Stefania Sinigaglia

Un'ebrea pacifista in giro per il mondo.

Intervista a cura di Silvia Montevecchi.

Ho conosciuto Stefania quando lavoravo in Somalia, nel 2000. Entrambe eravamo education expert in progetti omologhi dell'Unione Europea, in due città diverse del Puntland: io a Galkayo, lei a Bosaso (si veda su questo lavoro il libro di Silvia Montevecchi "Vite sospese. Con i bambini di paesi africani in guerra " edizioni Emi, 2002, Bologna). Da allora siamo rimaste molto amiche e quando siamo in Italia cerchiamo di incontrarci, e ci facciamo lunghissime chiacchierate!

Questo colloquio avviene nel mese di marzo 2003, nella bellissima cornice del parco provinciale di Montovolo. Partendo da Bologna si percorre la statale Porrettana fino a Riola, qui si gira a sinistra, passando davanti alla famosa chiesa di Alvar Aalto.

Poco dopo sulla destra vi è il bel castello saraceno, purtroppo ora in decadimento. Poco prima del castello, si prende a sinistra verso il parco. La strada sale molto ripida e il panorama sulla valle del Reno è stupendo.

Ad un certo punto lasciamo la macchina e proseguiamo a piedi, nel sole e nel silenzio. In cima a Montovolo vi è un santuario (foto sotto) e il "Percorso della Memoria", un sentiero per ricordare i ragazzi e le ragazze che morirono a causa di un velivolo che si abbatté sulla loro scuola, a Casalecchio, alcuni anni fa.

Mentre camminiamo, siamo solo Stefania e io. Rarissime le macchine. Molti i canti di uccelli, qualche scoiattolo.   Fra due giorni Stefi parte per l'Albania. Nella solitudine di questo bosco mi faccio raccontare la sua storia.

 

S.M. Stefania, visto che noi abbiamo avuto in comune l'Africa perché ci siamo conosciute lì, potresti cominciare a raccontarmi com'è stato il tuo inizio con l'Africa: come sei andata a lavorarci la prima volta, come ti è venuto in mente, quando, dove...

Stefania. Va bene! Certo è una storia un po' lunga! Il mio primo lavoro è stato in Mozambico, ma già prima di quello avevo fatto altri tentativi, che non sono andati in porto. Aveva contattato un gruppo per andare in Algeria, ma non se ne è fatto nulla. Erano gli anni 70, io avevo venticinque anni, ero laureata in lingue e insegnavo inglese. Avevo un bimbo piccolo. Con quell'organizzazione di Milano avevo seguito un corso di aggiornamento con questa prospettiva di andare in Algeria, cosa che in quel periodo mi interessava molto. Solo che a quell'epoca l'unica cosa che potevo e sapevo fare era insegnare inglese, e alla fine del corso di formazione arrivò la risposta che ...in Algeria non se ne facevano nulla di una italiana che andasse lì a insegnare inglese! (ovviamente!).  Fu una bella delusione. Io poi ho sempre avuto uno spirito nomade: dopo un po' che sto in un posto... mi scotta la terra sotto i piedi! Così ero già un po' stufa di fare l'insegnante ad Ancona, e prima di insegnare ad Ancona avevo già passato qualche tempo in Sardegna.

Come eri andata in Sardegna, cosa facevi?

Beh, qui dobbiamo fare un passo indietro. Io ed il mio compagno, durante l'università a Milano, facevamo teatro politico. Nel 69 vivevamo insieme e avevamo conosciuto un gruppo anarchico che faceva teatro. In particolare un regista, Giancarlo Celli, grande ammiratore di Grotowsky, che cercava di mettere in piedi un gruppo di teatro anarchico. Era un periodo in cui nascevano tanti gruppi di teatro di strada. Nel 69 ad Orgosolo vi era stata l'occupazione dei pascoli, e molti compagni quell'estate si erano trasferiti in Sardegna. Anch'io e Gino decidemmo di andare, affascinati dal mondo politico pastorale. Con altre persone, dopo aver fatto una colletta per mettere insieme i soldi necessari, passammo là un'estate a fare teatro. Fu molto bello.

A quel punto, io dovevo tornare a Milano: mi avevano offerto di insegnare ad un corso su Joice alla Bocconi. ...Invece feci domanda per insegnare al Provveditorato di Nuoro! Mi diedero un posto, e lì sono rimasta per tre anni e mezzo. Mio figlio Simone è nato lì.

Poi nel '73 chiesi il trasferimento ad Ancona, mia città natale, dove ebbi vita un po' più facile perché c'era mia madre che ogni tanto mi teneva il bambino. Poi naturalmente anche lì dopo qualche anno, cominciai ad elaborare nuove mete!

Dopo la delusione dell'Algeria, continuai a darmi da fare per cercare altro. Nel 77 poi ci fu una grossa crisi con il mio compagno e ci separammo. A quel punto non riuscivo proprio più a stare nello stesso ambiente, avevo bisogno di lasciare Ancona. Passai un periodo difficilissimo, in cui stetti davvero molto male. Per fortuna il preside della mia scuola fu estremamente comprensivo, e mi diede un lungo periodo di malattia. Non ero assolutamente in grado di insegnare.

Dopo qualche mese capitò l'occasione di incontrare un vecchio amico che era già stato in Mozambico, subito dopo l'indipendenza del 75. Era un tipo in gamba, conosciuto, un dirigente all'interno di un partito di sinistra. Era andato in Mozambico dopo la rivoluzione per occuparsi di allevamento, ed era responsabile - nel nuovo governo mozambicano - dell'allevamento delle piccole specie (conigli in particolare). Gli spiegai che volevo lasciar Ancona, allora lui prese una mia lettera con cui propose il mio curriculum a vari ministri mozambicani. Passò ancora qualche mese, finché poi nel mese di giugno mi arrivò la risposta. Potevo andare con mio figlio, mi offrivano uno stipendio locale, di circa 200.000 lire al mese!   Io pensai di licenziarmi dalla scuola, ma per fortuna su suggerimento di mio padre, chiesi l'aspettativa di un anno. Dopo un anno, allora era a discrezione del preside darti un prolungamento di sei mesi. Anche in quel caso il mio preside fu molto carino perché mi diede il prolungamento di altri sei mesi. Partii ad agosto del 78 quindi a febbraio del 80 mi scattava il licenziamento. Per fortuna proprio nel 79 era nata la prima legge sulla cooperazione, che regolava tutta la questione dei laici volontari all'estero.

Contemporaneamente il COSV (che era una Ong di Milano e fu la prima in Mozambico) aveva messo in piedi un piccolo progetto di formazione professionale tra i lavoratori della ferrovia mozambicana. Io ero già impiegata del ministero dei trasporti, dove insegnavo inglese, così qualcuno mi suggerì che potevo fare un contratto di lavoro con il COSV, come insegnante, in modo che potessi nuovamente avere l'aspettativa (a quel punto regolata dalla legge 38 del 79). Arrivai appena in tempo per non far  scattare il licenziamento!

Allora: parlami della tua esperienza in Mozambico, dove sei rimasta alcuni anni. (Nella foto: Stefania nella sua casa si Ancona. 

Beh, certo per me è stato l'impatto con un mondo estremamente diverso. Prima di partire, per prepararmi, avevo letto diversi libri sulla situazione storica e politica del paese, però non è che all'epoca si trovasse granché, soprattutto sulla storia coloniale, e in particolare riguardo l'Africa australe. Ci siamo trovati in pochissimi italiani, e lavoravamo insieme al ministero dei trasporti. Alcuni erano economisti, mentre io insegnavo inglese ai dipendenti del ministero. Ci siamo resi conto gradualmente, che tutto il nostro modo di stare lì era fortemente ideologizzato. D'altronde il Mozambico di quegli anni usciva da una rivoluzione, quindi da un lato vi era un grande entusiasmo, allo stesso tempo vi era una povertà pazzesca. Mancava davvero tutto. I posti erano stupendi, ma quando andavi a comprare qualcosa, il negoziante cominciava la lista delle cose che non c'erano: "manca questo... manca quest'altro.... Il pane? Il pane non c'è! Il sapone? ...il sapone non c'è" ecc. vi erano le due frasi di rito "ja cabò (è già finito)" e "ainda no chegò" (ancora non è arrivato) ! Sì, quasi una comica, in un certo senso. Ma con mio figlio di otto anni, non era facile. Infatti ci sono alcuni episodi che sono rimasti nel nostro diario di famiglia, come quando una nostra amica regalò a Simone un uovo di gallina, che era una cosa incredibilmente preziosa. Io dicevo Simone di stare attento a non romperlo, e lui badava a ripetere che non lo voleva mangiare!  Io impazzivo, non riuscivo a capire come potesse non apprezzare una cosa simile! Poi naturalmente l'uovo finì per terra, e io gliel' ho rinfacciato per un sacco di tempo!  ... insomma, questa era la situazione.

Ma la cosa più importante, riguarda invece il rapporto con i colleghi di lavoro. Tutto passava attraverso un filtro, tutti erano "cameradas", compagni. Non si riusciva a vedersi reciprocamente come persone con un vissuto differente, personale e culturale. Era quasi come se non ci fosse dietro di loro la realtà africana, con la sua quotidianità, le sue tradizioni, le famiglie estese, le credenze... tutto questo non emergeva, era come soffocato dal filtro politico, e ci si vedeva solo in quanto "cameradas". Insomma, quasi come se esistesse solo la categoria dei "proletari", senza nessun'altra caratteristica. L'africanità non si avvertiva.

Ricordo che uno dei miei studenti, uno dei più bravi, che studiava moltissimo e teneva molto a imparare l'inglese, veniva dal Nord del paese e aveva i lobi delle orecchie che praticamente non esistevano più, perché per un lungo tempo aveva portato orecchini pesantissimi. Dunque vi erano anche segni esteriori profondi, molti per esempio erano tatuati, eppure tutto questo era sempre come se rimanesse sommerso. Sommerso dalla coltre ideologica.

Ma questo secondo te era una percezione vostra, o anche loro?

No certo, era così anche per loro. C'era come un livellamento. Non si teneva conto della diversità delle persone, della loro provenienza. Ad un certo punto fu il ministro a farmi presente che le persone con cui io lavoravo utilizzavano una lingua, il portoghese, che non era la loro lingua madre. Io quindi utilizzavo un medium per insegnare un'altra lingua, ma loro in alcuni casi, il portoghese lo sapevano molto poco. Io del resto non avevo altri mezzi per uscire da questa contraddizione.

Altra cosa per esempio che non si era tenuta conto all'inizio, fu la gerarchia tra le persone. Io avevo diviso gli studenti in gruppi, secondo la loro conoscenza dell'inglese e il grado di scolarizzazione, che è la cosa più ovvia che noi possiamo pensare dal punto di vista didattico. Tieni presente che in quelle circostanze uno che aveva fatto per esempio la sesta classe (=prima media), era già considerato un quadro. Questo perché i portoghesi, quando se ne sono andati, hanno lasciato il nulla in Mozambico. I laureati si contavano davvero sulle dita di una mano. Con la fuga dei portoghesi nel 77, questi hanno distrutto tutto: case, fabbriche, portando via quello che potevano portare, e distruggendo il resto. Hanno lasciato davvero una tabula rasa.

Io quindi avevo fatto questi gruppi solo in base a dei principi didattici, senza tenere conto della gerarchia che vi era tra le persone! Così mi sono ritrovata per esempio il capogabinetto insieme ad altri che erano di grado ben inferiore al suo. Questo ha creato un notevole disagio, e lui poi me lo disse e mi chiese delle lezioni private. Tutte le classi cominciarono a formicolare! (Ad un certo punto il ministro si incazzò, quando si accorse che tanti impiegati non erano in ufficio perché erano a fare lezione!).

Insomma si percepiva che le personalità erano schiacciate. Anni dopo poi è uscito un libro in francese molto bello su questo: "La cause des armes au Mozambique". Uno studio sui macua, un gruppo etnico del nord, e su come furono cooptati alla ribellione al regime di S. Machel. In pratica fa vedere come il regime mozambicano socialista avesse schiacciato completamente le tradizioni, le appartenenze culturali, i poteri locali, disgregando così tutto il tessuto sociale, e come poi tutto ciò abbia giocato nella sconfitta di tale rivoluzione socialista. Perché di fatto moltissimi vi arrivavano senza davvero capire il senso, il contenuto. Vi erano slogan vuoti. Abbasso questo, viva quell'altro... con tante riunioni di piazza, letture di giornali, ... ma poi ad un certo punto mi resi conto che la gente partecipava senza capire profondamente. Almeno una volta al mese Machel organizzava grandi manifestazioni di piazza, con tutte queste bandiere rosse, preparazioni di settimane, e la gente era organizzata per zona/quartiere, con un responsabile, ma aveva paura, doveva partecipare per forza. Chi non avesse partecipato, in qualche modo avrebbe pagato, anche solo nel non ottenere accesso ai pochi beni materiali disponibili. Poteva esserci un pollo ogni due-tre settimane, da ritirare con un biglietto, e poteva succedere che non si dessero il biglietto, o il pollo. Dunque, lungi dall'essere spontanea!

Di queste cose ce ne siamo resi conto gradualmente. Vi era un grande autoritarismo. Avevo scritto delle lettere proprio su questo, e anche qualche articolo, prendendo le distanze da tutto questo.

Addirittura ad un certo punto Samora Machel fece discorsi contro i costumi occidentali, stigmatizzando le ragazze che si vestivano con i pantaloni attillati, o che si truccavano,... il giorno dopo uno di questi discorsi, vidi un'impiegata del ministero, che era molto brava e usava stirarsi i capelli, arrivare quasi rapata a zero. Scoprimmo così che portava una parrucca, e dopo i discorsi di Machel, se l'era tolta! Per lei dovette essere un gran trauma, perché aveva pochissimi capelli. Noi rimanemmo tutti di stucco. Ci furono tanti episodi come questo, in cui si vedeva che la gente di autoviolentava. Ci furono anche episodi di ragazzi che aggredivano le ragazze se avevano pantaloni ritenuti troppo occidentali. Bisognava essere " in linea", e cominciammo ad avere anche paura. Nonostante i tanti discorsi sulla rivoluzione che non poteva prescindere dalla liberazione della donna, in realtà vi era tanta misoginia.

E questo a Maputo. Io sono state pochissime volte in zone rurali, ma lì sicuramente la situazione era anche peggio. Vi era la politica delle "aldejas comunais", corrispondente alla politica di Nyerere in Tanzania, dei villaggi Ujamaa. Alla fine di anni 70, inizio anni 80, i villaggi Ujamaa avevano già mostrato i loro lati negativi e costrittivi, per cui ci siamo chiesti davvero come i mozambicani abbiano potuto cercare di riprodurre lo stesso modello politico rispetto alle campagne, con risultati assolutamente disastrosi. La gente scappava e bruciava le aldejas. Molti contadini erano stati obbligati a lasciare le loro case per andare a vivere nelle comuni. Il discorso era razionale: "vi raduniamo perché così possiamo meglio organizzare servizi: il posto di salute, le scuole,...". Ma le persone non possono essere obbligate a vivere in un posto. Figurati poi in situazioni del genere, dove la proprietà della terra è considerata da sempre un diritto ancestrale, consuetudinario. E tu arrivi lì e sradichi delle famiglie intere!  Persino la planimetria era obbligata, proprio come nel realismo socialista, tutto allineato, tutto uguale. In Africa! Ti rendi conto?  Era stata proprio una violenza anche nei confronti dell'architettura tradizionale, una distorsione a 360 gradi.

Quanto tempo sei rimasta in Mozambico?   Quattro anni.

(Nella foto, Stefania ed io il giorno di questa intervista, marzo 2003).

E come si è trovato tuo figlio?  Si è trovato abbastanza bene. All'inizio ci sono state delle difficoltà, soprattutto per via della separazione da suo padre.  Ha frequentato la scuola internazionale, in inglese, e questo all'inizio è stato un po' un problema perché ha dovuto imparare contemporaneamente sia l'inglese che il portoghese. Ha avuto comunque un'insegnante australiana che fu molto carina.

Io del resto non avevo molto tempo per stare con lui. In tutto il periodo che sono stata in Mozambico ho lavorato moltissimo, si cominciava la mattina presto.

Il tutto sempre per 2-300.000 Lire?

Ah sì!  È stata davvero dura far quadrare il bilancio. Per fortuna ho sempre diviso la casa con un'amica-collega, Bettina, con la quale si divideva tutto a metà, nonostante noi fossimo in due, io e mio figlio. E poi ho sempre avuto amici che mi aiutavano, per esempio quando c'era da cambiare la valuta. Funzionava così: noi eravamo pagati in moneta locale, poi ogni tanto, quando la banca poteva permetterselo, arrivava la cosiddetta "traferencia", ovvero avevi diritto a cambiare una certa somma in valuta straniera. Però questa cosa durava uno o due giorni, quindi tu dovevi avere subito a disposizione i soldi liquidi. Io in genere non li avevo mai! E così me li facevo prestare. A volte poi chi me li ha prestati non li ha più voluti in dietro!  

Nel 1980 aprì il primo negozio per valuta straniera, che sapevamo essere ben poco socialista, ma per noi era davvero molto comodo! Finalmente potevamo trovare un po' di formaggio, qualche bottiglia di vino, saponette...

Com'è stato poi che hai deciso di lasciare in Mozambico?

Non è stata una decisione facile. Dopo quattro anni sul posto, sia io che gli altri italiani ci sentivamo profondamente legati al paese e anche ai suoi obiettivi sociali e politici. Gli anni 80 poi, secondo Samora Machel dovevano essere la decade di "uscita dal sottosviluppo" (invece poi sono stati quelli che hanno dato il colpo di grazia...). Io ero molto impegnata per il sistema educativo mozambicano, infatti mi avevano chiamata a lavorare al ministero dell'educazione per collaborare all'equipe che doveva stendere il nuovo piano educativo nazionale, a tutti i livelli. Io facevo parte dell'equipe per la didattica del portoghese e di quella per la formazione degli adulti. Dopo aver fatto una pianificazione generale degli obiettivi, avevamo lavorato dal basso per realizzare i primi due libri di testo: portoghese e matematica, per adulti.  Io in particolare avevo lavorato al primo libro per il portoghese, e ho poi verificato che molte delle impostazioni date all'ora, sono rimaste le stesse anche anni dopo. Verificammo però anche in questo lavoro una buona dose di autoritarismo; vi era sempre chi si considerava detentore di un potere e di una conoscenza, e vi furono anche momenti di grande delusione e piuttosto umilianti per alcuni di noi.

Una volta tornata in Italia, hai poi ripreso il tuo lavoro di insegnante?

No, assolutamente. A quel punto... mi sono ritrovata in pensione! In Italia avevo lavorato per dieci anni, poi avevo riscattato gli anni dell'Università, e mi erano stati riconosciuti due anni e mezzo lavorati in Mozambico. Così, proprio con il minimo, ho avuto la baby-pensione! Con 14 anni, 6 mesi e 1 giorno, e un figlio a carico. A 38 anni ero pensionata. Altrimenti avrei perso il lavoro, perché a scuola comunque non volevo più tornare.

Fu una fortuna il fatto che si occupò di tutto una mia amica di Ancona, mentre io ero in Mozambico. Lei mi disse che era uscita questa possibilità, e mi mandò i documenti per fare la domanda, io glieli rimandai firmati, e così al mio ritorno mi ritrovai già in pensione!

E allora cos'hai fatto?

Beh, a quel punto ho realizzato un desiderio su cui già avevo lavorato in Mozambico: andare negli Stati Uniti a fare un master. Siccome mi ero occupata di alfabetizzazione, mi interessava studiare soprattutto i meccanismi di psicolinguistica, l'apprendimento in una seconda lingua, che era lo scoglio che avevamo maggiormente trovato in Mozambico.  Andai nel Massachusetts, dove per mantenermi con mio figlio insegnavo italiano, e poi trovai una piccola borsa di studio.

Simone come si adattava a questi spostamenti? Era contento o un po' disadattato?

... questo dovresti chiederlo a lui! A me sembrava fosse contento, ma dopo molti anni ha cominciato un po' a rinfacciarmelo, anche se guarda caso lui si è poi fermato a vivere gli Stati Uniti. Certo gli inizi non erano mai facili, e io ero preoccupata nel vedere che stava molto in casa. Poi doveva imparare sempre una nuova lingua, perché comunque l'inglese parlato nel Massachusetts non era lo stesso che aveva imparato dall'insegnante australiana in Mozambico! E doveva adattarsi ad una nuova scuola, un nuovo stile di rapporti, ecc. comunque, dopo il primo periodo di adattamento è poi andata bene. Fu un bel periodo, e io presi un master in International education. Era molto bello perché si potevano scegliere i corsi liberamente. Io seguii diversi corsi di linguistica, ma anche di economia, di statistica, ... potevi frequentare diverse facoltà, a seconda dei tuoi interessi. Nella primavera dell' 85 avevo finito. Mi sarebbe piaciuto fare anche un PhD in lingue bantu, ma lì non vi era un centro di studi africanistici. Feci mari e monti per trovare il modo di andare in un'altra facoltà, e alla fine avevo trovato una soluzione nell'Indiana. Solo che dovevo aspettare diversi mesi, e nel frattempo non avevo la possibilità di mantenermi, non avevo borse di studio. Feci vari lavoretti, ma assolutamente non potevamo viverci io e Simone, così dovemmo levare le tende. Passammo circa 6 mesi in Italia, Simone aveva 15 anni, e mi dispiacque molto che non poté finire l'anno scolastico negli Stati Uniti, ma davvero non ce la facevamo economicamente. Andai successivamente per un periodo nell'Indiana per vedere di frequentare il PhD, ma vidi che non era possibile, era tutto troppo complicato. Tornata definitivamente in Italia, cominciò un periodo piuttosto difficile perché coincise con la morte del papà di Simone, e poi ebbi varie delusioni sul piano professionale. Non avevo più molti rapporti in Italia, e cominciai a guardarmi intorno, tra le varie Ong. Dopo varie ricerche, andai in Mali, con Terra Nuova, per 2 anni, su un progetto rurale integrato.

Sai, quest'immagine di te che te ne vai in giro per il mondo con tuo figlio, mi fa venire in mente il film "Chocolat"!

...(ride)... eh sì, mi ci ritrovo abbastanza!  Ne avevamo visto un altro simile io e Simone, e lui mi disse "eh, mi dice qualcosa!".

Il Mali fu una bella esperienza, molto diversa. Rimanemmo in tutto tre anni, con qualche interruzione, fino al '90. Io mi  occupavo di educazione sanitaria di base, e mi piaceva molto. Infatti poi, via via, mi sono specializzata su questo. 

Rispetto al Mozambico, fu una cosa completamente diversa. Innanzitutto sono aree geografiche completamente diverse, e poi non vi era più tutto l'aspetto ideologico che avevo respirato in Mozambico. Soprattutto rimasi colpita dalla vivacità culturale dell'Africa occidentale. Anche il rapporto con i colleghi maliani, era assolutamente paritario. Anzi quasi quasi vi erano anche espressioni di disprezzo verso noi bianchi. Per esempio in Mozambico, le persone che avrebbero potuto parlare tra di loro nella loro lingua, alla nostra presenza parlavano sempre portoghese. Nel Mali, capitava invece molto spesso che i maliani parlassero tra di loro in lingue per noi assolutamente incomprensibili!   Inoltre io mi trovavo per la prima volta in un contesto rurale, visto che in Mozambico avevo sempre lavorato in capitale. Tutte le dinamiche, i livelli tecnologici, ecc. erano quindi completamente diversi. Tutto il modo di vivere sia loro che nostro; anche noi prendevamo l'acqua dal pozzo.

E lì Simone ha dovuto imparare il francese?!

No... lì Simone mi ha abbandonata! All'inizio l'avevo iscritto al liceo francese, ma lui non accettò perché non sapeva la lingua. Allora provammo la scuola pubblica maliana, e lì... lui andò per due giorni, dopodiché mi disse "basta non ci vado!" perché era l'unico bianco!  Rischiava così di perdere l'anno scolastico, aveva quasi 17 anni ed era in terza liceo. Fu lì che tornarono in ballo gli Stati Uniti, perché aveva saputo che un ragazzo a Bamako figlio di un diplomatico, studiava con una scuola americana che faceva distance learning, così gli trovai un tutor, e lui (con un po' di fatica) tornò in Italia vivendo con mia madre, e studiò così. Ottenuto poi il diploma americano di scuola superiore, è andato poi a fare l'università negli Stati Uniti (e lì è rimasto e si è sposato).

Insomma, ti ha smollata in Mali e si è fatto la sua vita!  Esattamente!

Il Mali è stata un'esperienza positiva per te professionalmente?

Sì, anche se è stato un po' come ricominciare dal basso, come se non avessi le esperienze e i titoli che avevo. Ho ricominciato dalla gavetta. Il progetto mi piaceva molto, giravo per diverse regioni e facevo animazione nei villaggi, soprattutto per educare all'uso dell'acqua dei pozzi, come renderla potabile, ecc. avevo dei colleghi simpatici, imparai moltissime cose, in particolare di sociologia rurale, e fu quindi un periodo molto positivo. Inoltre un periodo particolare per il Mali, infatti nel '91 scoppiò la rivoluzione che buttò all'aria Moussa Traoré. Quando tornai in Italia, proprio a gennaio '91, morì mia madre. Dopo poi sono succedute varie altre missioni, in paesi diversi, Nigeria, Filippine, ...fino alla Somalia, dove non ci siamo conosciute, nel 1999.

Stefania, se ti va, mi piacerebbe se volessi raccontare qualcosa circa la malattia che ti ha colpita prima che noi ci conoscessimo in Somalia.

Oh no! No, non mi va di parlarne. Se ti ricordi avevo scritto una specie di diario su quel periodo. E lo avevo scritto in inglese, proprio per "allontanarlo" (si può leggere cliccando qui).

Ok. Mi interessavano più che altro gli aspetti di insegnamento che tu avevi tratto da quell'esperienza, e che potresti dare ad altri.

Sì, me ne rendo. Ma non mi va. Non ho voglia di parlarne. Mi costrinse ad una notevole battuta d'arresto. Proprio nel '99 avevo fatto una missione breve in Giordania, e dopo mi avevano offerto un lavoro che mi interessava moltissimo, finalmente era anche un ottimo contratto!  Dovevo essere consulente a Bruxelles come Health population expert. Immediatamente dopo, saltò fuori la malattia.

Sono rimasta per un anno bloccata in Italia per curarmi. Chemioterapia, intervento chirurgico... e poi il primo non è neanche andato bene, ho perso un sacco di tempo. Finite le cure sono partita per la Somalia.

Va bene. Allora apro un altro capitolo. Tu sei ebrea di nascita, con una posizione politica pacifista, antisraeliana. Vuoi parlarmi di questo?

... beh, questa è tutta un'altra storia! È un discorso molto lungo!

Devo partire dal significato di "sentirsi ebrei". Cosa ha significato per me, e cosa vuol dire adesso.

L'identità ebraica ti si stampa addosso, da quando nasci. Anche se la tua famiglia non è particolarmente osservante, tu comunque sei diversa dagli altri. Non festeggi il Natale, la Pasqua, ... lo Yom Kippur e le altre feste fondamentali, sono comunque celebrate.

Un mio zio, fratello di mia madre, dopo le leggi razziali in Italia, andò in Israele e fondò un kibbutz, e con lui rimasero legami molto forti. È una persona eccezionale, ma ormai anziano e purtroppo due anni fa è stato colpito da un ictus. Una persona molto generosa, e che ha sempre studiato moltissimo. Sia lui che sua moglie sono sempre state persone molto aperte, ma anche loro sono nazionalisti. Sono lì, e ci vogliono restare.

Parlami di quest'identità ebraica che hai sempre sentito, fin da ragazzina.

Sì certo, è sempre stata molto forte. Quand'ero adolescente mi dava anche molto fastidio la contraddizione che sentivo nel far parte di una religione, che però poi non vivevamo profondamente. Ad un certo punto, ebbi il mio periodo di crisi religiosa, in cui volevo convertirmi al cristianesimo. Un po' mi sentivo sommersa, e un po' mi ero davvero innamorata dei contenuti del Vangelo. Ricordo che i miei presero la cosa molto tranquillamente, e dissero "... passerà!". Infatti poi mi è passata! Durante il periodo universitario mi sono staccata completamente dalle questioni religiose. Nel 68, durante il risveglio politico, ci fu però la totale adesione alla causa palestinese. Israele quindi era visto come un tutt'uno con il sistema americano imperialista. Devo dire che fin dall'inizio non ho mai sentito contraddizione tra l'essere ebrea e l'essere per la causa palestinese.

Senti, una domanda assolutamente personale. Tante volte mi chiedo come è possibile che PROPRIO le persone che sono andate lì, nella Terra Promessa, molte delle quali hanno vissuto ciò che hanno vissuto durante il periodo nazista, com'è possibile che proprio quelle persone andate lì con un comprensibilissimo sogno di liberazione, siano loro a perpetuare delle sofferenze così grandi, come non si rendano conto del dolore che affliggono ad altre persone che sappiamo vivere in gabbia, portate a morire magari mentre vanno a partorire, fermate ai check point, e tante altre cose di questo genere. Come ti spieghi tutto questo?

Beh, certo non è facile spiegarmelo. Ma è la domanda che mi sento rivolgere più spesso.  E del resto me la faccio anch'io, tante volte.  Ci sono molte ipotesi. Io ne ho alcune, che mi sono fatta leggendo e studiando parecchio.

Da un lato, c'è quella più cinica: che nelle proprie sofferenze, non è vero che si diventa più comprensivi, più buoni rispetto alle sofferenze altrui. Si vuole invece evitare che NOI non ne viviamo delle altre. Quando si dice "mai più", si intende "mai più per noi". Questo secondo me è molto forte nel caso ebraico perché, anche se la shoà è stato l'anello più terribile, bisogna ricordare che è stato l'ultimo di una catena millenaria di persecuzioni, cacciate, impiccagioni, ogni volta che qualcosa non andava ... dagli all'ebreo!    Alla fine interiorizzi il fatto che devi sempre essere sulle difensive, non puoi fidarti di nessuno. Ci sei tu, ebreo, e ci sono gli altri, i gentili, verso i quali esiste tutto un lessico dispregiativo. Il senso della diversità è fortissimo.

Rispetto poi al contesto storico mediorientale, bisogna pensare che la colonizzazione ebraica è cominciata già nell'800. Vi era anche una comunità di circa 10.000 persone che erano sempre state là, disprezzatissime. Con il sionismo si è cercato di creare un nuovo tipo di ebreo, il colono, che doveva anche somaticamente combattere lo stereotipo dell'ebreo piccolo, rachitico, col naso lungo,... come si diceva "sviluppato di cervello, ma poco di corpo". L' ideale di un ebreo alto forte robusto, che doveva coltivare la terra, ha accompagnato un po' tutta l'epopea della colonizzazione, che era cominciata già molto prima del nazismo.

Il rifiuto arabo era più che comprensibile. Vedevano arrivare tutta questa gente, e il movimento sionista era fortemente nazionalista e colonialista. Si riproducevano infatti situazioni tipiche della colonizzazione. Gli ebrei arrivavano con un bagaglio di conoscenze e di tecnologie dall'Europa, che gli arabi non avevano. Compravano la terra dagli arabi, molti dei quali erano completamente analfabeti, appartenenti ad una società clanica, con un livello di sviluppo molto più arretrato. I rapporti che si creavano quindi, erano inevitabilmente da colonizzatore a colonizzato. Già all'inizio del 900 le relazioni si sono configurate in questo modo. Quindi con un certo disprezzo reciproco, anche se certo non generalizzabile. Molti ebrei vedevano negli arabi solo dei contadini rozzi e ignoranti.

Fra il 36 e il 39 c'è stata la prima rivolta, puoi si è arrivati alla guerra del 48. Nel 41- 43 bisogna anche tenere presente che gli arabi erano stati alleati della Germania, perché avversavano gli ebrei, alleati dei britannici, e quindi per forza gli arabi dovevano buttarsi dall'altra parte. L'odio quindi è montato, ma si è creato nel corso di decenni e decenni. Non si può capire la situazione attuale senza tenere presente la storia.

Si però riesce comunque difficile accettare che ci sono persone di adesso, che non sono neanche cresciute in Israele, sono colte, cresciute in Occidente, eppure non riescono a concepire che nell'individuo che si fa saltare in aria, c'è una sofferenza anch'essa ancestrale, ma vedono in quell'individuo unicamente il terrorista. Un ragazzino cresciuto senza conoscere niente altro che la guerra, difficilmente può fare molte altre cose. Non si può vederlo solo con odio. Se continuiamo a ragionare sul fatto che questi odii sono ancestrali, non andiamo da nessuna parte.

Sì, però è così. Non è che difendo questa posizione, ovviamente, anzi io sono proprio dall'altra parte. È solo un'analisi. Questa rivalità è cresciuta in tempi molto lunghi, e fa parte del modo di essere delle persone. Questa è l'unica risposta che riesco a darmi, anche perché queste cose le vivo proprio all'interno della mia famiglia. Anche se hai a che fare con persone molto care, intelligenti, e che non sono certo fra le più estremiste, di fatto però le concezioni si assomigliano, perché fanno parte del loro vissuto, della loro identità.

Dopo la guerra del 48, gli arabi cantavano il loro odio per gli ebrei. Tra gli obiettivi dell'OLP vi era la distruzione dello Stato di Israele. È solo nel '88 che Arafat accetta di riconoscerlo. Secondo me, vivendo lì, si dovrebbe capire che siamo arrivati in un posto che era già abitato, e noi abbiamo imposto un "fatemi largo" che ovviamente non poteva essere accettato. Bisogna anche ricordare il ruolo delle potenze internazionali, in particolare dell'Europa. È vero per esempio che gli arabi hanno rifiutato la ripartizione, ma è anche vero che quella ripartizione era iniqua. Il 55% del territorio andava a chi rappresentava solo una minoranza, mentre gli arabi che erano una maggioranza, dovevano restare con il 45%. Era un'ingiustizia obiettiva. Insomma i fattori sono stati tantissimi, e hanno portato al dolorosissimo punto in cui siamo oggi.

È ormai da più di un'ora che faccio domande a Stefania e ascolto il racconto della sua vita e delle sue idee. Ha scritto e pubblicato vari articoli sulla questione israelo-palestinese, che possono essere letti cliccando qui (tra cui trovate resoconti di viaggio e diversi link utili). 

Abbiamo camminato nel silenzio di Montovolo, tra il sole e il vento. Siamo ormai sulla via del ritorno, verso la valle del fiume Reno.

Un'ultima domanda Stefania. Tra due giorni parti per l'Albania, dove hai già lavorato alcuni mesi. Sei contenta?

(ride!) uhm... così così!

Home page

Altre storie di Bella gente

©SilviaMontevecchi