch'io e di raggiungerlo. Dal 10
maggio del 1973 tenemmo in casa nostra il congresso di fondazione del Fronte
Polisario, in Mauritania. Lì è cominciato il programma di liberazione e di
lotta, contro gli spagnoli e contro il Marocco. Lì, in casa nostra, furono
definiti i compiti e i ruoli di ciascuno: politici, militari e sociali. Il
gruppo politico tornò poi nei territori occupati per fare attività di
propaganda e sensibilizzazione tra la gente. Anch'io mi occupavo di questo, ed
ero l'unica donna presente. Mi occupavo quindi anche di preparare i pasti per
tutti! Come
mai eri l'unica donna, non erano attività cui le donne partecipassero
normalmente? All'inizio fu più una cosa degli uomini. Io vi partecipai
innanzitutto perché gli incontri si svolgevano in casa nostra. Bisogna dire però
anche che eravamo in esilio, e di donne all'epoca ve ne erano poche tra di noi.
Io ero andata in Mauritania per seguire mio marito, e per un certo periodo sono
stata la sola donna. Tutto il movimento è stato assolutamente segreto e
clandestino. Nessuno sapeva nulla tra i mauritani. Quanti
erano all'incirca i partecipanti di questo primo incontro? Non ricordo bene, ma circa una quarantina di persone.
Alcuni erano stati prigionieri, come mio marito, altri avevano lasciato il paese
per loro scelta. Fu un periodo molto difficile, che ricordo con molta
fatica. Avevamo difficoltà di ogni tipo, non avevamo una casa stabile, e tante
persone vivevano insieme, non avevamo soldi, c'era poco da mangiare. In
Mauritania eravamo tenuti sotto controllo, nessuno poteva aiutarci, se anche
voleva. Proprio in quel periodo… mi accorsi di essere incinta del mio terzo
figlio! (che poi sarebbe stata Nasra, che
ora mi fa da interprete). Ero ancora molto giovane, ero in un paese
straniero, ed ero sola! Senza parenti per aiutarmi… ancora incinta!
Quando ho partorito, non c'erano altre donne con me, e non avevo diritto
ad andare in ospedale in Mauritania. Mio marito andò a cercare delle ostetriche
tradizionali. Nonostante tutte le difficoltà, la causa che sentivamo, i
motivi della nostra lotta, ci facevano superare tutto. Il Fronte Polisario, sia
militarmente sia politicamente, prendeva sempre più forza. Le manifestazioni
antispagnole, nei primi anni '70, sono diventate sempre più pressanti. Fino
all'arrivo dell'ONU. Lì la forza saharawi, il loro spirito di identità
nazionale, si sono fatti sentire per la prima volta con determinazione, e il
programma del Fronte Polisario è venuto definitivamente allo scoperto. I paesi
confinanti, Marocco e Mauritania, a quel punto - preoccupati dalla forza che il
Sahara occidentale avrebbe potuto acquisire diventando dei saharawi -
hanno cominciato a farli prigionieri. Io, dalla Mauritania, sono stata
costretta a tornare ad El Ajun. E' cominciato così il mio ruolo attivo dentro
il Fronte, nel far passare informazioni tra i due confini. Questo è andato
avanti fino al momento degli accordi di Madrid, il 14.11.1975. Da quel momento,
dopo l'accordo segreto tra Spagna, Mauritania e Marocco, è cominciata la
guerra. Non si può descrivere ciò che abbiamo provato in quei
momenti. Abbiamo solo deciso di scappare, perché abbiamo capito che se fossimo
rimasti, sarebbe stata la fine. Dov'era
tuo marito? Era a combattere. Quindi
ti sei ritrovata sola, con chi eri? Ero con la famiglia di mio marito, e con i miei figli. E
come è avvenuta la fuga? Avevate dei mezzi o siete andati a piedi? Quando sono scappata, ho preso solo Nasra con me, che era
la più piccola. Gli altri bambini sono rimasti con i nonni. Non si pensava di
andare via per un periodo lungo. Ma non si può immaginare quei giorni di fuga! Chi è
andato a piedi, chi sui cammelli, chi ha trovato un passaggio su auto o
camion... Io ho trovato un posto in una macchina, e siamo andati via in gran
segreto perché i marocchini erano già entrati in El Ajun. Siamo andati verso
oriente, abbiamo organizzato dei campi, con piccole tende, prima di capire dove
andare, e in quel periodo siamo stati bombardati dal Marocco. Sono morti molti
civili. Poi l'Algeria ci ha dato la terra dove adesso è la sede
della RASD in esilio, e siamo venuti qui, dove siamo stati al sicuro. Prima
siamo arrivati a Rabuni, in una situazione durissima. Non avevamo nulla,
assolutamente nulla. Poche tende, nessun cibo, niente medicine. Eravamo soli, in
mezzo alla sabbia. Ci sono state molte malattie, e sono morti molti bambini. Non
avevamo medici, e neppure insegnanti per stare con i bambini. Abbiamo avuto tanta volontà e tanto coraggio, per
arrivare a organizzare i campi come li vedi oggi. Il lavoro delle donne è stato
importantissimo. Eravamo quasi solo donne qui, con gli anziani e i bambini,
mentre i nostri uomini erano a combattere. E tieni conto che per la maggior
parte eravamo tutte donne analfabete, senza nessuna formazione culturale. Non c'erano infermiere o educatrici, nulla. Avevamo solo
la nostra volontà. Ci sentivamo investite dalla lotta per la nostra causa. Così,
ho chiuso gli occhi, e ho lottato. Abbiamo fatto tutto: costruito degli uffici
per lavorare, e poi classi per raccogliere i bambini a studiare, e chi tra noi
aveva un livello di formazione appena superiore alle altre, era coinvolta per
lavorare con i bambini e insegnare. Per la generazione di bambini nati tra il
'75 e il '76 è stato molto duro. Moltissimi ne sono morti, perché non avevamo
come curarli, non c'erano vaccinazioni. Molti morirono di morbillo, e
l'alimentazione era molto limitata, povera. E' impossibile raccontare la situazione di allora, e
quando ne parliamo a volte non veniamo credute, sembra che esageriamo. Io cerco
di dimenticare ciò che abbiamo passato. Non voglio più raccontare nei
particolari. Ma proprio se penso a ciò che abbiamo vissuto per tanto tempo,
trovo ancora più forza per andare avanti nella lotta. Provo grande soddisfazione, e orgoglio anche, quando penso
a tutto il lavoro fatto, a come siamo riuscite ad organizzare questi campi, con
le scuole per i bambini, e tutto il necessario alla vita sociale. Le donne hanno
potuto emanciparsi, avanzare il loro livello di formazione. Sono diventate una
vera forza politica. Il movimento delle donne è nato nel '76, per necessità,
ma poi è diventato una forza di emancipazione delle donne, e in generale di
sviluppo sociale. Di conseguenza è diventato anche un interlocutore
internazionale, perché è all'interno della vita dei campi, ed è stato in gran
parte al movimento delle donne che si sono rivolte, negli anni, le associazioni
di solidarietà da tanti diversi paesi. Le
donne hanno organizzato il sistema per far andare all'estero a studiare i loro
figli e figlie. E poi, per le donne e le ragazze, fu costruita la scuola
"27 febbraio", dove anch'io ho studiato, con il primo gruppo di
iscritte. Ci divisero secondo la formazione che avevamo: chi studiava da
infermiera, chi da segretaria, o da insegnante, o semplicemente si studiava la
tecnica tradizionale dei tappeti, e la sartoria. Chi
erano gli insegnanti? Venivano da fuori o erano saharawi? All'inizio furono scelti tra coloro che avevano studiato,
uomini o donne, tutti saharawi. Poi, man mano che le donne finivano gli studi,
diventavano esse stesse insegnanti, anche per le altre scuole di altre wilaya. Quindi
qui tra voi non vi è mai stata quella dimensione che si trova in tanti altri
paesi musulmani, dove gli uomini impediscono alle donne di studiare. Erano gli
uomini stessi i vostri insegnanti, in alcuni casi. Il nostro popolo non hai mai avuto quelle idee verso le
donne. E inoltre, la situazione era tale che sarebbe stato impossibile escludere
le donne da ruoli di responsabilità, vi erano praticamente solo donne qui!
In ogni caso, per noi l'islam è un fatto personale. La fede è qualcosa
che ciascuno di noi si vive con se stesso, per i fatti propri. Quando
sei riuscita poi a riunire la famiglia, ad avere con te tutti i tuoi figli? Nel 1976 mia suocera è venuta qui con i miei figli,
mentre mia madre è rimasta nei territori occupati. Non ci siamo mai più
riviste. Alla
scuola 27 febbraio, tu che corsi hai frequentato? Io mi sono iscritta ai corsi per fare i tappeti. Nel 1980
ne sono diventata la direttrice, poi abbiamo avviato una fabbrica, e io sono
diventata la responsabile. Nel '91 sono diventata direttrice di tutta la scuola
27 febbraio, fino al '94. C'era tantissimo lavoro, e dovevo anche tirar su la
famiglia, i ragazzi che crescevano. Ma sono sempre stata attiva
nell'organizzazione delle donne. Adesso ho lasciato la direzione della scuola,
ma continuo ad occuparmi della fabbrica, che fa tappeti e cuscini. …E' difficile adesso. Questa situazione di attesa, dove
non si vede neppure uno spiraglio, non si capisce come andremo a finire… Il
mondo è amico solo dei più forti, e solo il più forte può incidere, e
vincere… Per questo noi invitiamo la gente a stare con noi, per far capire
quali sono le nostre ragioni, quello che chiediamo. Vogliamo mostrare che noi
non siamo mai stati violenti o belligeranti. Noi chiediamo ciò che ci spetta di
diritto. Noi siamo sempre stati con l'ONU, per far in modo che tutto andasse
pacificamente. Per anni abbiamo aspettato un referendum, ma non è stato fatto
nulla. Non chiediamo nulla di pazzesco, o di impossibile. Chiediamo solo di
stare tranquilli, a casa nostra. Non siamo venuti qui per farci mantenere come
profughi. Vogliamo tornare a casa
nostra. Non chiediamo soldi o aiuti economici, ma chiediamo sostegno contro il
Marocco. E
mentre i marmocchi continuano a girarci intorno con i loro occhietti furbi e
provocatori, prometto a Embarka di fare il possibile per dare eco al suo
appello. *****
Nasra
è una giovane donna, allegra e solare, poliglotta, nata profuga, da una
famiglia in fuga. Mentre lei navigava nell'utero materno, suo padre ero
imprigionato, liberato, esiliato,… I suoi genitori diventano rivoluzionari
clandestini, tra i fondatori della lotta di liberazione del popolo saharawi. Ha
avuto la fortuna (…forse mai nulla avviene per caso) di incontrare una
famiglia italiana che l'ha aiutata a crescere. E lei… è cresciuta. E'
cresciuta tanto, e ora può dare ad altri bambini e ad altre famiglie ciò che
il Caso e la sua intelligenza le hanno consentito di mettere a frutto. Sono nata nel '74 in Mauritania, perché mio padre - che
faceva parte del Fronte Polisario - è stato prima incarcerato poi scacciato
dagli spagnoli e mandato via dal Sahara spagnolo, nel '72. Mi madre lo ha
seguito nel '73, e la loro casa è diventata un punto di riferimento per tutti i
saharawi espatriati. Quando sono venuta qui nei campi, nel '75, ero quindi
piccolissima. La mia infanzia l'ho vissuta qui, e qui ho fatto le scuole
primarie. Nel '91 sono andata in Italia in vacanza, insieme ad altri bambini, ma
poi ho avuto dei problemi di salute, così il soggiorno si è prolungato. Una
famiglia italiana stava cercando un bambino da adottare, o da prendere in
affidamento, e trovò un bambino saharawi. Così mi sono fermata in Italia, e ci sono rimasta 5 anni.
Questa famiglia, di Anzio, mi ha presa in carico per tutto il tempo che ho
passato lì, completamente, e mi ha consentito di studiare in Italia. Ho fatto 3
anni delle scuole superiori, poi due anni di Informatica. Finita questa scuola,
ho deciso di tornare a casa. Volevo stare con la famiglia, e poi volevo dare il
mio contributo, aiutare il mio paese con le conoscenze che avevo acquisito.
Prima ho lavorato con un'organizzazione norvegese che si occupa del problema
delle mine. Eravamo alla vigilia del referendum, o almeno così sembrava. E
siccome pensavamo di tornare in Sahara, c'era il problema dell'attraversamento
delle zone minate. Purtroppo, questo non è avvenuto. Ora lavoro con il
Ministero della Cooperazione, per cui seguo diversi progetti e faccio
l'interprete, specie con l'italiano naturalmente, ma anche con l'arabo. Poi mi
occupo a volte di accompagnare le delegazioni straniere che vengono qui,
soprattutto dalla Spagna. Un progetto che seguo personalmente riguarda i bambini
celiaci, ovvero che hanno intolleranza al glutine. Questo problema è stato
scoperto proprio da una delegazione di ricercatori italiani nel '97, ed è un
problema piuttosto grave da affrontare dato che qui non abbiamo grande varietà
di cibi, essendo nel deserto, e molti sono a base di farinacei. Pane, pasta,
cus-cus,… loro non li possono mangiare. Inizialmente il progetto copriva circa
120 bambini, purtroppo oggi siamo arrivati a 300, in meno di due anni, e
sappiamo che sono di più, perché molti sono ancora quelli che non hanno fatto
analisi specifiche. Il progetto consiste nella distribuzione di farina senza
glutine (6 kg al mese) ai bambini identificati, e ora sta andando abbastanza
bene. Il progetto è del Cospe, di Firenze, finanziato dall'Unione Europea. Ogni
anno poi cerchiamo di portare in vacanza all'estero i bambini che hanno problemi
di salute, per farli curare, e perché possano conoscere in cosa consiste la
loro malattia, che non guarisce, ma necessita di cure per tutta la vita. Bisogna
che sia loro che le loro famiglie capiscano questo aspetto del problema, che è
forse la parte più difficile. Io bambini celiaci non possono mangiare come gli
altri, mai. Quindi lavoriamo con 300 famiglie, a crescere. Il laboratorio di
analisi esamina sempre nuovi bambini. Avete
avuto già dei risultati sui bambini in cura dal progetto? Sì, senz'altro, soprattutto su quelli che hanno
cominciato da più tempo, e che sono andati in Italia già per il secondo
periodo di cure. La prima volta che sono arrivati là erano magrissimi,
emaciati! Alcuni avevano il tasso di emoglobina bassissimo.
Abbiamo anche cercato un sistema per rifornire maggiormente questi
bambini di verdure fresche, perché la sola farina senza glutine non era
sufficiente a farli riprendere; avevano bisogno di un'alimentazione più
completa. Però questo si è potuto fare solo per qualche tempo, perché non vi
erano finanziamenti sufficienti. I bambini erano in aumento, e non si riusciva a
comprare cibi freschi per tutti. E' così che si è avviata un'altra attività:
quella dell'adozione a distanza. Delle famiglie in Italia mandano una cifra
mensile, circa 15-20 Euro, per ciascun bambino. Funziona bene, e sono già un
centinaio i bambini che ricevono questo contributo. Per me è importante che le
famiglie sappiano esattamente a cosa servono questi soldi, in cosa consiste la
malattia dei loro bambini. Sai, viene magari da prenderla alla leggera, e da
usare i soldi per le tante necessità che una famiglia ha in questi campi.
Quindi si fa un'attività di formazione continua sulla gravità della malattia,
sulle sue conseguenze, quindi su come alleviarne gli effetti. Dopo due anni di
lavoro, i risultati si vedono. Circa 3 volte l'anno riesco a vedere tutti i
bambini, nelle diverse wilaya. Come
avviene la distribuzione? Qui a Rabuni abbiamo un mezzo per portare i sacchi di
farina in ciascuna wilaya, nel deposito di ogni ospedale, dove abbiamo un
collaboratore responsabile dello stock. Ogni daira poi ha una mamma responsabile
della distribuzione, che sa quali sono i bambini destinatari che partecipano al
progetto. I
bambini celiaci quindi cosa mangiano, per esempio il cus-cus non possono
mangiarlo? No, perché contiene glutine. In questi due anni di
attività, con le donne abbiamo cercato di studiare nuove ricette, per variare
un po' la scelta tra i cibi senza glutine, ma non è facile. In Europa si trova
tutto già pronto: vari tipi di pasta, di pane, anche la pizza… Qui invece
abbiamo solo la farina, che è mista di mais e riso, e le mamme devono fare
tutto a mano, e non è facile da lavorare come la normale farina bianca di
frumento. Per questo sarebbe utile se ci fosse qualcuno in grado di insegnare
alle mamme delle ricette apposta, da realizzare con questa farina, disposto a
venire qui per qualche tempo, a fare corsi di cucina per celiaci! …Ho capito,
abbiamo un appello da fare durante il tuo prossimo viaggio in Italia:
"cercasi cuochi senza glutine per bambini profughi in mezzo al
deserto"…! A proposito, presto sarai nuovamente in Italia, vero? Come hai passato i 5 anni in cui hai vissuto nel mio paese? Ah, sono stata benissimo. Quando sono in Italia mi sento
come a casa, non mi sento una straniera. Vado ovunque, senza problemi. Sono
arrivata da voi quando avevo 17 anni, e non sapevo la lingua. I miei studi fatti
in Algeria non erano riconosciuti, così mi sono iscritta alle superiori ma al
contempo ho dovuto studiare per riprendere il diploma di terza media. Facevo due
scuole contemporaneamente! Le superiori al mattino, le medie alla sera. Ti
hanno preso alle superiori anche se dovevi rifare le medie?! Sì, perché sapevano che frequentavo la sera, quindi si
sono fidati e mi hanno aiutata, accettando l'iscrizione lo stesso. Una
scuola al mattino e un'altra al pomeriggio… E quando potevi studiare?! Sì, è stata un po' dura, ma i professori mi hanno
aiutata. Io ci tenevo tantissimo ad andare avanti e diplomarmi, e loro vedevano
la mia volontà e la determinazione. Come
ti sei trovata con la famiglia italiana? Benissimo. Sono davvero la mia seconda famiglia, io li
chiamo mamma e papà quando vado da loro. Come
li hai incontrati? Avevano altri figli? Avevano una figlia, più piccola di me. Li ho incontrati
alla rappresentanza saharawi a Roma. Loro cercavano di "adottare" un
bambino, ed erano venuti in sede per incontrare un bambino celiaco che aveva
bisogno di una famiglia per stare in Italia a curarsi. Quando vennero, trovarono
anche me, che ero lì per altri motivi. Anch'io non stavo bene in quel periodo,
e cercavo una possibilità per restare in Italia anche per studiare. Quando
hanno deciso di prendere il bambino hanno detto … "allora prendiamo anche
la ragazza che è qui con lui!". Così siamo rimasti entrambi con loro, il
bambino è rimasto due anni, poi è tornato ai campi. Mi sono trovata bene
subito, non ci sono mai stati problemi. Erano una coppia giovane, sui 40 anni. Quanti
sono i bambini che vanno in Europa ogni anno? L'anno scorso in Italia sono andati 600 bambini; in Spagna
ne hanno presi circa 8000. La Spagna ha una storia diversa con i saharawi,
naturalmente. E anche il lavoro fatto con i bambini è diverso. In Spagna i
bambini vanno singolarmente presso delle famiglie, per un paio di mesi, mentre
in Italia si tratta soprattutto di gemellaggi con comuni e associazioni, che
organizzano dei centri estive per le vacanze e la cura di chi ha problemi di
salute. Vanno quindi in gruppi di 10, 15, 20 bambini, in paesini diversi, per un
paio di mesi, seguiti da un accompagnatore saharawi. Ci sono anche in Italia
delle famiglie che prendono i bambini ma per periodi più brevi. Abbiamo gruppi
di bambini in tutta Italia, da nord a sud. Io vengo a coordinare un po' il
tutto, per vedere le necessità o le emergenze. Nasra,
tu eri piccola quando la tua famiglia ha fatto la guerra, ma quali sono i
ricordi che hai dei primi anni della vita nei campi, o quali sono i ricordi che
senti più forti, rispetto a ciò che hai sentito raccontare in famiglia? La mia infanzia è stata qui nei campi. I primi anni sono
stati molto difficili, c'era davvero la fame. Le nostre famiglie ci lasciavano
tutto il tempo a scuola, e le scuole erano più dure rispetto alle vostre. Si
respirava anche a scuola un'atmosfera severa, militare. Eravamo in guerra, e
anche il sistema educativo ne risentiva. Ci facevano studiare dalla mattina alla
sera, e tutto doveva essere fatto con molta precisione e disciplina. Insomma,
c'era molta rigidità. Non c'era quasi spazio per il gioco, e giocattoli non ne
avevamo. L'unica possibilità, all'epoca, erano i giochi di gruppo. Sì ne ho
dei ricordi un po' duri, ma comunque è andata, e i ricordi piacevoli non
mancano. Non ho ricordi di guerra. La guerra non arrivava qui nei campi.
Sentivamo dei discorsi, tra adulti, ma siamo sempre stati tranquilli, al di
fuori della guerra. Ma
che effetto ti fa il fatto di vivere sempre "in attesa"? in un campo
profughi, sempre precari, sempre ad aspettare qualcosa che non arriva mai…
Siete qui sempre provvisori, con l'idea di andarvene. Come si vive in questo
modo? Che effetto ti fa? Sì, sono sempre cresciuta con questa idea che "un
giorno ce ne andiamo,… un giorno torniamo alla nostra terra…". Ci sono
certamente momenti di grande scoramento. A volte ti viene da pensare "in
tutti questi anni… non è mai stato fatto niente, perché si dovrebbe fare
qualcosa adesso? Non cambierà mai niente!" Ma in realtà, penso che prima
o poi qualcosa succederà, e che noi andremo nel Sahara Occidentale. Certo si
sente la precarietà, non si riesce mai a fare progetti a lunga scadenza. Pensi
di fare qualcosa, però poi quello che hai messo in piedi devi abbandonarlo,
oppure pensi di mettere su famiglia, sapendo che però la casa che fai la dovrai
abbandonare. Qualsiasi decisione che prendi, sai che è temporanea. Eppure
qualcosa devi fare, non si può stare sempre ad aspettare, perché intanto gli
anni passano, e la tua vita se ne va… Tu
credi che raggiungerete i vostri obiettivi? Io credo che anche se ci sono molte difficoltà, le
soluzioni possibili sono molte, e con pazienza prima o poi si arriverà a
trovare un accordo col Marocco. Non
pensi ad un'altra possibile guerra? (Nasra, mi risponde confusa e sconvolta). Io spero di no! Non voglio neanche pensarci. La sola idea
mi sconvolge. La guerra è orribile. La gente ricomincia a morire. A morire di
violenza, a morire di fame, di malattie… No! Non voglio proprio pensarci! Per
me possiamo stare qui anche altri 30 anni, ma prima o poi vinceremo. Senza fare
nessuna guerra. La guerra no… La
guerra non porta da nessuna parte! No, proprio non ci voglio pensare! (Strano,
forse è la solita differenza tra maschile e femminile. Tutti gli uomini con cui
ho parlato fino ad ora, mi dicono proprio il contrario). Cerco di cambiare
discorso. Nasra mi racconta ancora qualche ricordo della vita in Italia, di come
ci stava bene. Ma non ti è mai venuta voglia di fermarti lì, magari fidanzarti
a un italiano, e metter su famiglia? Ride! No, assolutamente! Ho sempre pensato di tornare dalla mia
famiglia. E poi…non potrei mai resistere pensando che io me ne sto lontana e
sto bene, senza problemi, mentre qui la famiglia soffre. Mi fa piacere tornare
in Italia ogni tanto, vedere la mia famiglia italiana, gli amici, ma io voglio
vivere qui, sono cresciuta qui, in questi campi, io sto bene qui. Lo
dice sorridendo, con gli occhi che le brillano. Ti
piace il deserto? Sì, tantissimo! Certo anche in Italia ci sono posti che
amo molto, ma qui ci sono cose che non potrei mai scambiare con nient'altro! C'è
questa luce, questo cielo… Grazie
Nasra, per avere raccontato la tua storia, e per tutte le cose che fai. E
mentre i suoi occhi luminosi spaziano sull'immensità del Sahara, io mi sento
felice di essere qui, e di incontrare questa gente. PARTE
4.
Solidarietà con il popolo saharawi. Alcuni
esempi di chi-fa-cosa e perché. Come si può facilmente intuire dalle descrizioni
dell'ambiente e dalle interviste di queste pagine, la vita in questo deserto non
è per niente facile. Ancor meno lo è per persone che da tanti anni
vivono con l'impressione e la determinazione di poter fare le valige da
un momento all'altro. Si costruisce ben poco, quando si ha un trasloco in
programma. Ragion per cui la Hammada dei saharawi non è
assolutamente una terra dalla quale si può trarre di ché vivere per tutti i
profughi che vi sono rifugiati. Hanno bisogno di tutto. Chi ha un parente che
lavora lontano, in Europa, può farsi mandare un po' di soldi, può farsi
comprare un pannello solare, un frigorifero, o una bicicletta per un ragazzino,
ma certo non può farsi spedire pacchi di riso con cui sfamarsi, o litri di olio
per cucinare, o sapone con cui lavarsi e lavare le proprie cose, ecc. La sopravvivenza dei saharawi, e della loro causa, è
stata dunque legata in tutti questi anni alla capacità e alla disponibilità
delle politiche internazionali degli aiuti umanitari: dalle organizzazioni di
solidarietà della società civile, alle agenzie delle Nazioni Unite e
dell'Unione Europea. In quanto profughi, i saharawi hanno beneficiato a lungo
del sostegno dell'HCR - Alto commissariato delle NU per i rifugiati -
nonché del PAM - il Programma Alimentare Mondiale - ai popoli in stato
di calamità. Gli equilibri che
regolano la disponibilità dell'una agenzia o dell'altra a elargire più o meno
quantità di beni, sono evidentemente legati alle scelte politiche
internazionali (multi/bilaterali), e a come la comunità degli stati intende
gestire un dato problema. Negli ultimi anni, non è un caso se i campi saharawi
hanno visto ridursi sempre più gli aiuti da parte delle Nazioni Unite, mentre
quelli dell'Unione Europea sono proporzionalmente aumentati di parecchi milioni
di euro. Nell'anno 2002, ECHO, l'agenzia dell'Unione Europea per l'emergenza, ha stanziato 14 milioni di Euro per i campi della Hammada, che vanno a finanziare beni di base. Per quanto riguarda gli alimentari si tratta principalmente di: farina, olio, legumi (fagioli e lenticchie), latte in polvere, tonno. Riguardo i non alimentari: coperte e prodotti per l'igiene quotidiana, e in piccola parte abbigliamento per bambini di età scolare.
Il
racconto di Giulia Olmi Giulia
si occupa dei programmi del CISP in Algeria e nei campi dei rifugiati sahrawi,
ma in Italia è una delle fondatrici dell’Associazione di solidarietà con il
popolo sahrawi. Nel 1984 il
CISP, che era nato da poco e di cui facevo parte, svolgeva attività di tipo
informativo e di approfondimento circa i rifugiati in diverse aree del mondo. Io
mi occupai, per esempio, dei rifugiati dell'Ogaden in Somalia, e poi dei
rifugiati saharawi. Chiamai il rappresentante in Italia del Fronte Polisario e
ci proponemmo per fare qualcosa con loro. All'università stavo studiando
islamistica e arabo, per cui la situazione mi interessava particolarmente. I
progetti di una certa entità sono iniziati dal '93, con le disponibilità di
finanziamento dell'Ufficio Umanitario della Commissione Europea (ECHO). A me
interessava soprattutto la problematica del conflitto nel Sahara Occidentale, ma
l’impegno costante sul campo è stato possibile e si è consolidato grazie
alla continuità di progetti che negli anni, con il CISP abbiamo proposto e
realizzato. E’ stato il miglior modo per approfondire la conoscenza e
stabilire profondi legami con questa popolazione: lavorando insieme, discutendo,
affrontando le difficoltà, gli entusiasmi, le delusioni. Non so se senza questa
possibilità il mio impegno sarebbe continuato e cresciuto come è avvenuto in
questi 18 anni. Nell’84 avevo 22 anni, anche il Cisp era giovane, il mondo
della cooperazione in generale si cominciava a muovere. Non esistevano ancora
percorsi formativi definiti, ma si stavano creando. Adesso ci sono corsi di
specializzazione, master, ¼ Allora si cercavano occasioni per farsi le ossa
sul campo, per capire i meccanismi degli aiuti umanitari, le loro implicazioni
negli equilibri internazionali. La causa saharawi aveva di stimolante il fatto
di avere in Italia e in Europa una dimensione di movimento di base, di
riflessione politica. Questo era molto bello e coinvolgente. Era questo che mi
aveva attratto subito, poi mi sono appassionata anche del sistema degli aiuti
umanitari e della scommessa di trovare negli aiuti di emergenza, occasioni per
rompere l’isolamento dal mondo a cui questa popolazione sarebbe condannata: la
loro sopravvivenza non solo in senso biologico , ma come esseri umani, come
popolo. Ritornai nei campi nell’87, in un periodo in cui ero impegnata in un
gruppo scout, nella fascia degli adolescenti. Proposi loro di fare uno studio
sul significato e senso di parole come autodeterminazione, popolo, indipendenza.
Portai nei campi una trentina di scout, dopo un periodo di studio della storia
della causa saharawi, le risoluzioni dell'ONU, dell’OUA, articoli di giornale.
Era interessante vedere come la storia si costruisce con le azioni, i documenti,
le dichiarazioni, le risoluzioni e ancor prima con le nostre interpretazioni,
con le alleanze e le convenienze politiche. Tutto
quel periodo come lo vedi adesso, a distanza di anni? Ne hai soddisfazione, sei
riuscita a coinvolgere delle persone? Beh sì, c'è
stata una bella risposta. Ma in generale sono i saharawi che in Italia hanno
saputo far leva su un punto
importante: la connessione tra solidarietà alla loro causa e l'impegno della
società civile sul proprio territorio. I Comuni sono stati coinvolti, poi è
cominciata l'accoglienza dei bambini. Certo, non è una cosa nuova e nata con i
sahrawi, è stato fatto con molti altri, ma a quel tempo, nella prima metà
degli anni '80, era ancora una cosa piuttosto nuova. Una famiglia di un piccolo
comune italiano, si trovava in breve tempo a toccare un angolo di mondo mai
conosciuto prima, prendendosi in casa dei bambini saharawi. Si trovava quindi a
capire, con dei gesti quotidiani, il significato e il peso di una risoluzione
dell'ONU, di cui altrimenti forse non avrebbero nemmeno saputo l'esistenza!
In poco tempo, il Polisario ha seminato una conoscenza diffusa, nei
singoli paesi, nelle famiglie, su questioni internazionali prima sconosciute. Questo
poi era un po' il ruolo delle ong alle origini, il lavoro della Sì, ed era una cosa veramente
bella! In più c’era una fisica, perché c'erano i rappresentanti del Fronte
(e noi ne abbiamo avuto uno che era davvero un leader carismatico) e in molti
comuni venivano ospitate persone per motivi di salute, poi c'erano i bambini
nd’estate e nelle famiglie. Seguivamo
con ansia gli avvenimenti: le risoluzioni dell’ONU, dell’OU, gli incontri
diplomatici. Si organizzavano incontri, si sensibilizzavano i
giornalisti….Insomma, per me poco più che ventenne è stata davvero
un'esperienza straordinaria ed emozionante. C'era da conoscere le procedure
delle Nazioni Unite, e quando ci lavori è ben diverso che studiarle sui libri,
perché le vivi sulla pelle delle persone. Questo mi ha
accompagnata per tutta la vita. Attraverso i saharawi io sono cresciuta
professionalmente e come persona. Con loro ho conosciuto tantissime cose. Ho
toccato con mano il sistema delle relazioni politiche del nostro governo: a 24
anni andavo alle riunioni con parlamentari, Fronte Poliosario, senatori,
giornalisti, associazioni italiane. Era davvero bello, forte, positivo!
Ti fa crescere. Le prime volte che mi trovavo a pranzo con un senatore
non sapevo cosa dire! E' stato
insieme ai sahrawi che ho fatto queste esperienze, e questo naturalmente ti lega
profondamente. Tu
quindi come lo senti il saharawi, dopo 20 anni che vieni qui? Lo senti un No, né seconda casa né
seconda pelle. Anzi, questo ce l'ho sempre avute ben presente: io sono italiana,
ho un'altra storia, loro sono qui,
ed è da 27 anni che stanno schiattando qui. Ho dei legami forti con molti di
loro, ho persone che mi stanno a cuore, di quelle che conti tra le persone più
importanti della tua vita. Non sono mancate le delusioni, le persone che credevi
in un modo che poi hai scopert in un altro, o semplicemente che sono scomparse.
Come d’altra parte mi è capitato con altri amici e conoscenti non sahrawi. Ma
ci sono quelle che conosco da 20 anni, e che per tutti questi anni ho sentito
vicine, anche perché, per loro scelta, sono rimaste qui e le ho sempre
rincontrate. Alcune di queste persone, sono davvero parte della mia vita. Ma al
di là di questo no, non sento questa la mia famiglia, per un motivo molto
semplice: io non vivo qui. Io non sono disperata per un futuro incerto come
loro. Io ho casa mia, le mie sicurezze, il mio lavoro a Roma. E non mi sogno
minimamente di fare discorsi (come sento spesso in tanti stranieri che vengono
qui) del tipo "Ah sono con voi, mi sento uno di voi¼". La sola formulazione di queste frasi mi
sembra una presa in giro. Quando le sento, penso fra me e me "Ma che
accidenti dici? Fra due giorni tu te ne vai, te ne torni a casa tua, con le
lenzuola pulite, la Usl nel tuo quartiere¼ Ma come ti permetti?" Giulia,
vorrei un tuo commento sugli aiuti umanitari che ci sono stati in E' una
domanda da 10.000 punti! Ci vorrebbe un trattato. Questa tra i campi della RASD
è una situazione particolare. E' un territorio molto piccolo, e in un attimo
qui vedi di tutto. In altre situazioni, in altri paesi, hai milioni di abitanti,
grandi città, vasti territori¼ Qui tutto è piccolo, quindi fai presto a renderti
conto di tante cose, anche delle contraddizioni, i benefici, i nonsensi, ¼ Si fa
presto qui a capire se un progetto serve o non serve, se un'iniziativa è stata
utile o meno. Per di più, oltre ad essere un piccolo paese, sono tutti
appartenenti alla categoria dei rifugiati, sono minacciati. Non vivono in un
loro territorio, sono perennemente ospiti e dipendenti. Da un lato ti viene
immediatamente da chiederti che senso abbia fare delle azioni di sviluppo in una
situazione così precaria e così arida. D'altra parte, è chiaro che questa
gente deve andare avanti, e deve anche prepararsi ad un futuro "x",
che chissà quando verrà, in cui si gestiranno la loro economia. La contraddizione più grossa
sta nella domanda: cosa vogliamo fare di questa popolazione? Vogliamo a mala
pena che si reggano in piedi, che abbiano qualcosa nella pancia, ma che siano
vuoti dentro? O vogliamo dare loro le condizioni fisiche, mentali,
professionali, per gestirsi e costruire un proprio futuro? Il Sahara occidentale
ha coste pescosissime, grandi risorse minerarie e quindi una vita economica
forte. E sta in mano ad una potenza straniera: tutto questo è folle! Allora, che si fa? Chi
garantisce loro non solo di stare in piedi ma anche di vivere e ragionare? I fondi per l'emergenza si
occupano, ovviamente, solo dei sacchi di farina e poco più¼ Le
scuole sono a livelli bassissimi. Come sempre, nessuno si occupa di finanziare
l'educazione. Questa gente non ha niente da leggere. Tra avere un'alfabetizzazione
di base e comprendere un testo, sappiamo bene la differenza che ci passa!
Quindi, come fare un bilancio degli aiuti¼? E'
il bilancio della vita politica. Non è possibile staccare le due cose, tutto è
in funzione di giochi di appoggi e alleanze, in base ai quali si decide cosa
fare, cosa e quanto finanziare, dunque si decide della vita delle persone. Come
vedi la prossima svolta, ora che è crollata la speranza nel referendum? Guarda, dopo tanti anni¼non
mi viene più in mente niente altro che andare ad accendere un lumino nella
chiesetta, e sperare che ci sia qualche convenienza economica da parte degli
Stati più potenti che li convinca a non lasciare tutta questa gente nel fondo
del baratro! Come dire: "Oh
Gesù, ¼fai
che la Francia, gli Stati Uniti,
l'Inghilterra, abbiano un qualche interesse a far sì che questo popolo abbia
una terra su cui vivere!" Sara
di Lello. Sara
è una donna minuta. Non la diresti una veterinaria tosta. La
incontro alla fine del suo lavoro di circa due anni nel deserto algerino. Ha le
lacrime pronte in questo periodo: le costa molto lasciare questo posto, lasciare
persone a cui si è affezionata. Ma la aspetta un'altra avventura: …quella di
un figlio in arrivo. Le
chiedo di raccontarmi la sua storia, il suo vissuto. Immaginatevi il suo accento
milanese, sotto una veranda, di prima mattina, con la luce dell'alba e un
fortissimo vento che ci fa volare i turbanti (e che risento persino nella
cassetta registrata!).
Sono nata a Milano nel '71, a Milano ho fatto il liceo
scientifico, poi Veterinaria a Parma. Dopo la laurea, ho fatto un periodo di
volontariato in ufficio, alla sede SIVtro
(Veterinari Senza Frontiere) a Padova. Proprio in quel periodo, alcuni
veterinari sono partiti con un volo charter per i campi saharawi, e hanno
realizzato lo studio di fattibilità di un progetto, poi hanno proposto a me di
venire a metterlo a punto con le autorità locali, e di realizzarlo qualora
avessimo trovato il finanziamento, che chiedevamo al Ministero degli Esteri
italiano. Ho quindi lavorato alla stesura di questo progetto dal '97 al 2000,
anno in cui finalmente è stato finanziato grazie alla collaborazione con Africa
70 (di Milano), e così sono partita. Il dipartimento di veterinaria, qui esisteva solo sulla
carta e non in pratica. Moltissimi veterinari tornati dagli studi a Cuba erano
dispersi nelle tendopoli, senza un'identità e degli incarichi precisi. Noi
abbiamo lavorato sul rafforzamento istituzionale e la formazione. Il progetto ha
consistito proprio in questo: ripristinare il dipartimento e renderlo attivo.
Dare dei ruoli a ciascuno, creare una rete di servizi territoriali. Le
principali funzioni svolte dal dipartimento sono: l'ispezione della carne
destinata alla vendita, l'educazione sanitaria ai macellai, lo studio
sistematico dello stato di salute del bestiame: cammelli, pecore e capre (questo
ci ha preso tutto il primo anno di lavoro, con prelievi e analisi di campioni).
Il mio lavoro è stato nel coordinamento di tutto questo, con la formazione e
l'aggiornamento dei veterinari. A me si sono affiancati consulenti esperti per
periodi brevi, per fare formazione su aspetti specifici: per i tecnici di
laboratorio per esempio. Nel secondo anno abbiamo realizzato un corso di
omeopatia, con un veterinario omeopata venuto appositamente. Sul
piano professionale, quali sono stati gli elementi che ritieni di maggior
successo, che più ti hanno gratificata, e quali quelli di maggiore difficoltà? Guarda, difficoltà e gratificazioni per me sono state
legate ad uno stesso aspetto: io un po' per inesperienza un po' per idealismo,
avevo imposto che nel progetto vi fosse un solo espatriato, perché volevo che
fosse un progetto dei saharawi, non di persone straniere. Sostenevo che se fosse
venuta qui un'équipe numerosa dall'estero, questo avrebbe in qualche modo
inibito la loro voglia di partecipare. La gratificazione è stata quindi nel
riuscire a mantenere da sola l'unità e la partecipazione di questo gruppo di 18
trentenni scatenati, e naturalmente questa è stata anche la maggiore difficoltà.
Proprio il ritrovarmi da sola, senza punti di riferimento, senza persone con cui
parlare quotidianamente dei problemi da affrontare, che sono tanti,… per
esempio nelle relazioni con le autorità locali. Già,
dimmi. So che hai avuto problemi inizialmente, con i ministeri vari… Io lavoravo sul terreno, facendo formazione nelle 4
tendopoli, per cui non ero molto presente a Rabuni nelle relazioni sia con altre
Ong sia con i Ministeri, perché non era quello il mio ruolo.Né la mia Ong ha
mandato qualcuno a tal fine, se non molto tempo dopo, ad un mese dalla fine del
progetto. Questa mancanza di rappresentanza ha causato un po' di disinteresse
nei nostri confronti da parte delle autorità locali. Se poi aggiungi che
l'interlocutore per loro ero io, una donna, giovane,… ha creato una certa
diffidenza, sin dall'inizio. Mi sentivo guardata un po' dall'alto in basso, come
la ragazzina che dopo 10 giorni avrebbe mollato tutto e sarebbe tornata a casa
sua. Col tempo poi, ho visto proprio l'atteggiamento dei
ministeri cambiare gradualmente nei nostri confronti. Specie da parte del
Ministro della Salute, che è un uomo determinato, selettivo. Sa dire di no, ma
sa apprezzare e rettificare il proprio giudizio. A un certo punto, quando abbiamo cominciato a portare dati
concreti sul nostro lavoro, abbiamo visto la tacita dichiarazione di stima. Loro
cominciavano a chiederci consigli… Questa è stata certamente una grande
gratificazione e non solo per me singolarmente, ma per tutti i veterinari
saharawi, che adesso possono andare al Ministero e farsi ricevere, essere
ascoltati, con maggiore credibilità. E vengono sostenuti
e aiutati molto di più rispetto a prima. Prima di questo progetto, il dipartimento di veterinaria
dipendeva dal Ministero dell'Agricoltura. Il ministro della Salute ha voluto che
rientrasse sotto il suo Ministero, e questo è stato molto importante. Noi ci
occupiamo primariamente di salute pubblica, non di produzione maggiore di carne
o di latte. Il ruolo del veterinario riguarda la salute, non la produzione o il
commercio. Quando però il Ministro ha visto che di questo progetto me ne
occupavo io…non l'ha presa come una cosa molto seria! Che
cos'è che ti ha reso così determinata nel realizzare questo lavoro, da sola,
giovane, in un posto così difficile? Cosa ti ha spinta maggiormente: l'aspetto
professionale, l'adesione alla causa dei saharawi, …? Un po' tutto questo. Io volevo innanzitutto fare questo
lavoro, che è sempre stato il mio sogno, e alla prima occasione è chiaro che
ce la metto tutta. Io poi sono tenace per carattere: più difficoltà incontro,
e più mi viene voglia di mettermi in gioco. Dopo è subentrato l'affetto per
questi ragazzi. Passi con loro giorni e giorni, li conosci uno a uno, conosci le
loro storie, molte delle quali drammatiche… Cominci a conoscerli, a capire il
perché di loro comportamenti apparentemente strani: perché uno è pigro, perché
un altro mette i tappi nelle orecchie durante le riunioni… E allora non puoi
non affezionarti. All'inizio poi erano molto depressi professionalmente, perché
erano sottoutilizzati. Alcuni di loro facevano le vaccinazioni ai bambini, altri
si occupavano di acqua potabile,… perché il dipartimento come ti ho detto
c'era solo sulla carta. Quando è partito il progetto, si sono passati la voce
fra loro, laureati a Cuba: all'inizio erano 6 poi sono diventati 18. Io ho
sempre cercato di far rientrare tutti, e loro stessi si sono accordati tra loro
per dividersi il budget disponibile per gli incentivi, ma lavorare tutti. Questo
è stato molto apprezzato da loro e ha anche consentito di creare uno spirito di
gruppo che li ha rafforzati: loro adesso si sentono la categoria dei veterinari,
proprio perché sono stati inclusi tutti quelli presenti nelle diverse wilaya.
Naturalmente continuano ad avere grandi difficoltà tecniche, ma riescono ad
andare avanti per loro conto. Studiano sempre, e fanno tutto quello che possono.
Hanno anche conquistato una visibilità sociale e quindi una maggiore credibilità.
Come
sei arrivata ad avere con loro una relazione così stretta, ben più che
professionale, quasi fraterna? Per me è stato abbastanza naturale. Io giravo nelle varie
wilaya, quindi stavamo insieme a mangiare e a dormire, nelle loro case, in
tanti. In queste serate ad aspettare la cena (che da loro arriva a mezzanotte!)
si parla tanto… Così ci siamo raccontati la vita, loro chiaramente parlano
sempre di Cuba, e tra le cose allegre e gli aneddoti saltano fuori storie
pesanti. Tutti loro hanno lasciato a Cuba affetti forti, fidanzate,… o
comunque la parte più felice della loro vita. Raccontano la loro infanzia qui,
come sono cresciuti, quello che ricordano della fuga dal Sahara Occidentale.
Tutto sommato, nonostante la povertà, la loro qui è stata un'infanzia felice.
I loro racconti mi ricordano un po' il bambino de "La vita è bella":
la guerra non l'hanno vista veramente, e l'hanno vissuta un po' come un gioco.
Si tiravano pietre da una daira all'altra simulando gli scontri tra Polisario ed
esercito marocchino, con le scatole di sardine facevano le ambulanze,…
Facevano gli assalti al camion del pane perché avevano fame: uno saltava sopra
e buttava giù il pane per tutti. Un po' le cose che facevamo anche noi in
Italia, da piccoli, in campagna. Poco a poco, siamo diventati tutti una grande famiglia. Ci
vogliamo molto bene. Naturalmente non è uguale con tutti: ci sono quelli più
chiusi, o quelli che sono gentili con te solo perché tu sei responsabile del
progetto, ma con la maggior parte di loro si sono instaurate relazioni veramente
belle. E
adesso che hai finito il tuo lavoro, che torni in Italia dopo quasi due anni
qui, come ti senti? Tornerò senz'altro. E poi anche loro verranno in Italia.
Abbiamo deciso insieme di organizzare per tutti dei periodi di due mesi, a turno
due alla volta, per studiare, aggiornarsi, e anche per uscire un po' dalla vita
di qui. Ne hanno bisogno. Dunque, ci rivedremo. Non potrei certo pensare una
separazione definitiva! Come
sei riuscita a conciliare questa tua esperienza con la vita familiare? Eh, è stato difficile!
Io ho conosciuto mio marito mentre era assessore alla Pubblica Istruzione
e Cultura nel comune di Pian di Scò, in provincia di Arezzo, che era gemellato
con i campi saharawi. Dunque, l'ho conosciuto grazie ai saharawi! Io all'epoca
stavo già lavorando a questo progetto, anche se dall'Italia, per cui sapeva sin
dall'inizio che sarei partita appena possibile. E lui ha un rispetto totale per
il lavoro e gli interessi degli altri, quindi non mi ha assolutamente
ostacolata. Nonostante le difficoltà, abbiamo cercato di condividere questo
impegno. Lui è venuto due volte mentre io lavoravo qui. Non è stato facile,
soprattutto perché sono esperienze che ti cambiano profondamente, e quando
torni a casa a volte gli altri non capiscono e non riescono a condividere i tuoi
cambiamenti. Però ce l'abbiamo fatta, ci siamo sposati dopo un anno che
lavoravo qui. Certo è stato importante il fatto di condividere questo impegno,
sul piano politico e su quello sociale. Altrimenti non credo che sarebbe stato
possibile. Sara,
immagino tu sia piena di ricordi che potresti raccontare, ma ne hai uno in
particolare, più piacevole di altri? Sì, sicuramente è difficile scegliere un'immagine fra
tante … Ma sicuramente uno dei ricordi più belli è di quando mi sono
ammalata di morbillo. Otto giorni di febbre a 40, nessuno che capiva cosa
avessi! Avevo tutti gli amici
intorno che quotidianamente venivano in pellegrinaggio in ospedale portandomi
biscotti, formaggini, … mi prendevano le cose da lavare e facevano il
bucato… poi quando ho dovuto
ripartire per l'Italia mi hanno nascosto nello zaino una marea di provviste di
alimenti, e io nel delirio della febbre dicevo che volevo lo Stracchino, allora
loro hanno chiesto a un altro italiano cosa fosse lo Stracchino, e quando hanno
saputo che era un formaggio mi hanno riempito lo zaino di formaggini! Lì ho
capito che c'era un affetto vero. E
qual'è invece una storia che ti ha colpito particolarmente, tra le tante che ti
hanno raccontato, delle loro storie di vita? Mah, alla fine è quella che è un po' la storia di tutti:
questo grande amore per Cuba, dove non potranno tornare. Questo è un vissuto
collettivo, poi fra le tante ci sono le storie più drammatiche. Uno di questi
ragazzi, mentre era sull'aereo che partiva, ha visto la sua ragazza sulla pista
dell'aeroporto che si è data fuoco con la benzina. Se l'è vista morire sotto
gli occhi. E poi quelli che arrivati qui hanno scoperto che i genitori erano
morti da anni, e nessuno glielo
aveva detto… Sono storie drammatiche, ma molto comuni purtroppo, e questo se
non altro rende loro almeno un po' più facile il sopportarle, condividendole,
parlandone spesso tra loro. Pensi
che continuerai il tuo impegno per i saharawi anche una volta rientrata in
Italia? Spero di sì, anche se non è facile, perché non sempre
il mondo della solidarietà e quello della cooperazione si incontrano. Molti
gruppi per esempio pensano di fare solidarietà ma lo fanno in modo sbagliato. Per
esempio? Per esempio mandando aiuti con le carovane, senza poi
preoccuparsi della destinazione, per cui molte cose arrivano qui e poi si
perdono, oppure mandano cose non necessarie perché non conoscono i bisogni veri
della gente di qui, e ne ipotizzano altri che la gente non ha. Oppure
occupandosi solo dei bambini, che vengono accolti in Italia a volte come bei
balocchino da mostrare ai vicini di casa… Mentre chi ha bisogno di più qui,
secondo me, adesso non sono tanto i bambini, quanto proprio questa generazione
di trentenni. Loro hanno bisogno di esprimersi, di far sentire la loro voce, far
conoscere la propria storia. Credo che se fossero invitati loro in Europa, a
parlare del popolo saharawi, farebbero più presa di molti politici che parlano
in maniera più ufficiale, ma magari più soporifera. La loro storia, della loro duplice deportazione, di come
hanno perso per anni ogni riferimento, come hanno dimenticato la loro lingua,
perché sono cresciuti parlando e studiando solo in spagnolo di Cuba, per poi
essere rituffati qui, in un paese musulmano di cui non ricordavano quasi più
nulla, questa storia secondo me sarebbe più attuale e più rappresentativa del
popolo saharawi come è oggi, che non la storia della guerra e della lotta di
liberazione di 30 anni fa. Questi ragazzi sono il futuro di questa gente, e sarebbe
giusto dare la voce anche a loro. In questa società non si ritrovano, non
possono esprimersi, non possono neanche guardare una ragazza in pubblico
(figurati, cresciuti a Cuba!), …è chiaro che cercano di andarsene, di
emigrare. Ma
secondo te, dopo la delusione e l'amarezza del referendum che non si è
realizzato, cosa sentono questi ragazzi? Tornerebbero, per esempio, a fare la
guerra contro il Marocco? Fino a due anni fa si parlava molto di guerra, ma adesso
la depressione ha preso il sopravvento. Non ci si crede più. C'è quindi un
grande individualismo, dovuto allo smarrimento, e ognuno cerca una propria via
di fuga e sopravvivenza. Col caldo dell'estate poi è ancora peggio, perché col
grande caldo i depressi crollano del tutto. Tra quelli che io conosco, la
maggior parte sono completamente disperati, alla ricerca di un passaporto e di
un visto per andare via. E se io all'inizio dicevo che non è giusto, che
dovevano stare qui e lavorare nel loro paese,… dopo quasi due anni qui, se
posso aiutarli per avere un visto li aiuto! Anche perché comunque sono sicura
che il senso di appartenenza è ben forte, e se davvero ci fosse bisogno di loro
qui tornerebbero subito. D'altra parte, tutti si sentirebbero più utili alla
loro famiglia se potessero lavorare in Europa a mandare qui dei soldi, anziché
stare qui a fare quasi niente o a lavorare per due soldi. Grazie
Sara, e auguri cari, per la tua prossima avventura. (Una persona come te, deve
moltiplicarsi!) STEFANO
VACCARI,
SINDACO
DI NONANTOLA (Modena). Le organizzazioni e le iniziative di solidarietà verso il popolo saharawi negli anni, in Italia, sono state e continuano ad essere moltissime. Stefano Vaccari è stato fino al 2002 il coordinatore di queste azioni per l’Emilia Romagna. Ho chiesto a lui di dirci un come-e-perché un’amministrazione comunale decide di impegnarsi a favore di questa causa[3]. Nella regione Emilia Romagna nascono negli anni '90
delle associazioni di solidarietà con il popolo saharawi, che si legano
all’Associazione nazionale di Solidarietà con il popolo Saharawi (ANSPS) , e
avviano un lavoro di sensibilizzazione in stretto contatto con le esperienze
toscane, avviate molti anni prima. Successivamente tra il 1996 e il 1997 matura
l’esigenza, di costituire un coordinamento che in Regione possa aggregare
altri comuni, provincie, la Regione come istituzione (prima il Consiglio
Regionale e poi la Giunta stessa) e
amministratori locali che autonomamente e per scelte personali avevano già
conosciuto la causa saharawi, come nel mio caso. Io avevo conosciuto questo
problema già quando, da giovane, ero nella FGCI di Modena. E', per molti, una
conoscenza che viene da lontano. Comincia quindi a nascere la trama di un ordito
che lega enti diversi: piccoli comuni, associazioni, province, per coinvolgerli
in quelle che sono le due più importanti iniziative che l'associazione
nazionale svolgeva e svolge: da un lato l'accoglienza dei bambini nei periodi
estivi, dall'altro, le carovane degli aiuti. Questa trama ha trovato nella
Regione un supporto fondamentale per i progetti di cooperazione, con
l’istituzione di un Tavolo-Paese specifico per i saharawi, da parte
dell’Assessore Borghi. Può darmi
qualche dato numerico? Quanti sono i bambini che vengono accolti in Emilia
Romagna? Come province emiliano-romagnole abbiamo attualmente:
Modena, Bologna, Rimini. Questa rete in ER si è fatta promotrice nel
coinvolgere altri comuni confinanti, per esempio in Lombardia o nelle Marche Come le
sembra che sia quest’esperienza per il vissuto, l’impatto che ha sui
bambini? Io credo che sia molto positivo. Hanno la possibilità
di conoscere tante facce dell’Italia, girano molto, pur restando sempre in
gruppo, con l’accompagnatore che li guida, che è sempre saharawi come loro. I
bambini che vengono non sono sempre gli stessi, e così tanti hanno la
possibilità di conoscere istituzioni e famiglie che si impegnano nella
solidarietà verso il loro popolo, e questo è molto importante per loro.
Inoltre, va considerata l’assistenza sanitaria fornita a questi bambini.
Soprattutto negli anni passati, la priorità era data a bambini che avessero
bisogno di cure mediche. Era dunque un’organizzazione che cominciava mesi
prima, con le USL, le quali si accollavano su nostra richiesta i costi delle
visite mediche ed eventuali cure. In termini
economici quindi, per esempio, i viaggi dall’Algeria sono a carico di chi? Dell’ente ospitante: quindi le associazioni di
solidarietà con i relativi comuni di riferimento. Quindi è
una cosa anche piuttosto onerosa per i servizi pubblici, un impegno
solidaristico notevole. Sì. Tutto è diviso tra i comuni e le associazioni. I
comuni danno contributi economici oppure mettono a disposizione gli spazi per la
logistica: scuole per allestire dormitori e cucine, oppure mezzi ecc.
Noi quest’anno abbiamo fornito i pasti e sostenuto i costi della
struttura ospitante, che era la casa di una parrocchia. I costi comunque sono
sempre ridotti al minimo, perché c’è tanto volontariato. Quindi anche
una grande collaborazione tra istituzioni, società civile, mondo della
Chiesa… Qui l’organizzazione è più complessa. Fa
riferimento sempre alla Toscana, che coordina le necessità di materiale con la
Mezzaluna Rossa nei campi in Algeria. Occorre quindi vedere ciò che serve di più
e di meno: che sia materiale per la scuola, o abiti, o certi tipi di alimenti,
medicinali, ecc. quindi occorre verificare lo spazio disponibile sulle navi, o
sui voli charter. Poi si fanno i
conti delle risorse economiche disponibili, per coprire sia i costi dei beni sia
quelli del trasporto. E comincia la raccolta nei diversi territori attivata sia
dagli amministratori in prima persona che dalle associazioni e dai comitati
locali. In genere facciamo almeno una carovana all’anno. Veniamo alla
domanda politica: perché scegliere questa causa. Perché un’amministrazione
comunale, di un piccolo comune, o di una provincia importante, sceglie di
sostenere la causa del popolo saharawi? quale influenza spera / conta di poter
avere, SE spera di averla, o si
risolve solo in aiuto alle persone? Mah, fondamentalmente credo per un dovere delle
istituzioni di occuparsi dei problemi di chi ha meno strumenti di noi per
sopravvivere, o vedere rispettati i propri diritti. E questo credo davvero che
sia uno dei popoli più dimenticati, se vogliamo fare una bruttissima
graduatoria tra “chi sta peggio”, nel panorama di popoli che vedono
calpestati i propri diritti nonostante siano sanciti dai maggiori organismi
internazionali. Il ruolo di una
amministrazione comunale anche piccola, in quest’ottica, credo davvero che sia
un dovere, oltre che un diritto, con gli strumenti che la legge gli dà.
I gemellaggi (o patti di amicizia) ad esempio sono uno dei modi per legare in
modo solido un comune con una wilaya saharawi in esilio. Naturalmente è una
scelta che va motivata, come azione che in nessun modo vuole essere “contro”
qualcuno (ovvero i marocchini) ma solo “a favore di” qualcuno.
Nel nostro comune, abitano moltissimi marocchini uno dei quali siede in
Consiglio comunale come consigliere aggiunto, e certo nessuno
dell’amministrazione si è mai sognato di considerare in qualche modo il
popolo marocchino come responsabile delle sofferenze del popolo saharawi.
Lavoriamo per cercare di portare la nostra voce, ciò che rappresentiamo nelle
sedi che possono realmente fare qualcosa. Vi sentite
ascoltati in questo senso? Visto che dopo tanti anni non si è arrivati da
nessuna parte, vi prende un po’ di sconforto…? Sì un po’ di sconforto c’è, ma c’è anche la
determinazione a continuare, perché ti rendi conto che comunque l’azione
portata avanti in tutti questi anni a qualcosa è servita. Tutti i messaggi
mandati negli anni via fax, via e-mail, a questa o quella organizzazione, che
sia il governo italiano, l’Unione Europea, le Nazioni Unite, tutte le
iniziative di sensibilizzazione, i convegni, le delegazioni al Parlamento di
Strasburgo…fanno sentire l’adesione del territorio alla causa saharawi.
Quindi servono a spingere verso una soluzione anziché un’altra. Questo è
un ruolo importante che non bisogna dimenticare, perché complementare alla
solidarietà concreta. Adesso però,
dopo tanti anni di lotta politica e diplomatica senza esiti, pare che il Fronte
Polisario si sia stancato di sentirsi preso in giro, e che ci siano forti
pressioni per ritornare alle armi. Sì, c’è un dibattito aperto nel Fronte, ma
democratico, che dovrà essere sviscerato con il loro
prossimo congresso ad ottobre, e dovrà portare ad una decisione, chiara
e operativa. Certo io mi auguro che il Fronte non scelga di abbandonare la via
diplomatica, anche se comprendo la stanchezza e la frustrazione della gente, che
da 30 anni vive nella sabbia, senza una patria. Per non parlare degli altri,
quelli che sono rimasti all’interno del Sahara Occidentale, in condizioni
spesso denunciate da Amnesty International per il disprezzo dei diritti umani,
per la sparizione fisica delle persone, per le esecuzioni sommarie.
La strada delle armi era già stata presa in passato. Forse,
riprendendola, vincerebbero sul Marocco, perché per i saharawi il deserto è
davvero casa loro. Ma non voglio neanche pensarci. Sarebbe una sconfitta per
tutti. Si, molti
tra di loro sono convinti che sconfiggerebbero facilmente il giovane Mohamed VI.
Certo, per
la comunità internazionale è una, ennesima, tra le tante sconfitte. L’Onu
continua a fare “Risoluzioni” che non vengono rispettate, e si va avanti così!
Il Medio Oriente è l’esempio supremo. E così, mentre a oriente abbiamo
l’incendio dell’Iraq, il conflitto Israelo-palestinese che non vede la fine
dopo decenni di tentativi inutili perché neppure profondi e reali, ora si apre
forse un altro braciere ad occidente. Questo è uno scenario possibile, ma certo, se così
fosse, sarebbe un vero disastro. Se i saharawi decideranno per la ripresa delle
armi, il coinvolgimento di Algeria e Mauritania al loro fianco, contro il
Marocco, sarà inevitabile. Dunque, non si sa dove potrebbe portare. D’altra
parte, se la risoluzione diplomatica perseguita per 30 anni non ha sortito alcun
effetto, che cosa ci si aspetta? Che la gente rimanga a subire all’infinito?
Se poi i saharawi riprendono la via delle armi, sicuramente molti saranno pronti
a parlare di un “nuovo fronte terroristico” o un nuovo “fanatismo
islamico”…! Sicuramente! E tutti quelli che negli anni hanno
sostenuto i saharawi, incluse le amministrazioni comunali, …diventeranno
“amici dei terroristi”!!! Eppure, si
fa presto a dire “terroristi”. Ma se per 30 anni una lotta pacifica,
politica, diplomatica, non ha portato a nulla, cosa si pretende che faccia della
gente oppressa? Perfino la
religione cristiana sostiene il diritto a difendersi da chi ci opprime! Chissà
perché “i grandi della terra” considerano difesa solo quella che compiono
loro, mentre per gli altri il diritto a difendersi e a lottare per la
libertà non è contemplato, ma anzi diventa terrorismo. Io credo che
chiunque, proprio chiunque vorrebbe
fare a meno di imbracciare un fucile, o sedersi dentro un carrarmato, per poter
un giorno vivere in pace. Già. Speriamo non avvenga, perché già il panorama
mondiale è alquanto inquietante, senza aggiungere anche un altro conflitto, nel Magreb. Un ultimo
aneddoto? Beh, …quando il console del Marocco (di sede a
Bologna) ci ha aspramente accusati di essere “anti-marocchini”, perché
difendiamo la causa saharawi! Bambini saharawi nello studio del sindaco di Nonantola, Modena.
PARTE
5.
Incontro
con il Dott. Omar Mansur, Ministro
della Salute A
cui ho semplicemente chiesto…il racconto della sua vita. E'
sera. Ha lavorato tutto il giorno ascoltando, come sempre, tante persone. Sono nato nel 1953 a
Dajla, nel Sahara Occidentale. E' una
città su una penisola, una costa molto molto bella, e lì sono rimasto fino
all'invasione del Marocco. Dunque, sono nato e cresciuto durante la dominazione
spagnola, e ho fatto i miei studi in spagnolo e arabo. Ho fatto le scuole a
Dajla, fino alla maturità, poi per l'università sono andato a Tenerife, per un
anno, e poi a Madrid, dove mi sono laureato in Giurisprudenza. Durante le
vacanze tornavo sempre a casa, e viaggiavo molto nell'interno del Sahara
occidentale, nel deserto. Mi piaceva molto viaggiare per conoscere il mio paese
nell'interno, fino in Mauritania, dove erano dei parenti nomadi. Naturalmente,
non ho mai visitato il Marocco, e fino al momento dell'esodo, non avevo mai
conosciuto neppure l'Algeria. Mi
racconta alcuni ricordi della sua infanzia e giovinezza durante la dominazione
spagnola? A quell'epoca, dovevamo convivere con i giovani figli
degli spagnoli, e avevamo buoni
rapporti effettivamente. Però siamo cresciuti con la consapevolezza, e con il
dolore, dei limiti che questi compagni avevano nei nostri confronti, posti dai
loro padri, che in gran parte erano militari. Anche se eravamo molto amici, non
potevamo avere rapporti completamente liberi e tranquilli. Vi erano posti nei
quali loro potevano andare, ma noi saharawi no. Una
sorta di apartheid? In parte, sì. Centri culturali e ricreativi, piscine…
per noi non erano accessibili. Questo fatto, ha contribuito in maniera
determinante, nel tempo, a rafforzare la coscienza identitaria, lo spirito di
appartenenza saharawi. La
discriminazione esercitata su di noi dalla Spagna ha rafforzato enormemente il
nostro spirito nazionalista. Noi eravamo amici dei ragazzini spagnoli, andavamo
nella stessa scuola, me c'erano sempre delle differenze, e queste hanno
rafforzato la nostra identità. Naturalmente c'erano anche grandi differenze
economiche. Noi eravamo figli di funzionari locali, che avevano stipendi locali.
I funzionari spagnoli venivano in Sahara con stipendi da espatriati, pari al
doppio di quanto avrebbero preso nel loro paese. Senza dubbio, una cosa che ricordiamo bene e che ci ha
aiutato moltissimo nella nostra crescita come saharawi, è che nelle scuole
coloniali abbiamo avuto degli ottimi insegnanti, uomini e donne. Loro sapevano
riconoscere le nostre capacità intellettuali, e aiutarci ad andare avanti nella
studio, e con alcuni di questi insegnanti abbiamo stabilito ottime relazioni,
che si sono mantenute negli anni e continuano ancora oggi. Un altro fattore che ha contribuito molto al
consolidamento dell'identità saharawi è stato il tipo di amministrazione della
colonia spagnola. Era un potere militare, e tutto ciò che faceva lo faceva con
un obiettivo politico, che andava a due velocità: una per gli spagnoli, una per
i saharawi. E un altro fattore ancora che ha inciso sulla nostra infanzia, è
stata la presenza della legione straniera. La legione straniera non si mescolava
mai ai saharawi, e anzi per qualunque motivo, se la faceva con loro. Questo è
un aspetto che incide profondamente e inevitabilmente sulla sensibilità di un
bambino, indicandogli quindi poi un
cammino anziché un altro. Cresci sapendo che devi sempre fare i conti con
quella amministrazione, e che hai una presenza straniera occupante. Certo ricordiamo con molto affetto anche relazioni con
amici e amiche spagnoli, che hanno condiviso con noi quasi gli stessi sogni, e
gli stessi interessi. Si giocava insieme su quelle splendide spiagge… Abbiamo
quindi un insieme di ricordi belli e negativi, tipici forse di chi ha vissuto la
colonizzazione, e che segnano la sua vita per sempre. La vita dei saharawi era
povera, le nostre case erano povere. Tutto era difficile e faticoso durante
l'epoca coloniale, e questo è un retaggio che la mia generazione in
particolare, di quelli nati tra gli anni 40 e i 50, si porta dietro per sempre.
E' la generazione che di fatto è stata destinata alla lotta per la libertà.
Questa generazione ha avuto un'infanzia molto breve. Erano molti gli elementi
che ti costringevano a pensare presto come un adulto, anche se eri ancora un
bambino. Io partecipai al mio primo sciopero nel 1969, a 16 anni, contro un
insegnante spagnolo che ci imponeva un metodo che non accettavamo. Praticava l'assimilazione
dei saharawi alla spagnolizzazione.
Voleva eliminare qualunque caratteristica della nostra cultura e del nostro modo
di essere. Così facemmo la nostra prima rivolta. L'anno dopo ce ne fu un'altra
e questo scatenò la reazione dell'amministrazione scolastica, e questo a sua
volta determinò la nascita del movimento studentesco e la sfida degli studenti
saharawi. Questi fatti, ti segnano la vita. Io fin da allora ricordo che siamo
sempre stati impegnati per far valere il nostro gruppo, i nostri diritti, la
nostra identità. Ed è una lotta che gradualmente prosegue, fino arrivare ad
una coscienza sociale e di lotta politica. Quando
gli spagnoli se ne sono andati, vi aspettavate la Marcia del Marocco? Sì, era immaginabile. Io credo che gli ultimi anni della
presenza spagnola fossero la "cronaca di un'invasione annunciata". Il
Marocco aveva già cominciato a reclamare il Sahara, e si capiva che era
nell'aria qualche tentativo, anche dopo che il tribunale dell'Aia aveva dato il
suo parere contrario alle richieste del Marocco. Nel settembre del '75, il generale Franco aveva cominciato
a stare male di salute, e questo ha aiutato il Marocco a fare maggiore pressione
nelle sue richieste e rivendicazioni, nonché a preparare la marcia di
invasione. Gli spagnoli erano in una fase di fragilità, perché la morte del
generale poteva essere imminente, e questa avrebbe gettato il paese nel caos.
Non potevano quindi permettersi una guerra con il Marocco per il Sahara
occidentale, così pensarono bene di lasciare il territorio, e lo fecero nel
modo peggiore: con accordi segreti con Marocco e Mauritania nello stesso
momento in cui si accordavano con noi. Lavoravano su due binari in
contemporanea. Io all'epoca ero il Rappresentante generale dell'Unione degli
Studenti saharawi che raggruppava studenti di vari livelli ma anche giovani
lavoratori. Era dunque una grossa forza di mobilitazione, e facemmo una vasta
opera d'informazione dell'opinione pubblica per prepararla
a qualunque tipo di eventualità e di evento. Dunque, sapevamo sì che
l'invasione del Marocco era alle porte, e per questo cominciammo a fare opera
d'informazione e a studiare delle forme possibili di evacuazione. Fu un periodo di grande fermento, di grande mobilitazione.
Tante associazioni aderirono alla nostra causa. Ma fu anche tutto molto
doloroso, perché implicava la rottura con molti amici spagnoli. Ci si sentiva
traditi dal governo spagnolo, pur avendo tanti spagnoli, che dovettero lasciare
il Sahara. Speravamo che affrontassero la situazione con noi, al nostro fianco,
ma pochissimi sono stati quelli che lo hanno fatto. E naturalmente il dolore fu
anche perché con l'invasione marocchina cominciò la separazione delle
famiglie. Vi erano persone infatti che non potevano fuggire, come gli anziani.
Nel mio caso, mia nonna, mia sorella e un fratello sono rimasti a Dajla. Io e
altri due fratelli partimmo alla guerra. Mio padre è venuto più tardi qui nei
campi, altri familiari sono rimasti là, e non ci siamo più rivisti per anni,
perché è assolutamente vietato, dal Marocco: proibito vedersi, proibito
telefonarsi, proibito scriversi. L'invasione e il conseguente esodo sono stati una pagina
dolorosissima della nostra vita. Nella guerra, moltissimi nostri amici sono
morti. La reazione contro l'invasione fu totale, violenta, dura.
Il Polisario era nato nel 1973, ed era sinonimo di saharawi. Non c'era nessun
saharawi che non facesse parte del Fronte Polisario, se non per motivi di
impedimento fisico. Al momento della spartizione, dopo l'accordo segreto della
Spagna, il 30 ottobre 1975, ci siamo svegliati e alcuni di noi erano mauritani,
altri erano marocchini. Quelli di noi che cercavano la libertà, si sono
ritrovati in una "No man's land". In mezzo al deserto, una terra di
nessuno. Non c'era altro da fare che combattere, e stare uniti. Tutte cose che
ti segnano la vita. Chiunque noi, della mia generazione, non può parlare
della propria vita senza parlare della lotta per la libertà. Raccontare la
nostra storia personale significa parlare della storia del processo di
liberazione del popolo saharawi. Non è possibile separare le due cose: la vita,
e la lotta. Anche se naturalmente i gradi di intensità e di coinvolgimento
possono essere diversi per ognuno di noi. Ci siamo ritrovati nel deserto senza niente: senza armi,
senza medicine, senza mezzi di trasporto. Niente! Come
è avvenuto l'esodo, come sono scappate le persone? Da qui alle città della
costa sono 3-400 chilometri! La gente è venuta con mezzi diversi. Qualcuno a piedi,
fino a un certo punto, altri su camion, e comunque l'esodo non è avvenuto tutto
in una volta. Non si pensava di arrivare in Algeria! Si pensava di lasciare le
città, invase dai marocchini, ma poi di riconquistarle. Poi via via
l'occupazione è avanzata, e noi ci siamo ritrovati spinti sempre più verso
est, verso il confine algerino, per cercare posti più sicuri dove portare i
civili e metterli in salvo. Chi
vi ha aiutato inizialmente, in quei primi tempi? Come avete trovato le armi per
combattere? Le prime armi ci furono date da alcuni ufficiali spagnoli
in partenza, che stavano dalla nostra parte. Alcuni le consegnarono al Polisario
personalmente. Al contempo ci fu l'appoggio dell'Algeria, che ci diede alcuni
mezzi di trasporto. Poi le nostre prime azioni, sia verso l'esercito marocchino
che quello mauritano, furono imboscate volte proprio a reperire armi. Per i
primi due anni è stato così, attaccavamo i convogli militari sempre con questo
obiettivo principale: recuperare mezzi per combattere. In una sola battaglia
riuscimmo a prendere 39 mezzi blindati, nuovi! Li abbiamo ancora. Alcuni sono
nel museo della guerra, altri sono qui in città, pronti ad un eventuale
utilizzo. Sono carri di produzione
sudafricana, poi ci sono fucili e altri mezzi più sofisticati, che all'inizio
non abbiamo usato molto. Dott.
Mansur, come avete fatto a mettere in piedi uno stato, qui, in mezzo al nulla?
Una nazione con le sue strutture, con le sue istituzioni, partendo dal niente! Eh sì, è stata durissima! Noi eravamo giovani… Già è
difficile mettere in piedi un apparato statale in condizioni
"normali", quando hai i mezzi e un'economia funzionante. Noi eravamo
in mezzo al nulla. Scappati da casa nostra con quattro capre. Però era anche
un'avventura straordinaria, che noi vivevamo insieme con tanta rabbia, con tanto
coraggio, e con tanto orgoglio rispetto al Marocco. Volevamo assolutamente
creare uno stato saharawi come contrapposizione all'invasione. In qualunque
modo. Nell'ottobre '75 comincia l'invasione da parte del Marocco. Il 27 febbraio
1976 fu proclamato lo stato del Sahara. I membri del direttivo del Polisario si
riunirono. Io in quanto Segretario generale dell'Unione degli studenti ero già
parte del Polisario, clandestinamente, sotto la dominazione spagnola. Nel '76 ci
siamo messi intorno a un tavolo e ci siamo detti "Bisogna creare uno stato
saharawi!". …Eravate
tutti dei ragazzi! Sì! 24, 30 anni… Massimo 35, non credo ci fosse neppure
uno di 40! Altri erano più anziani ma non facevano parte del direttivo. Facemmo
un'assemblea con tutti i notabili, cioè i rappresentati dei gruppi etnici
tradizionali presenti nel Sahara. Abbiamo creato così un Consiglio Nazionale,
che aveva la fiducia della popolazione, e con questo abbiamo realizzato il
documento che proclamava la nascita dello stato. La direzione del Polisario ha
poi designato il governo. In quel primo governo io fui nominato ministro dei
trasporti. Iniziai iI mio ministero con 3 macchine! (ride e ripete: Con 3 macchine!). C'era da fare tutto: organizzare la struttura, trovare i
mezzi, garantire la sicurezza e la difesa dei civili, nonché fare informazione,
affinché il mondo capisse le nostre ragioni.
E così…abbiamo cominciato a lavorare, su tutti questi fronti.
Senza mai smettere di lottare, per riconquistare i nostri diritti. Ne
avete fatto del lavoro! Sì! Abbiamo lavorato tanto! Ministro,
in tutto questo percorso, in tutta questa lotta, portata avanti per tanti anni,
lei sente l'eredità culturale dei vostri padri? I saharawi, fino a una
generazione fa, erano beduini del deserto, nomadi e guerrieri. Persone abituate
a combattere e a difendersi contro il nemico. Sì certo. I saharawi sono sempre stati abituati alla
guerra. Dal momento stesso in cui un bambino saharawi cominciava a distinguere
le cose del mondo, trovava nella propria tenda le armi dei guerrieri beduini. Le
armi, anche per noi, sono state tra i primi "giocattoli" conosciuti.
Nella cultura beduina, tra i primi insegnamenti vi erano: essere un buon
guerriero, sparare bene; al contempo, essere
molto ospitali, e avere un carattere aperto, perché nel deserto… se hai un
carattere chiuso vivi poco! Noi siamo stati cresciuti con questi principi. I
guerrieri saharawi hanno difeso per anni un territorio vastissimo contro
l'invasione coloniale. (286.000 km2 ! ) Dal 1884, data di inizio della
colonizzazione in Africa, il Sahara
è stato preso realmente dagli spagnoli solo nel 1934! Nel continente africano,
i saharawi sono stati gli ultimi ad essere colonizzati, perché hanno combattuto
sempre! E gli spagnoli sono
entrati nella nostra terra
attraverso un patto, non con le armi. E' stata una negoziazione commerciale, non
un'invasione militare. (Negli anni 30 poi in Spagna c'era la guerra civile, che
finì nel '36, quindi non era interessata ad aumentare la presenza militare in
Sahara). Dunque sì, il sentirsi guerriero è un'identità forte che viene dal
passato e dalla vita nomade. Così come viene dalla cultura del deserto anche la
nostra concezione della donna. La donna saharawi, proprio per la durezza della vita nel
deserto, è una donna molto forte, che ricopre un ruolo fondamentale nella
società, che per certi aspetti diventa quasi una società matriarcale. Il
beduino sta sempre lontano, e lei diventa signora e padrona della sua tenda,
responsabile della famiglia. Per questo, quando arriva la guerra, la donna
saharawi prende in mano la situazione, mentre noi uomini siamo a combattere. La
sua funzione per portare avanti la società in esilio, la sua funzione
educativa, è stata quindi fondamentale, importantissima. Anche oggi, vi sono
molte donne impegnate e coinvolte sia politicamente che professionalmente. Insomma, possiamo dire che il popolo saharawi è un popolo
pacifico, ma è un popolo... di pacifici guerrieri! Gente che ama la pace, ma
capace di fare la guerra. Per questo, pur essendo un piccolo popolo, siamo
riusciti a resistere fino ad ora, per 27 anni, contro un popolo di 28-30 milioni
di persone, che non è riuscito a sottometterci né politicamente né
militarmente. Questo la dice lunga sull'identità del popolo saharawi! Già!
Ma come mai il popolo saharawi ha caratteristiche così diverse, e così ben
definite, sia rispetto agli altri popoli musulmani, sia rispetto ad altri popoli
nomadi del deserto? Io ho lavorato in altri paesi musulmani, e non potevo
immaginarmi tante differenze, venendo qui, anche solo nel vostro grado di
accettazione delle differenze culturali, del modo di essere di noi stranieri,
per esempio. Perché i saharawi non sono musulmani integralisti? Perché avete
un modo di vivere e sentire la religione così diverso? Il popolo saharawi ha origini curiose. E' uno strano mix
di tre popolazioni: i berberi, gli arabi, gli africani. Questo cocktail si
realizza in un luogo, il deserto, che fa sì che noi siamo sì musulmani, ma
anche molto aperti, tolleranti, capaci di accettare le differenze. Noi per
esempio riteniamo che il fondamentalismo sia una mal comprensione dell'islam e
del libro sacro del Corano. Per noi l'islam non è diverso dal cristianesimo e
dal giudaismo, per quelli che sono i principi fondamentali. Portano lo stesso
messaggio, in lingue diverse. Il saharawi non accetta intermediari nel suo rapporto con
Dio. Crede in Dio, ma non accetta mediazione. Per questo la moschea per il
saharawi non è un luogo granché significativo. Per noi, quando una persona
vuole parlare con Dio, lo può fare in qualunque posto. Non c'è una "casa
di Dio". Dio è ovunque, e se vuoi parlare con lui puoi farlo dove
vuoi: in casa tua, in mezzo al deserto,… Per questo noi non accettiamo
nessun Imam, e non abbiamo luoghi obbligatori per il rito sacro. Abbiamo qualche
moschea, ma se si va a vedere, ci sono poche persone, e quelle che ci vanno si
sentono libere. Non ci vanno perché si sentono costrette dalla maggioranza.
Certamente noi prima di costruire una moschea costruiamo una scuola, un
ospedale, un centro per bambini handicappati,… Siamo religiosi, ma siamo
liberi, e tolleranti. Questa
è anche una concezione molto laica, infatti poi le vostre scuole pubbliche sono
scuole laiche, non sono scuole coraniche, come avviene in molti altri paesi. La scuola coranica per noi è una libera opzione. Se vuoi
studiare il corano sei libero di studiarlo, e di andare da un maestro del
corano. A scuola no, alla scuola pubblica si fanno tutte le altre materie.
Questo fa sì che i saharawi siano diversi: per la sua concezione della
religione, e perché partiamo da un presupposto di rispetto dell'altro, della
religione e dell'essere dell'altro. …Non vi
coinvolgono dunque le "guerre sante"?! No! Se tu sei cristiana, tu sei libera di fare la tua vita
in terra saharawi. Nelle città del Sahara spagnolo, in tutte le città, vi
erano chiese cristiane. Non vi è mai, mai stata una sola aggressione contro una
chiesa cristiana. E neppure vi è mai stato un saharawi convertito al
cristianesimo. Noi siamo per la convivenza pacifica, il rispetto, ma non
accettiamo tentativi di conversione! Gli spagnoli in Sahara lo sapevano, e
contrariamente a quanto avvenne in altre colonie, da noi gli spagnoli impedirono
qualunque proselitismo religioso. Non vi erano missionari da noi. Vi erano
sacerdoti, ma erano per gli spagnoli, e quando a scuola si faceva l'ora di
religione, noi tranquillamente uscivamo dalla classe. Abbiamo convissuto senza nessun tipo di problema, durante
tutto il periodo della dominazione spagnola. Abbiamo una diversa concezione della religione, così come
abbiamo una diversa concezione della donna rispetto ad altri paesi mussulmani.
Noi non abbiamo la minima idea di una ragione per la quale la donna dovrebbe
essere sottomessa all'uomo! Anche a
scuola, bambini e bambine si siedono nello stesso banco. Per noi davvero è
incomprensibile che in certe società mussulmane vi siano classi divise per
sesso, o che addirittura le bambine non possano andare a scuola! E' molto più
importante che maschi e femmine vadano a scuola insieme, che siedano nello
stesso banco, e imparino a rispettarsi, anziché (come avviene) che ingannino
genitori e maestri perché …si sa: il desiderio sta in ciò che non si può
fare! Anche
questa saggezza psicologica e libertaria è per i saharawi di antica origine? Sì! Tante cose si decidevano insieme, tra uomini e donne.
Il Consiglio dei 40, nella società
tradizionale, era un consiglio di guerra, che quindi era riservato ai guerrieri.
Ma le donne esprimevano le loro idee, al di fuori del consiglio, e venivano
ascoltate. Torniamo
alla difficoltà di mettere su uno stato dal nulla. Io provo ancora fascino al
ricordo di quando si parlava del Fronte Polisario, in Italia, nei primi anni
della guerra. Era una causa coinvolgente, che ci prendeva più di altre, che
forse numericamente erano più grandi della vostra, e più conosciute. Mi viene
da chiedere come avete fatto ad essere degli ottimi "pubblicitari", a
far conoscere così bene la vostra causa, mandando dei rappresentanti in molti
paesi, al punto da riscuotere una solidarietà enorme, che vi ha garantito la
sopravvivenza in tutti questi anni. Perché è stata, ed è, così amata la
causa dei saharawi? Credo che questo si debba al fatto che noi fin dall'inizio
abbiamo presentato la nostra lotta come una lotta di liberazione nazionale. Non
era una causa di sinistra, né di destra. Non ci siamo legati a una bandiera o a
un'altra, non abbiamo sposato un campo per escluderne un altro. Questo ci ha
reso graditi ai più. Ci siamo presentati semplicemente come un popolo
aggredito, alla ricerca di riconquistare i propri diritti. Un popolo senza altri
nemici. La percezione da parte dell'opinione pubblica internazionale è quindi
quella di un popolo che lotta per dei diritti calpestati, non per una ideologia
che vuol fare prevalere. Tra di noi abbiamo ideologie diverse, ma un fronte
comune, che è quello patriottico. In questo modo abbiamo avuto molto appoggio e
molta solidarietà, sia in Europa che in Africa. Noi siamo un popolo invaso. La
maggior parte degli aiuti però, per diverso tempo, non è arrivata dal blocco
sovietico? No, il blocco sovietico non ha dato alcun aiuto diretto ai
saharawi. Non abbiamo avuto una rappresentanza a Mosca fino a dopo gli anni
della Perestroyka. E neppure in altri paesi europei socialisti, a parte la
Yugoslavia. Noi eravamo più vicini all'approccio del non-allineamento. La
Russia esigeva allora, per sostenere i movimenti di liberazione, che seguissero
una linea comunista. Cosa che non abbiamo scelto. L'aiuto lo abbiamo avuto
principalmente dall'Algeria, che era vicina ai paesi socialisti, ma non abbiamo
mai avuto nessun appoggio diretto dall'Europa orientale in periodo comunista.
Certo, hanno appoggiato la risoluzione dell'Onu per il diritto
all'autodeterminazione del popolo saharawi. Diverso è il discorso della relazione con Cuba. Questa
relazione, come con il resto dell'America Latina, viene dal fatto che il
Saharawi è l'unico paese arabo di lingua spagnola. E questa è un'altra delle
nostre peculiarità. La relazione con Cuba è quindi nata principalmente su basi
linguistiche, e solo in un secondo tempo Cuba ha "scoperto"
l'importanza del nostro movimento, e ci ha aiutato. L'aiuto di Cuba è stato i
due forme fondamentali: l'invio di medici, e la formazione dei nostri giovani
nelle sue scuole. Mai, mai ha fornito aiuto militare. Mentre i paesi socialisti non riconoscevano la Repubblica
saharawi, Cuba sì, la riconosceva, e aprimmo un'ambasciata. Lo stesso per la
Yugoslavia, e per il Vietnam. E i
paesi arabi? Lo stato indipendente del Sahara è stato riconosciuto
solo dalla Siria, dallo Yemen, la Libia e naturalmente l'Algeria. Dopo
l'ingresso della RASD nell'OUA, abbiamo avuto relazioni migliori anche con
l'Egitto, il Sudan, ecc. Certo gli altri paesi, le monarchie, o gli Emirati
Arabi, non hanno riconosciuto la Repubblica Saharawi, anche se riconoscono i
nostri diritti, fondamentalmente per non creare tensioni con la monarchia
marocchina. Ma di fatto anche loro appoggiano il piano di pace delle Nazioni
Unite. Insomma, è una situazione molto delicata. Ma del resto, anche noi non
abbiamo mai tentato di porre la nostra lotta all'interno del contesto arabo,
come ha fatto la Palestina (cosa che noi consideriamo un errore). Non è un
lotta "degli arabi". E' una lotta dei saharawi, ed è una lotta per
l'affermazione del diritto internazionale, non è una lotta razziale, né
religiosa o etnica. E' una lotta per la libertà e contro la colonizzazione. E'
quindi una lotta di tutti. Noi non andremo mai a cercare di porre la nostra
lotta all'interno della Lega Araba. Mai! E quando poi avremo conquistato la
nostra libertà e indipendenza, vedremo bene se sarà il caso di entrare o meno
nella Lega Araba. Perché se abbiamo passato tutta una vita senza un minimo
pronunciamento della Lega in nostro favore… non si vede per quale motivo
dovremmo entrare a farne parte! Veniamo
al periodo del referendum. Lei ha partecipato all'identificazione degli aventi
diritto al voto. So che è stata un'esperienza molto dura e dolorosa per lei. La
vuole raccontare? Sì, dunque… Noi abbiamo accettato il referendum come
soluzione politica, dopo molte pressioni. Negli '70, noi avremmo potuto chiudere
la questione vincendo la guerra. Il Marocco era in una situazione molto
difficile, ci furono vari colpi di stato, e noi ricevemmo pressioni affinché ci
ritirassimo, perché se il re fosse caduto a quel tempo, ci saremmo ritrovati
nel paese un regime militare. Questo, con la promessa di aiuto di una soluzione
pacifica. Accettammo la proposta, aspettando che il Marocco si ritirasse dal
conflitto e riconoscesse i nostri diritti. Nel 1981 Hassan II si pronuncia a
favore del referendum, ma è da allora che si produce l'incendio sulla questione
del censimento dei saharawi aventi diritto al voto. Il processo di pace comincia
nel '91, e noi pensavamo tutti che il referendum si potesse realizzare in sei
mesi-un anno. Cosa ci voleva? Non è tanto difficile fare il conto dei saharawi:
noi ci conosciamo tutti, per nome e cognome! Ma il Marocco non voleva accettare
il referendum, perché voleva un risultato diverso, così ha cercato di
falsificare i dati. E il processo di identificazione si è realizzato solo nel
'95! Cinque anni per mettersi
d'accordo sulle regole di definizione per l'identificazione dei votanti!!!
Nel '98 il censimento era terminato: c'era la lista dei saharawi aventi
diritto al voto, fatta con le Nazioni Unite, insieme agli onnipresenti
osservatori Onu. Niente. Il Marocco non ha accettato questa lista. Tre anni di
lavoro per niente, perché la lista non conteneva la popolazione che il Marocco
voleva includere, al fine di vincere il referendum! Com'è
andata nei territori occupati? A El Ajun eravamo 3 membri del Fronte Polisario (oltre a
me, il capo della Sicurezza Saharawi, Mohamed Wali, ed un tecnico); poi vi era
un vecchio notabile, un osservatore marocchino e uno delle NU. Per noi è stato molto interessante rivedere il nostro
territorio, e ci sentivamo anche orgogliosi di essere lì, rappresentanti della
nostra lotta. La gente veniva a salutarci, a toccarci, quasi fossimo profeti! E'
vero che non potevate avere relazioni con nessuno? Sì, è vero. La gente si avvicinava al centro delle
Nazioni Unite, salutava, e tirava dritto. Se possibile, ci passavamo velocemente
dei biglietti di messaggi, o anche solo con dei saluti. Evidentemente il Marocco aveva paura che noi potessimo
diffondere idee rivoluzionarie! Dare informazioni, stimolare azioni,…
Avevano molta paura, sicuramente! Ed è la tipica paura di un paese che
ne ha occupato un altro. Dentro al centro delle NU ci si poteva scambiare qualche
parola, ma non granché, perché la gente era intimorita. Noi fuori dal centro
non potevamo fare praticamente niente, e per muoverci eravamo sempre sotto la
sorveglianza della polizia marocchina. Non potevamo fermarci
in nessun posto, né potevamo salutare, o tanto meno far visita a parenti
o conoscenti. E' stato molto doloroso. Ho passato 3 mesi a Dajla come osservatore, e ogni giorno,
ogni giorno io passavo davanti alla casa dove sono nato, dove vive ancora gran
parte della mia famiglia. Il centro era da un lato della piazza, la mia casa
dalla parte opposta. Per tre mesi ci sono passato davanti tutti i giorni, e non
ho potuto mai fermarmi. I miei familiari mi salutavano dalla finestra,
nient'altro. Erano sempre alla
finestra, alla stessa ora, per vedermi passare. Questo rende un'idea di cosa è
il regno del Marocco, e la sua politica! Cosa poteva esserci di
"pericoloso" nel salutare parenti che non rivedevo da vent'anni?
Il Marocco è un invasore, è un occupante insicuro, senza sentimenti
umani. Questo è stato uno dei gesti più assurdi che ha commesso. In quella
casa c'era mia nonna, che era vecchia, e non camminava più, non poteva venire
al centro dell'ONU. Ora è morta. Io per tre mesi sono passato davanti a casa
sua, senza poterla salutare. Se n'è andata con questo dolore: non hanno
lasciato neppure che io entrassi a salutarla. Per 3 mesi! Come
vivono i saharawi nei territori occupati? Voi qui siete in mezzo al deserto, ma
siete liberi. Loro non vivono come prigionieri in casa loro? Durante l'identificazione dei votanti, io ho rivisto mio
fratello, che non vedevo da anni. Lui ha 10 anni meno di me, e a rivederlo, non ho potuto
non notare il suo profondo invecchiamento. Capelli bianchi, faccia rugosa…
Nessuno delle NU credeva che fosse più giovane di me. Gli ho chiesto come mai
fosse cambiato così tanto, se era successo qualcosa di grave che non sapevo…
Mi ha risposto piangendo. Senza dire nulla. Solo, piangendo come un bambino. Noi qui ci sentiamo liberi, e lottiamo per i nostri
ideali. Là vivono prigionieri, senza potersi esprimere o poter incontrare la
loro gente. Hanno
il passaporto? Possono chiedere visti per uscire dal paese? Ultimamente hanno dato ad alcuni la possibilità di uscire
dal paese, ma non tutti possono avere il passaporto marocchino. Quando lo
chiedono, possono avere risposta positiva o negativa. Hanno una carta di identità, e su questa carta c'è
scritto un numero di riconoscimento - come nel regime di apartheid - diverso da
quello degli altri marocchini. Così se un agente ti ferma vede subito che sei
"di serie B", perché sei saharawi. Proprio come poteva essere
l'identificazione degli ebrei, che erano "diversi", e dovevano essere
riconoscibili. E' quindi un popolo che vive in una condizione di terrore.
Dopo la guerra contro il Marocco, sono scomparse più di 700 persone. Senza
nessun motivo. Desaparecidos. Molte si è detto che fossero morte in un
incidente con un camion, ma guarda caso… non si trovano mai i resti di questi
incidenti. Né i camion, né gli autisti dei camion… Tutti i saharawi più
impegnati, quelli che avevano problemi con il governo marocchino, sono
scomparsi. Ci sono poi moltissimi che sono in carcere da anni, e vi sono i casi
di donne arrestate mentre erano incinte, che hanno partorito in carcere, e i
loro bambini sono cresciuti lì, tra quelle mura, per anni, senza conoscere
niente altro. Alcuni sono usciti che erano degli adolescenti, e non avevano idea
di cosa vi fosse fuori. Non conoscevano il loro padre né altri parenti. Famiglie intere sono finite in carcere al minimo sospetto.
La popolazione nei territori occupati è assolutamente indifesa, soffre
pressioni, violenze, ricatti senza fine. Un marocchino può svolgere qualunque
attività commerciale e ricavarne i relativi guadagni. Un saharawi no. Lui è
sempre sotto controllo, anche negli affari commerciali. Nei territori occupati le organizzazioni di solidarietà
non possono andare a portare aiuti, Amnesty International non ha accesso.
Neppure la commissione delle NU per i diritti umani a potuto entrare in Sahara
Occidentale! Ultimamente, Danielle
Mitterrand non ha avuto il visto del Marocco perché considerata "persona non grata", per la sua posizione dichiarata nei
confronti della nostra lotta. Tutto ciò è assolutamente inumano, e mostra come il
Marocco non si preoccupi minimente di rispettare gli accordi presi in ambito
internazionale. Questo
purtroppo sappiamo che avviene in tanti altri paesi, dove i diritti umani sono
calpestati violentemente (pensiamo alla Turchia verso i curdi..) o dove gli
accordi firmati diventano carta straccia (come tra Israele e Palestina…). Sì, ma suona davvero come un enorme paradosso! L'Europa
fa tanti discorsi in difesa della democrazia, della giustizia, dei diritti
umani… e poi accetta una connivenza con governi del genere! …è
la solita legge del mercato… Pensiamo al caso della Cina, e a come ci siamo
dimenticati in fretta di piazza Tienammen, pur di avere un miliardo di
potenziali clienti… Sì. Il mercato ha più potere della libertà. Ministro
Mansur, come vedete il futuro? Il Marocco non cederà mai i territori occupati
del Sahara Occidentale. Ha mandato famiglie intere di coloni pur di farlo
diventare suo! Come pensate di potervene riappropriare?! No, non bisogna mai pensare che le cose non possano
cambiare. Tante cose inattese sono avvenute negli ultimi decenni… Non sembrava
possibile che gli spagnoli lasciassero il Sahara, come non sembrava che i
francesi lasciassero l'Algeria. Non sembrava possibile che finisse l'apartheid
in Sudafrica… ...o che crollasse
il Muro di Berlino, quando è crollato Per esempio! … o che si arrivasse alla libertà per
Timor Est, dopo tanti anni di guerra. Noi abbiamo raggiunto risultati importanti. I nostri
diritti sono stati riconosciuti e abbiamo appoggio a livello internazionale.
Abbiamo un esercito, con cui abbiamo fatto una guerra, e questa guerra ci è
servita per fare un'esperienza amministrativa importante, per la gestione di un
paese. Attualmente la soluzione è chiara: non c'è che farla rispettare. Può
essere rispettata per via pacifica, da parte delle NU e delle potenze europee. E
se questa non verrà realizzata, come i saharawi hanno lottato in passato,
lotteranno ancora, se sarà necessario, senza paura. Non sono necessarie molte
armi per fare guerra al Marocco! Noi sappiamo come farla. Conosciamo il nostro
territorio e possiamo fare una guerra anche molto costosa per loro, e molto
economica per noi. Lo abbiamo fatto contro Hassan II, che era un uomo molto
intelligente, machiavellico, con molti amici, e che ha diffuso la paura in tutto
il suo paese. Possiamo farlo anche contro il giovane Mohamed VI, che non il
carisma paterno, mentre ne ha tutti i difetti! Non ha alcun consenso nel suo paese. Per lui una guerra
contro i saharawi, anche molto breve, sarebbe fatale. Se dunque non ci sarà la soluzione pacifica che noi
abbiamo auspicato in tutti questi anni, noi torneremo a fare la guerra. E non
saranno necessari tanti mezzi per mettere il Marocco nel panico. Noi aspettiamo
una soluzione pacifica, ma se questa non arriva, per tutto il mondo sarà chiaro
che noi abbiamo fatto tutto il possibile, e che se ritorneremo alla lotta armata
sarà perché non vi era più un'altra possibilità. Gli attuali tentativi per far rientrare i saharawi in una
federazione marocchina sono assurdi. Solo chi vuole scatenare un conflitto
generale in Marocco può volere una soluzione simile. Il Marocco ha già tanti
problemi, con i berberi, con i fondamentalisti, … perché aggiungerne un
altro?! Si vuole creare un'altra frantumazione come in Jugoslavia? Non credo!
Per la Francia è molto difficile non assecondare i desideri di Mohamed
VI. Ma se Chirac tiene tanto a lui, perché non gli regala la tour Eiffel ?!
Vuole regalargli i saharawi! E' come condannarli a morte! La comunità internazionale, e la Francia in particolare,
non pensano realmente a cosa sia meglio
per i saharawi e per il Marocco. Forme di convivenza federale sarebbero mortali
anche per la monarchia marocchina, così come i grandi stati africani, mal
gestiti, mal governati, sono diventati delle catastrofi incredibili.
E grandi grattacapi per la comunità internazionale. Perché continuare così? E' interesse di tutti, anche
dell'Europa, creare le condizioni per un buon governo di paesi piccoli. Ci sono
tanti esempi di piccoli paesi, in America Latina, in Asia, in Africa, in cui è
stato possibile realizzare governi di buona gestione, in cui si è sviluppata
una democrazia dinamica, mentre
tanti grandi paesi sono stati fallimenti amministrativi totali: Zaire, Sudan,
Angola, Argentina,… La comunità internazionale dovrebbe riflettere su questi
esempi e favorire la crescita di paesi piccoli, come sarebbe per il popolo
saharawi, che è aperto e pragmatico, con una sua democrazia e un potere
economico, anziché metterlo tra le fauci di un altro paese, che lo
distruggerebbe. I saharawi non sono certo disposti a vivere come cittadini di 3°
categoria in un paese dove già quelli di 1° categoria preferiscono buttarsi in
mare per tentare di approdare in Europa! Perché
non ci vanno i francesi a vivere in Marocco?!?! Questo è ciò che la comunità internazionale deve
capire. E se non lo capisce lo capirà. E se non verrà compreso con il dialogo
e la pace, noi riprenderemo la lotta. Ma l'obiettivo è di ritornare nel nostro
paese, e da persone libere e indipendenti. Sig.
Ministro, la vostra gente però sta pagando, e da anni, un prezzo altissimo per
tutto questo. La sua generazione ha fatto la guerra, ma voi almeno avete vissuto
la vostra infanzia a casa vostra, nelle vostre belle città sul mare,
relativamente liberi, anche se sotto il dominio spagnolo. I giovani nati qui, o
venuti qui da piccoli, non hanno conosciuto quella libertà, sono cresciuti nel
deserto, e negli spazi limitati dei campi per rifugiati. In molti casi hanno
conosciuto l'esperienza traumatica dell'essere mandati lontano per studiare, e
adesso pagano un altissimo prezzo psicologico ed emotivo. Mi chiedo se
potrebbero avere la forza necessaria per riprendere una lotta, così come avete
fatto voi. La vostra generazione ereditava direttamente dai vostri padri lo
spirito guerriero dei vostri padri. Non è così per questi ragazzi, nati da una
popolazione già a sua volta traumatizzata, sedentarizzata, urbanizzata. Ora, la
domanda la rivolgo a lei anche in quanto ministro della salute. Non le sembra
che questa generazione sia molto provata, stanca, stanca dentro? Non ha la forza
che avete avuto voi anche se ha la stessa fierezza, forse non ha la stessa
determinazione. Io
credo che sia faticosissimo crescere qui, ancor più poi per quei tanti giovani
che da piccoli sono stati sradicati per studiare lontano. Penso a quelli che
hanno passato tanti anni in un posto così diverso come è Cuba! Lì sei sul
mare, ti diverti, balli, sei libero, in tutti i sensi. Poi vieni sradicato
un'altra volta, dopo anni in cui hai costruito la tua vita, la tua giovinezza, e
ti ritrovi qua, un'altra volta. In mezzo al deserto. Non so, ma credo che ci
sarebbe davvero motivo sufficiente per uscire pazzi! Non pensa, come persona e
come ministro, che sia una realtà con cui dover fare i conti? E' una
generazione figlia dell'esodo, di genitori sconvolti dalla guerra, che ha
vissuto un doppio trauma, e si ritrova a vivere in un posto …dove non si sta
proprio meravigliosamente. Sono in mezzo alla sabbia. Non possono certo
ricaricarsi andando al cinema o a ballare, … Sì, è vero che noi abbiamo ereditato per via diretta la
forza dei nostri padri. Però io credo che anche i trentenni di oggi, nati
durante la guerra, siano giovani che sentono la guerra, anche se da essa sono
stati segnati. Alcuni hanno certamente più difficoltà perché quella guerra ha
imposto loro un doppio esodo, ma io credo che proprio per essere nati in guerra,
questi giovani sono molto legati alla loro libertà.Credo che se ora si vede che
essi vivono un periodo di confusione, è perché allo stato attuale non siamo né
in pace né in guerra. Quando c'è stato bisogno di unirsi e fare fronte comune,
ho visto questi ragazzi tornare con determinazione, dall'Algeria, da Cuba, …
Loro combinano la forza guerriera che abbiamo nel sangue, con la conoscenza
tecnologica moderna. Lo stato attuale di confusione e di incertezza porta molti
giovani alla ricerca del cammino da compiere. Emigrare? Restare qui? Entrare
nell'esercito? Che studi fare? Cercano quale sia il sistema di vita più
coerente con i loro ideali. Ma io non dubito che se si crea una situazione di
maggior tensione con il Marocco, questi ragazzi tornano qui a combattere, e sono
meglio di noi. La nostra paura, piuttosto, è che proprio questa situazione di
confusione e di stallo finisca per spingerli verso scelte sbagliate, personali,
non canalizzate dal Fronte Polisario. Questa infatti è la situazione tipica in
cui facilmente si infiltrano i movimenti fondamentalisti e il terrorismo,
soluzioni radicali, e azioni imprevedibili per noi. Certo,
poi vi è una depressione diffusa, che è difficile da reggere, su tempi
lunghi… Questo ci crea inquietudine, nonché la difficoltà per il
Fronte di tenere tutto sotto controllo, e al contempo arrivare ad una soluzione,
in un modo o in un altro! La gente è stanca, e delusa, per tutte le promesse
non mantenute delle Nazioni Unite. Per questto è arrivato per noi il momento di
separarci dalle forze UN. La gente qui, ormai, i militari delle NU li chiama VU,
Vacanze Unite! La loro presenza qui ormai è inutile. Sono ben pagati, non
corrono rischi, hanno frequenti vacanze per tornare a casa… O fanno qualcosa
di utile, o se ne vadano, e noi ci troveremo faccia a faccia con il Marocco! Questo è ciò che sente la gente adesso. La delusione
dovuta al referendum che non si è realizzato, dopo anni di attesa, dopo tanto
lavoro fatto e miliardi spesi per organizzarlo, ha posto la gente in uno stato
di apatia e di confusione, da cui sta cercando come uscire. La nostra paura dunque non è che i giovani abbandonino la
lotta, quanto piuttosto che scelgano soluzioni estreme per portarla avanti. E
questa è una paura giustificata poiché sappiamo che molti tra questi giovani
non hanno paura per la loro vita. Questa generazione è nata nella guerra, ed è
abituata alla vita nel deserto. Noi siamo nati vicini al mare, loro nella
sabbia, e per loro questo è un ambiente naturale. Quando la temperatura qui
tocca i 50° C, io non posso neanche uscire dall'ufficio! Loro riescono anche a
giocare a football! Quando qui ci sono zero gradi, loro sono capaci di uscire
scalzi! Io …se non sono obbligato, non esco di casa con zero gradi, credimi! Loro dicono che noi siamo "poveretti" quando ci
vedono che non riusciamo a reggere il clima del deserto! Quando abbiamo
allenamenti militari, davvero ci si rende conto della loro forza fisica,
rispetto a noi. Non sento né il caldo nel freddo, posso andare avanti per ore.
Possono stare nel sole ad aspettare un mezzo, per ore, tranquilli! Loro sono nati in piena guerra, in condizioni difficili.
Per questo, sono estremamente forti. Se 20, 30 anni fa si fossero risolti i problemi della
Palestina, oggi non avremmo né Hamas, né hesbollah, né intifada… Quando poi
questi movimenti sono nati, è ben difficile la via del ritorno. E la scelta
armata rimane per sempre nel destino di un popolo. Per questo, i problemi
bisogna risolverli quando è il loro tempo . Non si può far passare anni,
lasciando la gente in balia di essi, con la propria sofferenza. Oggi qui in
saharawi la soluzione del problema è davanti a noi, sulla carta. Occorre solo
far rispettare le risoluzioni dell'ONU. Non ci sono più blocchi contrapposti,
si tratta solo di questioni di giustizia. Di diritti elementari, di base.
Bisogna che questi diritti umani elementari siano fatti rispettare, e che si
pervenga ad uno stato democratico, prima
di arrivare a soluzioni estreme. Altrimenti si diffonde inevitabilmente un
sentimento di rivalsa: contro gli altri,
contro l'occidente, contro tutti. Avete
quindi delle strategie, o delle azioni in programma, per tentare di prevenire
scelte del genere tra i giovani? Cerchiamo di creare alcune alternative per impegnare i
giovani: centri di formazione professionale, attività ricreative e culturali,
in modo da aiutarli a farli sentire meno soli e meno sconfitti, fintanto che si
aspetta una soluzione definitiva ai problemi politici. Allora
anche gli aiuti internazionali dovrebbe attivarsi in tal senso? Sì, certo, sarebbe molto importante! E
avete contributi per programmi di questo tipo? Molto limitati. Unicef per esempio non fa nulla in questo
ambito. Unione Europea aiuta solo in piccole iniziative di formazione
professionale, con una scuola per infermieri. Nient'altro. Va
bene, farò un appello! E'
da ore che chiacchieriamo, il ministro Mansur ed io. E' un uomo colto e
affascinante, che ama raccontare e farsi ascoltare, con il quale si potrebbe
continuare ancora a lungo. Ed è lui che chiede a me "Altre domande?
Cos'altro vuole sapere?" ridiamo. Come sempre, trovo talmente bello
ascoltare le storie di vita che non mi fermerei mai. Parliamo della cultura
tradizionale, del mondo nomade, per la cui scomparsa io soffro tanto quanto
soffro per la scomparsa del mondo contadino in Italia, del quale a malapena ho
conosciuto l'odore, negli anni '60, poco prima che gli ultimi superstiti
lasciassero l'Appennino tra Bologna e Pistoia, per diventare gente di città.
Gli parlo degli incontri con i vecchi beduini, nei giorni scorsi. Lui mi parla
di come raccoglie le testimonianze di suo padre, e le scrive, consapevole del
sapere che porta. Suo padre ero uno sceicco, un capo tradizionale, quando i
saharawi erano ancora divisi nelle tribù rappresentate dal Consiglio dei
Quaranta, ed ora che ha 80 anni continua ad essere un membro del consiglio
legislativo della RASD. "Ora non ho tempo per
scrivere - mi dice - prendo solo delle
brevi annotazioni, e le lascio dormire, ma quando avrò più tempo le riprenderò
in mano, un giorno". Mi parla di
ricerche antropologiche svolte dall'Università di Girona, e delle difficoltà
di portare avanti attività culturali, perché non vi sono finanziamenti e
soprattutto quadri preparati in questo campo. Mi parla - con fierezza paterna -
di sua figlia adolescente, che fa il liceo classico in Italia, "ed è
brava, e anche lei ama scrivere, a ha partecipato a concorsi di poesia". Si
vedono circa una volta all'anno, come avviene per quasi tutte le famiglie
saharawi, che hanno i figli lontani, per offrire loro qualcosa di buono. La
figlia del ministro ha potuto usufruire della solidarietà di una famiglia
italiana, che l'ha presa a vivere con sé nel 1995, in provincia di Pisa,
offrendole così la possibilità di studiare nel nostro paese. E in Italia
collabora alla lotta della sua gente, aiuta ad organizzare i viaggi dei bambini
in estate, e ama suo padre come si ama un papà lontano… che diventa un mito! …Bello.
Sono tra l'estasiato e lo sgomento. Non so che dire. Bravi. Mi chiedo cos'avrei
fatto io in una situazione simile. Ventisette anni,… sono tanti. Circa i tre
quarti della mia vita… Spero
di rivedervi, di tornare qui un giorno, e camminare ancora tra questo
meraviglioso deserto. No, non lo dovrei dire. Per rivedere questi amici, devo
sperare piuttosto di andare sulle rive dell'Atlantico, nelle loro città
liberate. Senza spagnoli, senza marocchini. Per la prima volta, senza
dominatori. Senza dominati. Ci
sarà mai un mondo di giustizia per tutti? ________________RIFLESSIONI
di Hamdi
Khandoud, vice rappresentante del Fronte
Polisario in Italia. Silvia Montevecchi è stata, ha visto, ha promesso. Silvia che si rende cittadina del mondo, portavoce di
coloro che non hanno accesso ai grandi media (le tv, le parabole, le grandi
testate,…) e che è riuscita a trasmettere la realtà del popolo saharawi, e
soprattutto a mantenere le promesse fatte: a Hamdi, a Mbarka, a Ibrahim,… Grazie alle storie di ciascuno di questi, la
scrittrice ha tracciato la storia del nostro popolo e della sua lotta durante il
periodo coloniale, con gli spagnoli, e soprattutto ha fissato il dolore, le
sofferenze, i sacrifici, durante l’invasione marocchina. Al contempo, Silvia ha messo in evidenza
l’esperienza politica democratica del popolo saharawi, e la sua determinazione
a riprendere il Diritto che è stato riconosciuto e confermato a più riprese
dalla comunità internazionale (Unione Europea, Onu, OUA,..).
Ha marcato il cammino del popolo saharawi fino al presente e al futuro,
mettendo l’accento sulla cultura stessa dei saharawi, la sua origine nomade,
che ha mostrato un alto grado di civiltà, permettendo una lotta senza
terrorismo, nonviolenta, con una ricchezza di apporti culturali (arabo,
musulmano, spagnolo, cubano, europeo,…) . Una cultura, un popolo, che per 30
anni ha saputo sopravvivere dando un proprio posto alla figura della donna, a
quella degli anziani, a quella dei giovani: tutti membri attivi di un popolo che
ha creato una rete di solidarietà civile nel mondo intero, dall’Algeria, alla
Spagna, all’Europa, a Cuba, agli Stati Uniti e Canada,… Infine Silvia, attraverso i suoi scritti, ha
presentato il popolo Saharawi, la RASD, il Fronte Polisario, come un esempio di
lotta pacifica, di tolleranza. Soprattutto un popolo che accetta gli altri, e
che dagli altri vuole essere rispettato. Speriamo tutti che gli sforzi di questo popolo,
lontano dai grandi media, potranno avere l’esito di farlo ritornare alla
propria terra: il Sahara Occidentale, occupato dal Marocco. Il Marocco è responsabile di questa crisi che da
decenni sconvolge il Nord Africa, ostacolando profondamente l’unione dei
popoli del Magreb. Crisi che impedisce la pace e la stabilità del Mediterraneo. Per quanto riguarda il Sahara Occidentale, la
risoluzione del 31 luglio 2003 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che approva
la richiesta di Baker - dare il
territorio ad un governo eletto tra i saharawi identificati come elettori
dall’ONU per un periodo di 4-5 anni per poi arrivare ad un referendum di
autodeterminazione – NON è stata approvata dal Marocco, che anzi la rifiuta,
CON L’APPOGGIO DELLA FRANCIA. Al contrario degli altri paesi coinvolti dal
conflitto - Algeria, Mauritania, Spagna – i quali concordano di discutere tale
risoluzione. Entro l’ottobre
2003, il Consiglio di sicurezza dovrà pronunciarsi su delle misure definitive
per uscire da questo impasse decennale. Al contempo, tanta carne è al fuoco:
l’Assemblea Nazionale del Fronte Polisario, che dovrà decidere sulla linea da
tenere in futuro, ma anche le elezioni negli Stati Uniti, che potranno portare
ad un cambiamento delle relazioni. Ma la questione fondamentale è: cosa vuole il
Marocco? Dopo aver invaso il Sahara
Occidentale nel 1975, malgrado le risoluzioni dell’Onu; dopo avere rifiutato
il Piano di pace delle Nazioni Unite; dopo avere rifiutato il referendum per
l’autodeterminazione dei saharawi; dopo avere rifiutato tutte le proposte di
Baker…. Cosa vuole fare il Marocco? La risposta, deve venire ormai dalla comunità
internazionale, soprattutto dai membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite, che sono i responsabili del mantenimento della pace e di far rispettare
il diritto dei popoli all’autodeterminazione. Ma maggiormente la risposta deve
venire dalla Francia, che ha una responsabilità storica e morale enorme su
tutto il Magreb e il Nord Africa. Solo quando la crisi del Sahara Occidentale sarà
definitivamente risolta, noi potremo davvero parlare di libertà vera in questa
regione, e di cooperazione e stabilità nel Mediterraneo, e tra Nord e Sud. Grazie dunque a Silvia Montevecchi per il suo libro, e
a tutti coloro che nel mondo intero hanno dato il loro contributo per far
conoscere la lotta del nostro popolo e sono stati a fianco dei saharawi per
realizzare il loro diritto alla libertà e alla pace.
Bibliografia I titoli sul popolo saharawi non sono pochi, ma purtroppo sono pochi quelli
che ormai si trovano in libreria, essendo i più già esauriti, o distribuiti a
suo tempo soprattutto nel mondo dell’associazionismo. Si veda, tra gli ultimi usciti: -
Aniello Barone, Saharawi, la terra
sospesa, Electa 2001 -
Carmen – Cladellas, Fiabe saharawi,
Emi, Bologna, 2002 -
Comune di Sesto Fiorentino, Il volo
della piana: il viaggio di un gruppo di studenti in visita agli accampamenti
saharawi, Sesto F.2001 -
Umberto Romano ha scritto vari libri e romanzi sui saharawi, tra cui Rabbia
di Sabbia, Mangone, 2000 Siti web Sono numerosissimi, naturalmente. Oggi sul web si trovano milioni di
informazioni, che un tempo richiedevano anche mesi di ricerche. -
www.arso.org è l’associazione di sostegno al referendum. Vi si trova,
fra l’altro, il testo della Costituzione della RASD -
www.saharawi.it
la rappresentanza in Italia -
www.rocknowar.it
musica per la solidarietà, del gruppo modenese -
www.riodeoro.it
associazione di solidarietà -
www.saharawi.tk
associazione ligure di solidarietà -
www.celiachia.it
interventi per bambini affetti da celiachia, informazioni anche sui
saharawi -
www.scuolecascinesi.it
accoglienza dei bambini saharawi durante l’estate
S. Montevecchi, L’autrice di questa raccolta, nata a Bologna nel 1962,
è pedagogista, educatrice specializzata nell’integrazione dei bambini con
handicap. Scrittrice, fotografa, viaggiatrice e cooperante internazionale. Ha
lavorato a lungo in paesi africani in guerra come responsabile di progetti
educativi di Unicef e Unione Europea. E’ stata tra i campi profughi saharawi
in Algeria nel 2002, e nel 2003 tra i bambini di Ramallah, nei Territori
Occupati della Palestina. Aderisce alla Libera Università dell'Autobiografia, di
Anghiari, fondata da Duccio Demetrio e Saverio Tutino. Esperta di intercultura e peace education, ha curato e scritto numerosi libri per bambini e
per adulti, pubblicati in gran parte da Emi di Bologna. Sono suoi anche Il
sogno ostinato, lettere dall'Africa, editrice Berti, Piacenza, 2001
(contiene gli scritti premiati nel 2000 dall'Archivio Diari di Pieve Santo
Stefano) e Realizzare i sogni. Storie di
donne e uomini felici, con la prefazione di Patrizio Roversi, edizioni
Unicopli, Milano, 2002. Ulteriori informazioni sulla pagina web: www.silviamontevecchi.it Ringraziamenti Ringrazio tutte le persone che mi hanno offerto le loro
storie. Ringrazio quanti mi hanno ospitata e riscaldata, preparandomi tè e cous
cous sui loro tappeti, dentro grandi tende, o sotto meravigliosi cieli stellati.
Ringrazio chi non ho potuto intervistare, ma avrebbe avuto tanto da raccontare.
Ringrazio il Cisp, che mi ha reso possibile l'incontro con la Hammada e la gente
saharawi. [1] La cronologia e il brano sulle Vittime sono cortesemente tratti dal sito internet di peacelink/kalama/saharawi [2] Raccolte e tradotte da Sara di Lello [3] Mentre tutte le interviste raccolte sono avvenute nei campi della RASD in Algeria nell’anno 2002, il colloquio con il Sindaco di Nonantola avviene nella sua bellissima cittadina (sede della medievale, famosa abbazia) nel mese di settembre 2003. |
© Silvia Montevecchi