Silvia Montevecchi

 

Il sogno ostinato

 

 

Seconda parte

             ***

DA QUESTA TERRA DI PIETRE E SABBIA

 

Somaliland, racconti di viaggio, 1999

 

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE alla SECONDA PARTE,

nell’EDIZIONE di TERRE DI MEZZO.

 

Lasciai così le colline del Burundi e le sponde del lago Tanganyika. Presi un aereo della Egypt Air e mi fermai alcuni giorni in Egitto, durante i quali feci una splendida salita al Monte Sinai. Mi trovavo ai piedi delle 

piramidi quando cominciai a sentire un freddo orribile. Faceva caldo, sotto il sole del deserto. Io avevo tre maglie una sull’altra, eppure tremavo come una foglia. Erano i sintomi della mia prima malaria. La seconda 

fu nel ’99, al ritorno dalla Sierra Leone.

Il giorno dopo, l’aereo mi riportava a Bologna, dove fui dolcemente curata dal personale delle infettive del S.Orsola.  Passai il Natale a casa e poi ripartii, nel febbraio 1998, alla volta del Madagascar.

Non avevo alcun contratto. Partivo semplicemente “al seguito” del mio compagno, che lavorava come cooperante in un progetto di lotta alla malaria. E’ stata l’unica volta in cui mi sono ritrovata a vivere un 

periodo “da signora”, senza cose prestabilite da fare. Potevo rilassarmi e passare le giornate a fare ciò 

che più mi stimolava. Così andavo a visitare Ong locali e missioni, passeggiavo tra l’inebriante vegetazione 

dei giardini di Tanà, in particolare quello in cui abitavamo, all’Istituto Pasteur. Leggevo e scrivevo. 

Fu uno dei  periodi più felici della mia vita. [1]

Il Madagascar è un paese stupendo, che suggerisco a tutti di visitare. Mi ha lasciato dentro sensazioni profonde, per la sua natura così ricca, la sua particolare e variata architettura, le sue tante etnie di 

origine africana e asiatica.  Vi rimasi fino al febbraio ’99, ma nel frattempo erano successe molte cose 

tristi, che mi hanno impedito di scrivere per mesi, e che mi portarono al dolore immenso che si ritrova negli scritti somali.   La nostra storia finì in maniera drammatica e io ritrovai nella fatica e nella solitudine del 

deserto somalo la capacità e la gioia di ricostruirmi. Partii come education export per un progetto di riscolarizzazione primaria finanziato dall’Unione Europea.

Un altro cambiamento. Un altro meraviglioso trauma, alla scoperta di altri mondi ancora.

 

 

Nairobi. 28.2.99  - Verso il Somaliland.

(Comincia forse una nuova serie di lettere… Abbiate pazienza! Altrimenti gli amici a cosa servono?!)

Una nuova avventura, un nuovo paese. Nascere di nuovo.

Che fatica!

Per un anno ho fatto cose completamente diverse da quelle che avevo sempre fatto, e forse, dalla mia natura. E per mesi -

 in Madagascar, paese stupendo - ho vissuto in un ambiente così diverso, così pieno di superficialità, di pettegolezzi 

cattivi, di prostituzione,… che il mondo dell’associazionismo e della solidarietà era davvero lontano.

E’ difficile riprendere in mano vecchi pezzi. Ritrovarsi. Ricostruirsi.

Ero sempre stata così felice della mia “professionalità“, del mio sentirmi pedagogista, dei contenuti e degli obiettivi del mio lavoro. E adesso, è difficile ritrovare anche solo il senso della parola.

La “professionalità” non è mica un vestito, che lo togli e lo rimetti… O forse sì ? Speriamo.

Ora ritrovo “i miei elementi”. L’infanzia, le scuole, gli incontri con le autorità locali, la formazione degli educatori,… il tutto 

calato in nuovi contesti da scoprire, la lingua inglese, un mondo semidesertico, di cammelli, di mussulmani, di pastori 

nomadi, di comunità claniche tradizionali,….

 

…Nascere di nuovo.

Per un anno di solidarietà non ne ho proprio sentito parlare. Ho visto solo un mondo in cui il turismo sessuale era l’industria 

con il maggior fatturato, in cui i bianchi quando possono si fanno le scarpe l’un l’altro, in cui la fauna più frequente non erano i  lemuri bensì le coppiette di vecchi debordanti e svenevoli, cascanti davanti a ragazzine con l’ombelico fuori, che aspettano erotiche il primo pollo cretino da spennare. (E naturalmente lo trovano).

Devo dire che già dal Burundi, dove pure ero nel mondo della cooperazione, la solidarietà era una parola ben poco citata. 

Ma forse è qualcosa che non esiste. Che si ritrova solo in certe riviste del nord del mondo, che ancora filosofizzano sui mali dell’umanità e sulle sue cause. Forse chi scrive quelle riviste e chi le legge, è una piccola minoranza di stupidi che in antropologia sarebbe definita “resistenza culturale”, …destinata a scomparire nel giro di qualche anno.

 

Nascere di nuovo.

Non lo so. Non so se ci riuscirò. Certo, sono uscita dal tunnel. Ho ritrovato queste meravigliose acacie, e gli eucalipti 

altissimi. Ho ritrovato l’Africa. Mi mancava.

Ma le ferite lasciano il segno. Non so se ritroverò i vecchi ideali, o se si sono bruciati del tutto.

A Muyinga, ogni mattina mi svegliavo FELICE, perché ero entusiasta di quello che facevo. Amavo quelle colline, i rumori, gli odori. Gioivo nel lavorare per i bambini di quei campi profughi.

Ora non ho più nemmeno un decimo di quella carica. E’ difficile rimanere entusiasti quando si sa che è tutto inutile.  

Lo sapevo anche là. La mia era solo una piccola pezza, per dare un po’ di sorriso a quei bambini traumatizzati, che vivevano in condizioni miserabili, nonché un po’ di cibo in più ogni giorno. Ma finito quel progetto, finito quel finanziamento, che cosa 

rimane a quei bambini? Bah, credo che siano tornati nella cacca in cui li avevamo trovati. 

Senza nessuna possibilità di guardare avanti, se non nel loro campo di banani, con due pecore, e il pozzo lontano tre 

chilometri per andare a prendere l’acqua a piedi.

Magari mi sbaglio. Forse le scuole continuano a ricostruirle, forse gli insegnanti hanno ripreso a lavorare.

Ma purtroppo mi è rimasta la convinzione che dei bambini del Burundi, della Somalia, del Sudan, non gliene frega niente a nessuno. Che i tanti miliardi che si spendono sono solo grandi manovre di macchine mosse per giochi politici ed economici 

di cui anche noi, forse cretini che credevamo nel dare qualcosa agli altri, siamo tante fondamentali pedine.

 

Nascere di nuovo.

C’è anche da scrollarsi di dosso i ricordi di un uomo sbagliato. Certo che se ne fanno cazzate nella vita.  E si può rinascere poi?  Beh, su questo almeno, credo di sì. Voglio dire: se non avessimo neppure il beneficio dell’errore…(e in fondo, cos’è un anno di errore in confronto a una vita?!)

Spero di ritrovare la carica, l’entusiasmo, la professionalità, anche. Per quei bambini. Ora mi rendo conto di essere qui principalmente per lo stipendio. E’ vero che se non si fosse pagati bene in Somalia non c’andrebbe nessuno. 

Ma è altrettanto vero che quando si ha un buono stipendio, spesso diventa il fine unico. Credo che comunque mi basterà 

vederli per esserne conquistata. E allora non mi farò più tante domande se gli autori e i lettori di quelle riviste sono poveri 

cretini o no, se di quei bambini a qualcuno gliene frega o no, se io sono o no una pedina di grandi manovre, ecc.. perché 

poi non me ne frega niente anche se lo sono. Come ho sempre fatto, cerco di coltivare al meglio il pezzo di terra che ho a disposizione, anche se è un francobollo.

E grazie a quei bambini, spero che dimenticherò gli errori, le ragazze volgari e i vecchi debordanti di Antsiranana, i tunnel, 

le fatiche, gli uomini idioti, e forse potrò riavere buoni ricordi del Madagascar e nuova fiducia per andare avanti.

 

 

7.3.99, Boroma, Somaliland

Prima tappa verso Berbera. Non si può dire che sia un posto affascinante. E’ un po’ una pietraia, con un buon clima. 

Dicono che prima della guerra fosse pieno d’alberi, poi tagliati per sopravvivenza. Ora il paesaggio, arido e piatto, ricorda i 

paesi mediterranei, l’Egitto, Israele, ma senza gli ulivi. Ci sono cammelli e asini qua e là, e questi colori chiari, bianco e 

grigio delle case in pietra, e un bel cielo azzurro. E queste donne con lunghi veli neri.

Le donne, sono sempre quelle che mi affascinano di più, ovunque mi trovo. Con i loro sorrisi sempre e comunque, con il loro muoversi fluente. Sono davvero loro che scaldano il mondo, che danno a questa terra un po’ di dolcezza.

Sarà che sono traumatizzata dalle ultime personali esperienze, ma il genere maschile, in ogni paese, mi sembra quello più stupido. Gli uomini ovunque sono capaci di violenza, di ubriacarsi, di usa-e-getta, di spacconeria. (Qui, come in Madagascar, non fanno che masticare foglie di qat, e ridono con quei bei denti impiastriccati di roba verde masticata, che schifo!). 

Mentre le donne, in molti paesi sempre incinte, con i loro marmocchi sulle spalle arrivano là dove gli uomini neanche si sognano, con un senso di responsabilità, una calma determinazione, una capacità di analisi e di comprensione, che sposta 

le montagne.

 

10.3 Mercoledì. Berbera.

Finalmente arrivata, posso disfare i pesanti bagagli, con i miei dieci chili tra libri e roba d’ufficio. L’accoglienza non è il massimo.  La città appare un piattume grigio con tante case distrutte e ampi spiazzi  sterrati.  La casa… no way, i bagni sembrano quelli di un campeggio italiano a una stella.

 

14.3. Domenica

Dell’assurdo del destino

La vita è davvero un cinema incredibile. Qual è il burattinaio che da oltre un anno tira i miei fili? Dove vuole arrivare? Se 

esiste un disegno del destino, come molti sostengono, il mio sembra lo scarabocchio di un disegnatore pazzo, che traccia 

linee aggrovigliate, come un gomitolo srotolato senza più capo né coda.

Era già stato abbastanza assurdo ritrovarmi in Madagascar con l’uomo con cui stavo, a recuperare gli esiti di un sogno

fallito. Allucinante è stato il ritrovarsi con quell’uomo che un tempo elargiva parole d’amore, che ti manda senza ritegno a 

quel paese, fa i bagagli, e ti smolla come un’idiota in un paese dove mai avresti messo piede se non per lui e con lui.

Ora siamo veramente al comico: ritrovarsi entrambi nello stesso posto, a incontrare lo stesso Sindaco, gli stessi villaggi…

E lui che ti tira addosso una crudeltà gratuita, inspiegabile, un odio che sembra uscire dai meandri della terra, e ti chiedi 

quali cazzi di traumi infantili un essere debba avere avuto per uscire così pazzesco, così deliberatamente, consapevolmente

 e dichiaratamente egoista e crudele con tante persone.

 

Ritrovare la felicità

Tutto ciò comunque, non mi scalfisce più. Certo, è una bella lezione sull’animo umano.

Ma ciò che mi interessa, è che sono uscita dal buco nero in cui mi ero trovata, un pozzo che sembrava inarrampicabile e mi ha fatto sentire alla fine della vita. Non vedevo più nulla davanti a me, restando a Diego Suarez, in una solitudine lacerante, a 

fare cose che non amavo.

Sono sul mare. Un mare certo poco affascinante dopo avere vissuto per mesi nella “seconda baia più bella del mondo”.  

La spiaggia di Berbera, dopo quelle di Ramena, dopo Sakalava, Ampasindava, la mer d’Emeraude… lascia come minimo “perplessi”. Nulla di bello, nemmeno le onde. La sabbia poco pulita. E le rovine della guerra che sono arrivate anche qui. 

No, non mi stimola per prendere il sole, tanto più che qui devi sempre stare in campana e non scollacciarti troppo.

Mi interessa il lavoro. La gente. Il progetto che ho da realizzare. Ritrovare l’equilibrio perduto. E la gioia di vivere, 

possibilmente.

Il lavoro che devo fare è molto bello, e consiste in una grossa sfida per lo stato del Somaliland.

Ci sono due generazioni che hanno perso la scuola in tutta la Somalia causa la guerra e la distruzione e la povertà che ne derivano. L’autodichiarata Repubblica del Somaliland ha fatto grossissimi sforzi in questi ultimi anni per ristabilire la pace 

e le istituzioni politiche, insomma, un Governo. Le scuole un po’ alla volta riaprono i battenti, con un grosso aiuto di Unicef 

e Unesco che – da Nairobi - fanno praticamente le veci del Ministero dell’Educazione per tutta l’ex Somalia, dove lo Stato

non esiste più. Le due agenzie Onu hanno lavorato in questi anni per ridefinire i curricula scolastici e rifare i testi per i 

bambini, che ora sono in stampa, in somalo e inglese.

 

Il Progetto Educazione di Berbera comporta la riabilitazione di alcune scuole elementari distrutte, il loro ampliamento con la costruzione di altre aule, l’arredo interno ed esterno con spazi per lo sport e il gioco, quindi la formazione degli insegnanti e l’avvio delle attività.

Tutto questo in un contesto di grande povertà, ma che include due differenti sfide: l’approccio della Community Based Education, e l’educazione per i nomadi. L’Educazione su Base Comunitaria significa il coinvolgimento della gente nell’avvio 

e nella gestione stessa delle scuole. La comunità è coinvolta fin dall’inizio nella riabilitazione degli edifici, poi nel 

sostentamento degli insegnanti con delle tasse periodiche – in moneta o in natura – quindi nella gestione. Ciò per far sì che – da un lato – scuola e società non siano slegate ma una dentro l’altra e – d’altro lato – che la scuola sia autonoma, e non dipenda dagli aiuti esterni, che poi se ne vanno.

La nomadic education è un’altra grossa sfida in quanto in Somalia il 40 % della popolazione è nomade, e non esiste una 

scuola né vi sono mai stati tentativi ad hoc. E’ uno strato della popolazione che non gode di molta simpatia da parte dello 

strato sedentario, e in passato si è cercato di rispondere all’esigenza di scolarizzazione dei bambini nomadi creando dei 

convitti nelle scuole. Il ché significa: puntare all’eliminazione del nomadismo.  La sfida sta proprio all’opposto: una scuola 

che si muove, che segue i bambini nella loro transumanza, insieme con le case, i cammelli, lungo i percorsi delle piogge e 

delle sorgenti d’acqua. Una scuola che rispetta l’identità culturale, perché se vorranno sedentarizzarsi o no sarà una 

sacrosanta scelta loro.

Tutto ciò è piaciuto molto al responsabile U.E. (che paga!) e al Sindaco di Berbera, che sembra un tipo “avanti”. 

Uno “che la sa lunga”.

Mi sembra di trovare qui una coscienza politica e un livello di conoscenza decisamente diversi rispetto al Burundi, che 

rimane la situazione più arretrata tra tutte quelle che ho conosciuto. Credo che qui il lavoro, almeno sul piano intellettuale, 

sarà relativamente più semplice.

Ho visitato alcune scuole nei villaggi. Chilometri e chilometri di quasi deserto, colori aridi, spazzati dal sole e dal vento. Montagne rocciose dopo distese piatte che sembrano senza fine. Cimiteri di pietre, cammelli sparsi, scoiattoli veloci. 

Donne con abiti lunghi e io, sempre con un velo sulle spalle. Ritrovo la dimensione “ai confini del mondo”, che amo, e che 

avevo perso da tempo.  Mi riprende la voglia di tuffarmi qui, con una tenda, in questo deserto di sassi e piante secche. 

E i sorrisi della gente.

Il silenzio. La solitudine. Ma quella bella. Ricomincio a vivere. Ritrovo la felicità.

 

 

Martedì 16 marzo 99. Berbera, Somaliland                                     

 

La prima “avventura”.

E’ un bel casino “portare le scuole in Africa”!  La direzione è Bula Har, un villaggio di pescatori e di nomadi che dista circa 

70 km. da Berbera, su una pista in gran parte sabbiosa. Il paesaggio è piuttosto monotono ma bello. 

Grandi uccelli camminano tra gli arbusti, simili a struzzi, e poi i cammelli, tanti, e volpi grigi e lepri, asini, gazzelle. Pastori vecchi e giovani con mandrie di pecore e capre. La pista costeggia il mare e la spiaggia infinita è bella, di un bel colore 

bianco. Verrebbe voglia di fare una deviazione e fermarsi: non farsi indurre in tentazione! Se si vuole si va a piedi alla riva. 

Tanta bellezza, appena fuori dalla pista, è MINATA.

Mi dicono che occorreranno una o due ore, e che per pranzo saremo di ritorno. Solita cognizione del tempo africana! 

Dopo quasi tre ore arriviamo al letto del primo fiume, dove alcune auto si sono piantate clamorosamente. 

Riusciamo a passarlo, con l’autista che si ritrova a scavare nel fango, e così pure gli altri tre fiumi successivi, più stretti ma sempre ben fangosi.

Dopo una mattinata in auto, raggiungiamo il villaggio, dove l’accoglienza è molto calda. La gente sembra aspettarci, gli 

anziani ci dicono che non vedono l’ora che cominciamo i lavori e sono pronti a dare tutto il loro contributo. 

Dopo un lauto pasto con le mani – spaghetti in un buon sugo di patate e carne, e uova fresche da bere – si riparte.

“Il sole ormai dovrebbe aver asciugato un po’ il fango – pensiamo – Per le sette saremo di ritorno”. Come si dice sempre da queste parti, è Allah che governa le sorti del mondo. E quando arriviamo alle sponde del primo fiume … è un torrente in 

piena! Non mancano neppure le cascate. Ci fermiamo pazientemente e aspettiamo che l’acqua si abbassi. 

Nel frattempo arriva anche un camion con un po’ di gente. Mal comune… Loro sono allegri, è chiaro che in un paese in cui i ponti sono un lusso, fermarsi ad aspettare non è una sorpresa. Dopo circa un’ora, il camion tenta il passaggio. 

Non manca il servizio fotografico a questa scena quasi comica, che dura un bel po’ con ripetuti scavi intorno alle gomme. 

Dopo di lui, passa anche la nostra 4x4, con una bella rincorsa.

Ma i fiumi da passare sono ancora tre, e a quello successivo… si piantano le tende! Non c’è proprio niente da fare, è 

quasi in piena. Ecco una bella notte sotto le stelle, decisamente non prevista, con le donne che preparano riso e latte di cammello sul fuoco. L’acqua per fortuna si abbassa, ma temiamo (o meglio, io temo, loro sono tranquilli) che durante la 

notte a monte possa piovere ancora, e che si possa rimanere bloccati qui senza acqua né viveri.

La mattina alle sei, l’acqua è scesa quasi completamente, e prima che rimonti, si riprende il percorso.

Ad ogni guado, si cerca bene il punto con il letto più duro, che non faccia sprofondare le gomme. Si esplorano varie 

centinaia di metri. Riusciamo a passare, incolumi, i tre fiumi, e l’autista per tutto il tragitto si guarda bene dall’uscire di 

pista anche se è allagata, onde evitare di saltare su una mina!

 

Facce

Anche qui vi è l’eco della diatriba ricorrente. I somali “non sono mica africani”. E’ il solito ritornello delle razze superiori e inferiori. Come dire che i bantu, loro sì sono africani, ma gli altri.. gli altri no, sono “diversi”.  Questa è la stirpe nilotica, 

scesa lungo l’Africa orientale, come i tutsi, come i masai, e molti altri gruppi etnici che in effetti hanno conservato linee 

comuni in tradizioni e tratti esteriori.

Anche i lineamenti si assomigliano. Il naso lungo e affusolato, i corpi alti e longilinei. E anche il portamento di questi pastori, che ovunque – qui come i masai del Kenya o i tutsi del Burundi  -  camminano eleganti, alti, con un bastone teso dietro 

il collo, le braccia appoggiate sopra, e un panno portato con nonchalance su una spalla. Li guardi, e vedi lo spazio, le grandi distese di savana, il vento e la libertà.

 

Contatti

Qui la vita trascorre in un notevole isolamento. A parte le missioni  di lavoro, tutto il resto della giornata lo si passa in casa. Siamo in una dozzina, quasi ogni giorno c’è qualche ospite, e le persone sono abbastanza carine. C’è un medico italiano sposato a una spagnola, e c’è un pescatore sardo, che segue un progetto di sviluppo e commercio della pesca. 

La cosa buffa è che a forza di sentirlo mi ritrovo a pensare in sardo. Oggi leggevo Garcìa Màrquez, e a un certo punto 

mi sono accorta che “lleggevvo in cagliarrittano!

 

 

18 marzo, giovedì.

Primo giorno di lavoro “sul campo”. Fantastico.

Sono  a Behin, villaggetto isolato in quella che sembra essere una landa deserta, in cui poco a poco scopri i sentieri di una splendida oasi, dove piccoli pesci sguazzano in un’acqua limpida, e i canali irrigano coltivazioni di banane, arance, manghi, ortaggi. Una vita sommersa, una sorpresa. Inebriante.

Sotto alberi secolari, le rovine della guerra lasciano immaginare la vita passata di un villaggio fiorente. Solo la moschea è 

stata ripristinata; le abitazioni, molto più misere, sono rifatte altrove.  E’ difficile, ogni volta, con fatica, nascere di nuovo.

Prima tappa di questo lavoro comunitario. Sono felici di vederci arrivare, a “piantare le tende”. A stare con loro. 

Il guardiano della scuola (che non funziona per mancanza di insegnanti) ci libera quello che è diventato il suo alloggio, ce lo puliscono, e io sistemo la mia casa portatile: stuoia, materasso in gommapiuma, lenzuolo, coperta, zanzariera, scorta 

d’acqua, secchio per lavarsi, qualche libro, qualche abito. Ecco: ho una casa nel deserto.

Il mio aiutante-traduttore, l’education officer di Berbera, ha meno cose di me, ma quelle per lui fondamentali: musica, scorta 

di sigarette, scorta di kat.  Ok: possiamo resistere alcuni giorni lontani dalla “metropoli”.

Primo incontro con i responsabili di villaggio, le donne, i bambini. Sono immensamente contenti, e mi ringraziano tanto, di essere qui, di fermarmi qui, a dormire nel loro villaggio. Mi dicono che è la prima volta che qualcuno parla con loro di educazione, della sua importanza, dei diritti dei bambini, e delle difficoltà dell’educazione, che non è solo costruire una 

scuola, ma trovare risposte adeguate a problemi complessi. In questo caso, un “problema” sono i bambini nomadi, che 

riescono a frequentare solo per pochi mesi all’anno. Sono i bambini che hanno perso completamente la scuola, che da anni 

non c’è, e adesso sono adolescenti senza nessuna formazione. E c’è il problema delle distanze, delle famiglie sparse qua 

e là. E il problema degli insegnanti, che non si trovano, perché nessuno vuole stare qui, e perché le paghe sono troppo 

basse.

Decidiamo di organizzare una festa, per inaugurare le attività, e per dare da subito alla scuola l’impronta di un luogo 

in cui sia bello stare. “A giovedì prossimo, inscià Allah”.

Alle porte del villaggio, una distesa infinita di resti di latte arrugginite.

Sono ciò che resta dell’immenso campo profughi che vi era qui negli anni settanta, che ospitava migliaia e migliaia di etiopi.

 

Venerdì 19.

Ci trasferiamo a Lasa Daw, dove una donna bellissima, Sahara, ci apre la sua casa e ci prepara il pasto. I suoi occhi 

curiosi mi guardano a lungo, mi interpellano, e vorrebbero chiedermi mille cose. La lingua, come al solido, ci impedisce una vicinanza che però sentiamo forte, vibrante. Che frustrazione!

Le donne del villaggio, organizzate in associazione, chiedono un incontro con me. La solidarietà “di genere” è immediata.

E’ molto bello essere qui. Questo villaggio è molto ricco, le coltivazioni seguono il fiume per chilometri, e scopri un pullulare 

di vita inaspettato. Mi portano in giro a vedere gli orti e i frutteti, a sera incontro gli anziani, di ritorno dai campi.  Il cielo è fitto di stelle. Ci sediamo sui tappeti della stanza del te, beviamo questa bevanda calda.

E’ bella gente, operosa, altera. Gli zigomi sporgenti, la pelle scura, gli occhi grigi, brillanti.

Questi villaggi sono abitati da una parte agricola e una parte nomade, ma l’origine è principalmente nomade. Fino agli ’70, 

più del 60% della popolazione somala era nomade, ora solo il 40 %. Perdendo il nomadismo, è una ricchezza culturale che l’umanità intera sta perdendo. Un’altra specie umana che poco a poco scompare.

 

“Al gradino più elevato della stratificazione sociale, si collocano proprio i pastori nomadi, che individuano nella proprietà del bestiame (cammelli e mucche) non soltanto la fonte di sussistenza ma anche la misura del loro prestigio sociale …

Ai gradini inferiori si collocano gli agricoltori e più in basso ancora le cosiddette basse caste dei fabbri ferrai, dei maghi e medici 

erboristi, dei cacciatori, degli artigiani …

La popolazione che vive di allevamento ha un forte, orgoglioso senso del valore individuale e un’alta considerazione della pastorizia 

come mestiere. …

La vita dei pastori nomadi richiede a chi la pratica una maggiore resistenza fisica rispetto ad altre attività tradizionali; richiede anche prontezza nell’impegnarsi in lotta a difesa degli animali contro uomini e bestie feroci. Al fine di resistere in una situazione che presenta  difficoltà e pericoli, è per loro necessario un forte impegno personale. Questo impegno è sviluppato nel processo di socializzazione e rafforzato da pratiche istituzionali, da rituali e credenze religiose. Senza tutto ciò, essi desisterebbero dalla pastorizia”.

(Elisabetta Forni, “Una nuova vita in Somalia”, Franco Angeli, 1984)

 

I bambini guardano curiosi questa donna strana che scende dalla macchina con i pantaloni, gli occhiali, i capelli al vento 

senza nessun velo in testa. Sahara continua a sorridermi. E’ stupenda, e le faccio varie foto. Anche sua madre, anziana, è molto bella e il suo sguardo vede lontano.

Le ferite della vita ci accompagnano ovunque andiamo, inevitabilmente. E dopo ogni ferita, non siamo più gli stessi di prima.

Ma è bello essere qui, comunque.

Forse, più le ferite si sommano, più il nomadismo e la solitudine ti fanno sembrare di sentirle di meno. Ti butti tutto dietro, e continui a camminare. Guardi l’orizzonte, guardi il cielo.

Fino a poco fa ero in Madagascar, nel profondo più nero che potessi immaginare. Adesso sono qui, in questi spazi infiniti, bianchi, densi di foschia calda. E domani?

Bah, ormai, non mi faccio più domande.

E’ molto buono l’aroma di questo tè.

 

 

*********

 

Nel deserto del tuo dolore, troverai un’oasi

Proverbio tuareg

 

Lunedì 22 marzo

Era da tanto tempo che volevo fare l’esperienza del deserto. Non mi sarei mai immaginata di farla qui.

Certo, non è il Sahara, non ci sono le meravigliose dune, e le tempeste di sabbia. Ma ci sono gli spazi, i cieli, e questi 

pastori transumanti, con i loro dromedari, che ti ricordano l’andare.

Passo lunghe ore per i fatti miei, a leggere, a sentire.

Ascolto un po’ di musica. Ho Mozart, ho Aretha Franklin comprata l’ultima volta a Parigi. Ho la musica malgascia, che mi ricorda i momenti più belli lasciati a Diego: le feste organizzate alla Candela. Quelle sì, mi mancano. Forse unico ricordo 

bello di un periodo così doloroso. Ma bello davvero, perché legato anche a belle persone, che rivedrò, inscià Allah.

L’esperienza del deserto, questa solitudine così prolungata. Questi lunghi silenzi.

Il deserto, è lo specchio della tua anima.  Perché nel deserto non puoi mentire. Sei solo tu. Tu con te stesso. Con i tuoi 

sogni, i tuoi fallimenti, i tuoi dolori, i tuoi ricordi. Ciò che hai vinto e ciò che hai perso. Ciò che avresti voluto e ciò che hai. 

Tu, e niente altro, oltre a questo cielo, questo spazio, questo vento e questa polvere. Nel deserto non ci sono maschere. 

Così, dicono i tuareg dei Kel Hoggar “Se vuoi nasconderti, vai nelle tue grandi città donde vieni. Qui, ciascuno è una visibile persona.

Il deserto dunque, ti insegna a stare con te stesso, così come sei. Ti insegna allora l’umiltà, e ti insegna ad essere forte, 

perché sei solo. E devi essere vero.

E questa solitudine ti dà la libertà più vera, che si ha solo quando si è soli; e ti insegna a guardare avanti, con tutta la consapevolezza del passato.

 
Aneddoti

* Il paesaggio si sta poco a poco colorando di verde. E’ la stagione delle piogge.

E’ buffo, come tutto possa avere lo stesso nome, e rappresentare differenze quasi diametrali.

In Madagascar, la “stagione delle piogge” corrispondeva a diluvi torrenziali, allagamenti delle città e delle risaie. Qui, una spruzzatina di 10 minuti di fa dire “siamo usciti dall’emergenza”.

 

* Paese che vai,  moda che trovi. In ogni posto più o meno devo rifarmi il guardaroba. Magari sono piccoli dettagli, ma quelli famosi che “fanno la differenza”.

I lunghi vestiti senza maniche fatti a Diego, qui sono praticamente scandalosi. Un uomo, appena arrivata a Boroma, si 

nascose perché ero nuda e non poteva guardarmi (salvo sbirciare da dietro il muro…). Ora mi sto facendo lunghi camicioni 

che coprono le spalle e le caviglie. Non sia mai, che qualcuno si ecciti troppo…

 

* Notte nei villaggi. La gente è abituata a dormire in tanti in uno stesso ambiente. Mi danno una stanza piuttosto grande, 

per una persona sola. L’education officer decide di sistemare il suo armamentario nella stessa. Vabbè…

Dio mio, per tutta la notte fa un casino infernale, russa che sembra un suino. E poi, cribbio, già tutto il giorno una deve stare coperta come una banana, almeno quando dorme vorrebbe mettersi in mutande!

Il giorno dopo gli annuncio che vorrei stare da sola la notte. Lo vedo perplesso. Spiego che amo la mia privacy. Sempre più perplesso. Mi guarda e mi dice “tu sei proprio diversa: hai l’aria molto religiosa” !!!

 

domenica 28 marzo

In spiaggia oggi, sono arrivate delle persone, a piedi dalla città, con una carriola. Si avvicinano, e sulla carriola intravedo qualcosa che sembra un cadavere.  Mi prende un colpo e continuo a guardare. “Vogliono buttarlo a mare?” viene da 

chiedermi.

Prendono su il cadavere: è una ragazza. Una ragazza handicappata, che non riesce per niente a camminare. La mettono 

in piedi, e le gambe non la reggono, la sdraiano sulla sabbia. E così, vestiti, le donne con i veli in testa, si buttano in 

acqua, la fanno giocare e ridono. Dopo la gita al mare, la rimetteranno sulla carriola, per tornare a casa.

Dalla Somalia, ciao a tutti. E buonissima Pasqua del Signore.

 

2 aprile 1999  - Berbera, venerdì (che qui è giorno di festa)

Carissimi, vedo che le mie lettere cominciano ad arrivarvi, e io ricevo i vostri fax (grazie! Che bello ricevere gli amici tra 

queste lande assolate!)

Qui tutto bene, il caldo si fa sentire sempre di più, e siamo solo all’inizio. Nel giro di un mese la temperatura salirà di 10 

gradi, e verso maggio lo standard sarà tra i 38 e i 43. Motivo per cui ci stiamo mobilitando per rendere funzionanti tutti i condizionatori, ma col gruppo elettrogeno c’è sempre qualcosa che salta.

Mi sono comprata una bicicletta giorni fa, ma devo dire che a queste temperature non è molto facile pedalare, e la sera è 

buio pesto. E’ molto bello però andare verso il centro. Non vi ho detto nulla di questa città, a parte l’impressione non 

splendida appena arrivata.

In realtà, ha il suo fascino. Il centro ha antichi edifici stile arabo, molti dei quali distrutti dalla guerra, ma che sarebbero 

molto belli. Quando mi ci sono trovata la prima volta, mi ha ricordato il centro di Mazara del Vallo, proprio per queste case basse, bianche, senza tetto. Ma qui le strade sono sabbiose, e i cammelli (anzi i dromedari, insomma, quelli con una sola gobba) ci girano in mezzo pacificamente, come da noi - che so? i gatti, e sono stupendi da vedere. Con quella loro andatura molleggiata e sorniona, che sembra proprio che anche se avessero i bombardamenti intorno non potrebbero crearsi alcun problema.

C’è un incrocio nel centro, con una piccola rotonda, e le strade che partono da questa rotonda, sono piene di banchetti che verso il tramonto si riempiono di venditori di kat che strillano le loro offerte. Sarebbe un concerto da registrare (il buffo è che quando passiamo cercano di venderlo anche a noi). Le foglie di kat qui sono vendute in sottili sacchetti di plastica, che 

poi – finite le foglie da masticare – vengono regolarmente gettati al vento. Il risultato è che quando ti avvicini a una città 

somala, te ne accorgi perché prima di arrivare sei accolto da alcuni chilometri di distese di sacchetti di plastica che 

coprono alberi, cespugli, capanne,… e nessuno sembra preoccupato. Anche in Madagascar vi era lo stesso triste 

spettacolo, ma qui molto di più proprio per questo maggiore uso di sacchetti.

A sera, queste strade diventano molto caratteristiche, perché i banchetti accendono le loro lampade a paraffina, creando un’atmosfera quasi romantica. Mi piace camminarvi in mezzo. Mi ricorda un po’ certi paesini di mare, da noi, l’estate, 

quando a sera ci sono i venditori girovaghi sui tappeti e tavolini.

Le stradine a fianco poi, sono quasi delle intere sale per il te. Da ogni lato vi sono botteghe con delle poltrone di legno, in 

cui la gente (o meglio: gli uomini) si siede a parlare, e subito le donne dai lunghi veli servono la bevanda calda, con il latte di cammella. E’ molto buona. Certo, le condizioni igieniche, senza acqua corrente… Meglio non pensare troppo ai dettagli.

All’ora della preghiera, è ovunque un’eco di muezzin. Anche qui, mi piacerebbe camminare con un microfono in mano. 

Non fai dieci metri senza sentirne uno. Passi il suono di una moschea, comincia la successiva. 

Ti siedi a prendere un te, su queste “poltrone”, con quest’aria calda… e intanto i cammelli continuano il loro passeggio.

In queste settimane, fuori città, ho visto diversi animali. Soprattutto scimmie, facoceri, tartarughe piccole ed enormi, 

gazzelle, scoiattoli, volpi, iene. Però, se si pensa che solo fino agli anni ’50 anche la Somalia era piena dei grandi 

mammiferi africani… e ora non ce ne sono più.

Una cosa bella delle nostre giornate qui a Berbera è il mare. A Diego, pur essendo su una baia stupenda, non lo vedevo mai perché la spiaggia più vicina era a 40 minuti di strada. Qui invece si può andare al mare in ogni ritaglio di tempo, e spesso capita di vedere i delfini. Praticamente ogni giorno a tavola abbiamo pesce pescato da qualcuno del gruppo, soprattutto carangidi e barracuda. E poi, tantissimi crostacei, e polpi. (Però, per quanto lo ami,… tutto questo pesce comincia un po’ 

ad uscirmi dalle orecchie!).  Ci sono colori molto belli, come ricordo in Egitto, un paesaggio chiaro e il cielo sempre azzurro intenso, e il mare anche, e l’acqua è calda, e i bagni fantastici.

Ok, mi direte, e il lavoro?  Si lavora, si lavora! Ma certo, non con i ritmi europei. Anche perché vi assicuro che le temperature del pomeriggio mettono K.O.

Ora devo prendere atto che comunque i tempi per far partire il lavoro saranno piuttosto lenti, e i momenti vuoti notevoli, 

all’inizio. Per ogni cosa, per ogni preventivo di spesa, ti occorro giorni. E poi, questo paese è molto difficile, qualunque 

minima procedura deve essere messa per iscritto e firmata e controfirmata… E poi, non conoscevo le procedure dei finanziamenti dell’U.E., che prevedono le norme europee per la stipulazione di contratti, appalti, ecc… 

Ero abituata ad avere un budget da gestire abbastanza liberamente, invece qui per ogni spesa di un certo importo bisogna 

prima chiedere l’accordo scritto a Nairobi… e aspettare la risposta. Ad ogni modo, almeno qualche decina di banchi 

l’abbiamo ordinata. Come al solito in Africa, anche qui ci sono quei banchi massicci e poco duttili che da noi andavano forse negli anni ’50. Mi chiedo mille volte perché tutte le organizzazioni internazionali che finanziano banchi in questi paesi, continuano a farli così !?!  Sono banchi che sembrano fatti apposta per perpetuare uno stile di insegnamento da caserma. 

Non rendono possibile l’attività collettiva, dinamica, il lavoro di gruppo. Sono fatti per essere messi in fila e non muoversi! 

…io li faccio diversi! Altrimenti poi come faccio a fare una formazione sulle metodologie attive, se i banchi sono piantati al pavimento?!

Bene, ora vengo alle domande di Giuseppe, interessanti, legittime. “Che ci fa una pedagogista occidentale, sebbene africanizzata, di origine stanziale, in mezzo ai nomadi? Cosa può dare loro che essi già non hanno? “ Il punto è proprio qui:

per quanto riguarda l’educazione, non hanno proprio nulla. Non parliamo – ovviamente – dell’educazione tradizionale. 

In tutta la Somalia sono diffuse le scuole coraniche, che insegnano il libro sacro e l’arabo. 

Quasi tutti i bambini le frequentano, poche ore a settimana, e non fanno altre materie: il somalo scritto, la matematica ecc… Per i bambini nomadi poi il problema è enorme. Se i bambini dei villaggi possono andare alla scuola pubblica tutto l’anno (in teoria, dato che le scuole sono da riavviare), i bambini nomadi ci vanno solo per pochissimi mesi, dopodiché migrano.

Ora, quando parliamo di “portare l’educazione in Africa”, non possiamo più parlare di “lasciare ai bambini la loro cultura”. 

Questo è un eufemismo, ed è un errore politico enorme. Le culture tradizionali ormai, in Africa, non esistono più

Potevano esistere finché erano nella loro totalità, con il loro ordinamento politico di regni e re, e capivillaggio, per cui una 

certa formazione dei bambini aveva una logica per la loro vita adulta. Ora tutto questo non c’è più, ormai da molto tempo. 

Non ci sono più – mi dispiace dirlo – culture da difendere. Semmai, da ri-esplorare. Oggi un bambino che cresce in una 

cultura minoritaria e che non ha gli strumenti per prenderne coscienza, può avere solo un futuro di soprusi. 

Lasciare i popoli nell’ignoranza è il sistema migliore, infatti, per dominarli. L’unico modo per difendere ciò che resta oggi

di una cultura, è far sì che i bambini siano resi coscienti e fieri della loro peculiarità culturale. Questo non si ottiene 

“lasciandoli come sono”.  Al contrario, dando loro gli stessi strumenti d’analisi di cui ogni bambino ha diritto.

Ed è proprio sulla questione dei diritti dei bambini che mi prende veramente una grande rabbia, quando vedo il sistema scolastico come è ancora in quasi tutta l’Africa. Perché i loro diritti all’educazione non sono minimamente rispettati. E non, ovviamente, “per rispettare le culture d’origine”. Un bambino di Dakar, o di Bujumbura, o di Nairobi, oggi, non ha una “appartenenza culturale” diversa da un bambino di Praga, di Chicago, di Tokyo. Eppure, non ne ha neppure le stesse potenzialità. Non ha quasi i quaderni, non ha i libri pieni di immagini e stimoli didattici, non ha i colori ecc… 

Non la televisione, non ha internet, non ha le biblioteche, non ha i giornali, non ha neppure le carte geografiche e le fotografie

per capire sistemi naturali diversi dal suo. Questo non è “rispettare le culture”. Questo è: “i bambini del mondo non hanno uguale accesso alle risorse culturali”.

Il ché significa che se un bambino di Catania può almeno fantasticare di diventare astronauta, un bambino di un villaggio contadino somalo (o sudanese o quel che si vuole), non può neanche immaginarsi un accidenti di rubinetto che gli faccia 

andare l’acqua dove vuole! E non mi si venga a dire che lui sta bene così e che il rubinetto non lo vuole!

Ogni bambino, avrebbe almeno il diritto a quel quid di formazione sufficiente a fargli prendere autocoscienza, per poter 

decidere davvero del suo avvenire. Poiché questo non avviene, tutti prima o poi sono attratti dalle comodità urbane, e ci ritroviamo con le grandi invivibili metropoli che conosciamo.

Non ho più posto. Voglio solo ricordare quei disperati del Kossovo. Qui la guerra è finita da tre anni, e ancora il paese è da ricostruire, e generazioni intere sono rimaste nella miseria. Bisognerebbe ricordarsi quanta fatica si fa a rinascere, prima di distruggere!

 

Berbera, 7.4.99  Giovedì

 

Altri aneddoti

* Ci  incontriamo in spiaggia quasi tutti i giorni, il Sindaco ed io. Mi stima molto, e me lo esprime. Gli piace come lavoro.

E’ buffo ritrovarsi in acqua, in questi azzurri meravigliosi, con queste spiagge lunghissime e deserte, e parlare del prossimo corso insegnanti, di metodologie pedagogiche, degli incontri nei villaggi, delle tasse del Somaliland, … è un buon posto 

per fare “meeting”. Si parla anche d’altro, naturalmente. Un po’ alla volta ci raccontiamo la vita. E’ un uomo intelligente, 

acuto, che capisce al volo molti non detti. E’ un bravo sindaco, con anni alle spalle vissuti in California. Dunque conosce

bene la cultura e il pensiero occidentali, ed è piacevole una persona del genere per confrontare le nostre differenze. La sua profonda fede religiosa rispetto al mio fragile agnosticismo, la sua visione poligamica della realtà, le nostre idee di relazioni, 

di politica, di infanzia, di diritti… Per la verità, fino ad ora, non ci sono poi differenze diametrali.

Non vi preoccupate, non mi ha sedotta, anche se –dice- sta cercando la seconda moglie. Ha capito che con me in questo periodo, è meglio lasciar perdere…!

 

* Mi sono trasferita in una casetta con due sole stanze e un salottino all’aperto, che condivido con il medico italiano, Paolo, 

e la fidanzata spagnola, Jolanda, farmacista, che è proprio una bella tipa (è quella che setaccia al microscopio le cacche 

di noi tutti quando abbiamo la diarrea…!). La casa è in stile mediterraneo, bianca con gli infissi azzurr. Con lei si è

instaurato un bel rapporto “di genere”, per la felicità di Paolo che ci considera “due bei caratterini” (maschilista!).

 

* Un aspetto piacevole di questi periodi di lavoro e isolamento, è che si ha tanto tempo per leggere. E passo le serate 

con gli autori che mi piacciono. Questa volta ho portato Pavese, Marquèz, Amado, de Beauvoir, Hemingway, Lapierre… 

e sto preparando la lista per i libri da farmi spedire. Ma nessuno vuole venire a trovarmi? Ho capito, non sono le Seichelles,

però vi assicuro che non è poi così male!

 

* Ho assistito ad alcune lezioni alle elementari, per vedere le necessità formative dei docenti. E come al solito, mi viene da mettermi le mani nei capelli perché non si sa da che parte cominciare! Dovunque vado, in Africa, ritrovo questo 

apprendimento mnemonico, con la bacchetta di legno, che non so quando fosse in voga da noi. Ogni materia viene 

insegnata con frasette scritte alla lavagna che i ragazzini ripetono all’infinito. E’ una noia mortale, naturalmente, e ci si 

mette mesi ad imparare ciò che con metodi attivi si farebbe in poche settimane, e con migliori risultati.  

Un esempio: lezione di inglese. Sorvoliamo sulla pronuncia, che già di per sé è terrificante. La lezione verte sulle ore e 

il tempo. I bambini ripetono in coro, con foga: “it’s five o’clock; it is twenty past two; it is too late; …”  Ok: ripetono alla perfezione! A nessuno viene in mente che forse di quello che stanno dicendo non hanno capito niente. Chiedo ai ragazzini 

di tradurmi qualche frase, cioè di dirne il significato in somalo. …sob. Imbarazzo totale. Vado sul pratico: mostro a un 

bambino il mio orologio e gli chiedo che ora è. Nero più nero. Mi rendo conto che i problemi sono due. Non è solo che non sanno dirlo in inglese perché non sanno la lingua… è proprio che non conoscono l’orologio perché … non ce l’hanno! Mi piacerebbe proprio sapere allora come cavolo fa un bambino a capire cosa vuol dire “ten past eleven” o “twenty to eight” 

se non sa cosa vuol dire neppure nella propria lingua, se non sa come è fatto un quadrante, e cosa significano i numeri e 

le lancette?!?! Lo ammetto: non riesco ad essere molto paziente quando vedo cose del genere, e che un insegnante non si prende neanche la briga di capire se quello che sta facendo serve a qualcosa o no.

Purtroppo, “l’educazione” in Africa è ancora per la maggior parte così. La cosa più triste e su cui è più difficile lavorare,

ma che è anche la più importante, è che questo tipo di scuola non insegna a pensare. Non stimola il ragionamento 

autonomo, la curiosità, la ricerca. Si accontenta della ripetitività.

E questo genera adulti che sanno appena leggere e scrivere, e ripetono, ma che non sanno porsi domande, vedere variabili 

e alternative, cause ed effetti, non sanno quindi leggere un giornale e interpretare un messaggio, non conoscono i loro 

diritti  e non sono in grado di partecipare attivamente. Insomma: è una scuola che non crea i presupposti per costituire 

dei paesi democratici.

 

* Felicità è… stare davanti a questo mare fino al tramonto, vedere la pelle che ti cambia colore, leggere questo testo di pedagogia in Africa comprato a Nairobi, accorgerti che riesci anche a studiare in inglese, riappropriarsi (almeno per una 

nuova temporaneità) della professionalità perduta, seguire questo moto perpetuo che ti ricorda che tutto continua, 

nonostante tutto…………Inscià Allah.

 

* Voglio salutare Franco, una delle persone più care che il Madagascar mi ha fatto incontrare, con la sua famiglia, 

una delle più belle famiglie che conosca. Com’è andato il tuo concorso? [2]

 

 

Berbera – Somaliland.  9 aprile ‘99

 

“…diglielo un po’ alle tue ONG, là in Europa!”

 

Incontro con Rashid, dagli States.

 

La spiaggia di Berbera, è sempre deserta. Così è un classico che quando due persone s’incrociano, non possono – 

come dire – passare inosservate. Rashid ha voglia di attaccare discorso.

E’ un ragazzo giovane, con la pelle chiara, forse meticcio, mi stupisco quando mi dice che è somalo, sembrava orientale. 

E’ parecchio “ciccio” per la sua età, cosa che qui non ho mai visto. Poi mi spiego il perché: la tipica obesità americana, da patatine e ketchup!

Vive nel Meryland, ed è la prima volta che torna in Somaliland dopo 14 anni. “E’ bello, mi piace qui. Da noi non c’è mica 

tutto questo!”  dice guardando le lunghe spiagge e il mare.

Cosa fai nel Meryland, gli chiedo. “Sono biologo analista”.

“Ah, che bello, ma perché non viene a farlo qui? Ci sarebbe un sacco di lavoro qui per te, sai”

“Tu credi? Ma, non so”

“Sì, te lo assicuro. Figurati che io qui ho una collega spagnola che fa il tuo lavoro nell’ospedale di Berbera”.

“Davvero?”  “Sì!”

“Eh, mi piacerebbe tornare. Questo è il mio paese. E’ un paese ricco, pieno di risorse. Io sono nato e cresciuto qui. E non avremmo mica bisogno di voi dall’Europa per fare le cose, le potremmo benissimo fare noi! Ma lo vedi in che situazione è?”

“Sì, certo, lo so! Ma proprio per questo le persone come te dovrebbero tornare, e mettere le loro competenze a 

disposizione del paese. Gli Stati Uniti non hanno bisogno di te, là c’è una sacco di gente che può fare il tuo lavoro. 

Se tutti quelli come te, che hanno studiato all’estero, poi restano fuori, avrete sempre bisogno degli stranieri!”.

“Sì è vero, ma il problema è la stabilità del paese. Tantissimi somali che sono in Europa, o negli States, sarebbero felici di tornare qui, se le condizioni fossero diverse. Ma vedi? Non hanno neanche riconosciuto il nostro Governo! Il Somaliland è in pace da anni, mentre a Mogadiscio ancora s’ammazzano e lottano per gerarchie ridicole. Noi qui facciamo andare avanti le cose, e i paesi stranieri non ci riconoscono come Stato! Io…non posso avere il passaporto del mio paese perché…

”non esiste”. Così uso quello americano, non quello somalo. Come si fa a venire qui, a investire soldi in una situazione del genere?! Domani potrebbe succedere un casino, il Somaliland potrebbe non esistere più!”

“Lo so, hai ragione. Però dovresti lo stesso. Per principio. Perché altrimenti non se ne esce. Gli africani intellettuali e 

altamente specializzati che sono in giro per il mondo, dovrebbero tornare a casa loro, e lavorare per il proprio paese”.

“Mi piacerebbe. Mi piacerebbe moltissimo, e credimi, lo vorrebbero migliaia di somali. Ma bisogna che ci sia stabilità, che 

il nostro Governo sia riconosciuto. Nessuno dei Paesi intorno lo riconosce, neppure Gibuti! Ti rendi conto? No, non si può, 

è troppo rischioso investire qui”

“Ma tu, per fare il tuo lavoro, non dovresti investire granché, potresti lavorare in strutture pubbliche”

“Già, a quanto? Dovrei rinunciare al mio stipendio americano. Per cosa? Questo non lo chiami investimento?”

Non fa una piega, non c’è nulla da dire. Ha ragione lui. Per noi, come al solito, è facile parlare.

“Beh, vado. Mi ha fatto piacere parlare con te. Comunque, voi delle Ong, ditelo ai vostri governi, là in Europa. Se vogliono davvero aiutarci, è meglio che comincino a riconoscere il nostro!”

Bye…See you!

 

  

14.4.99

 Sono appena tornata da 3 giorni a Bosaso – in Somalia - e ho un sacco di cose da raccontarvi.  Lo farò con calma nella prossima.

 

* Fiorella, ho avuto la lettera. E’ stata una splendida idea mettere i disegni di Martina, ho attaccato il foglio nella bacheca in camera! 

Non credo che sia mediocre la vita “monotona” che si fa stando a casa. O almeno non sempre, non necessariamente. Se vedessi la fauna che c’è nella cooperazione, vedresti quanta mediocrità c’è anche  in questi ambienti. Certo, c’è anche bella gente, e si vivono esperienze diverse e intense, che arricchiscono. E’ splendido poter viaggiare e conoscere paesi, genti, paesaggi. Lo pensavo proprio in questi giorni, a Bosaso. Già era un paesaggio così diverso, e splendido. Di viaggiare e conoscere, non ci si stancherebbe mai! Comunque, anche per questo mi piace scrivere/scrivervi. Tante persone mi hanno 

detto in questi anni che le mie lettere rompevano la loro monotonia e davano da pensare. Mi piace comunicare, ma mi piace anche pensare di poter dare qualche sensazione africana a chi in Africa mai c’è venuto e probabilmente mai ci verrà. Se poi riesco anche ad abbattere qualche pregiudizio in qualcuno…Eureka!

 

* Ho ricevuto anche le lettere di mia madre e la buffa cartolina con due bimbi in una bella zucca gialla. Appesa anche quella: questa bacheca ha bisogno di colori!

 

E’ mezzogiorno, fa un caldo assurdo, siamo tutti appicicaticci e schifosi, e ho la pressione sotto le scarpe. Vado a mangiare. Ciao!

 

*************

 

“International break”  Berbera, 19.4.99

 

Sono stata “all’estero”. Bosaso, è in Somalia, nello stato del Puntland. Per andarci, si deve fare il visto.

 

10 aprile, h. 7,30. Aeroporto di Berbera. Il più lungo d’Africa (..lo avreste mai detto?!): 4 km. di pista! Era una base Nato. 

Zimex, che mi accompagna, si emoziona. “Era bello qui?”  “Se era bello?! Guarda! Era bellissimo qui! Era sempre pieno di gente. Io lavoravo qui sai! Vedi lì? Lì c’era la piscina, con l’acqua dolce. E vedi quei tubi? Lì c’erano grandi macchine, per la lavanderia. Eh…la guerra…”

 

Beechcraft, 10 posti. Sono l’unica passeggera!  Mi godo questa quasi-fuga saltando da un posto all’altro per vedere il

paesaggio da ogni lato.

Scendiamo verso il Corno d’Africa. L’Oceano dagli oblò di sinistra. Il deserto, a destra, si fa sempre più deserto. 

Che meraviglia andare… Non penso più. Non ricordo più. Vedo. Odoro. Assorbo.

Queste montagne erose dal vento, sassose, senza vita (apparente) si buttano in una spiaggia senza fine.

 

Il Somaliland è alle spalle. Lasciamo l’ex colonia britannica, che nel ’91 ha coraggiosamente decretato la sua indipendenza 

da Mogadiscio e il suo governo autonomo. Il Puntland è autonomo, ma persegue ancora l’idea della Somalia unita, federale, 

con Mogadiscio capitale.

[Certo Somalia suona un po’ più mitico che Somali-land, Punt-land. Insomma, mi sembrano balocchi. Non posso non 

pensare a Garda-land, Disney-land…non sono nomi seri! ]

Ma Puntland è Terra dei profumi. Uno dei maggiori produttori d’incenso del mondo. Del resto, camminando in queste terre, anche qui a Berbera, si viene spesso inebriati da queste nuvole di aromi, seducenti, mentre cammini tra i cammelli e le voci

dei muezzin, e ti rammenti i racconti delle Mille e una notte. Anche questo, è un ricordo che non mi lascerà mai più.

 

Sono spesso piccole immagini, di sapori e odori, quelle che ci rimangono dentro per sempre, “come se fosse ieri”. 

Come l’odore dell’aria di Diego, il pomeriggio al tramonto, quando le donne tirano fuori i loro banchetti. Allora si possono fare spuntini sulle panche di legno, vicino al fornelletto, che ti arrostisce le brochettes di zebù, la manioca, e condisci il tutto con la tipica achard, la salsa fatta con il mango, e poi seguono per dessert frittelle dolci, o banana fritta.

 

Scusate, eravamo nel Puntland. Ma i ricordi saltano più veloci del Pentium 2, e fanno sentire una vita splendida, un mondo pieno di sorprese.

 

Vedo tutto più da lontano, qui a Bosaso. I problemi, le ferite, prendono forme più piccole. Avevo bisogno di questo stacco. 

Mi accoglie per tre giorni un gruppo anglofono, felice di avere tra sé un esponente del gentil sesso.  Sono tutti molto carini. Avevo anche bisogno di lasciare un po’ il gruppo italiano nel suo delirio.  Non ne posso più di quella “tipica comicità italiana”, per cui non si fa altro …che dire stronzate! Ovunque vado, vedo quasi solo gli italiani così. 

Gente di altri paesi, quando è a tavola o chiacchiera la sera intorno a un bicchiere di whisky , non deve necessariamente – 

per ridere e rendersi simpatica – enunciare volgarità. L’italiano medio, per ridere, deve inevitabilmente tirare in ballo i genitali. NON NE POSSO PIU’!

Qui, guarda caso, siamo riusciti anche a parlare di lavoro – pur senza essere pesanti – di Somalia, di politica e questioni sociali,  ecc.. e anche a scherzare, in particolare con Paul e N., i più giovani. Paul è un inglese cresciuto in Africa che ora lavora per l’Unione Europea e ama molto quello che fa. N. è un biologo marino olandese che si occupa qui di un progetto

pesca e ha una conoscenza incredibile di qualunque tipo di pesce.

Visito alcune scuole e parlo a lungo con D., che è il mio omologo del progetto education identico al mio. E’ un kenyano avventista, molto gentile, con molti anni di insegnamento alle spalle, e ha fatto un dottorato negli States. 

E’ sempre molto bello scambiarsi idee su un lavoro che appassiona. Il coordinatore locale  è un veterinario kenyano indiano. Quando gli dico che prima ero in Madagascar mi fa un po’ di domande, e così scopriamo che la sua famiglia appartiene 

alla stessa confraternita mussulmana che domina Diego. Allora mi mostra alcune foto della famiglia. Hanno proprio gli 

stessi abiti, la stessa fisionomia, lo stesso modo di truccarsi. L’abito delle donne con il completo ricamato, la gonna lunga 

e la mantellina fino alla vita, con la cuffietta. Lui ha il loro tipico modo di parlare, dolce, pacato, riservato e determinato al contempo, quasi severo.

C’è anche un italiano a dire il vero, e chiacchieriamo parecchio anche perché scopro in lui un collega scribacchino (…direi 

che come quantità è molto peggio di me!). E’ ingegnere civile e anche lui è impegnato nell’education, per la ristrutturazione 

delle scuole. Vive in Africa da quando in Italia, con tangentopoli, è rimasto senza lavoro. La moglie insegna alla scuola 

italiana, hanno due ragazzini.

 

Bosaso è molto grande e ha l’aria ricca. Non ha un bel centro storico come Berbera, ma è piena di case moderne – sempre 

in stile arabo - e moltissime in costruzione. Ci sono cantieri ad ogni metro.

E’ una città di rifugiati, che emigrano dal sud dove c’è ancora guerra. Proprio nelle ultime settimane il governo ha deciso di 

fare pulizia, non ho capito dove abbia sbattuto i baraccati che prima occupavano le strade.

Il mare è bellissimo. La spiaggia proprio nel centro, di fianco al molo del porto. Qui, contrariamente a Berbera dove ci sono perlopiù grandi navi cargo, vedo tante navi di legno – le daw – (non so bene come si scrive!) che vengono dall’India e dal Pakistan. Sono stupende e D. mi fa scendere dalla macchina a fare foto.

 

Il Puntland non è tranquillo come il Somaliland. Gli stranieri non girano granché a piedi, sia per questioni di sicurezza sia 

perché in città c’è un maggiore integralismo, per cui mi dicono che sarebbe meglio tenere il velo in testa onde evitare 

qualche pietra. Io ho un caldo assurdo e non me lo metto, e non mi arriva nessuna pietrata! Secondo me c’è sempre tanto 

alone terroristico in queste dicerìe, come quando dovevo andare a Salvador Bahìa e me la decantavano “la città più violenta 

del mondo, ..guai a salire in autobus”… Bah. Continuo a ripetere che l’unico atto di violenza che ho mai subito è stato un tentativo di scippo della mia macchina fotografica…nel centro di Palermo!

 

Comunque, a Bosaso è d’obbligo la scorta armata. Il porto è chiuso da un cancello e il nostro kalashnikof rimane al 

guardiano. Mentre scendo a fare foto, nello sconcerto generale dei marinai pakistani che non sono certo avvezzi a vedere “turiste” in questa zona di mondo, la mia body guard (un maschione alto, con sguardo severissimo) non mi abbandona un attimo. Credo che sarà la sola volta nella vita in cui ho provato l’ebbrezza della diva hollywoodiana!

 

Queste navi di legno hanno decorazioni bellissime, dai colori vivaci, e scatto quasi mezzo rullino. Seif ha l’ufficio qui al porto perché come veterinario si occupa del bestiame che viene importato con queste navi. Il giorno dopo, mi organizza una visita all’interno.

 

Quanti mondi ci sono che non conosciamo!

Sono belle queste facce pakistane, sporche, che mi sembrano tradire una grande stanchezza. Mestiere faticoso, avanti e indietro per l’oceano, a trasportare bestiame tra l’Arabia e l’Ogaden, senza famiglia, senza donne, a dormire sul legno, con 

un cesso all’aperto che ti tuffa i bisogni direttamente in mare. Ci guardano, mi guardano. Tutti gli uomini dalle navi 

ormeggiate ai lati vengono qui a vedere questa strana bianca che guarda affascinata il loro attrezzo da lavoro. Ridono, timidamente. Sono contenti di essere fotografati. “Quanto ci si mette per arrivare nello Yemen?” “Circa 4 giorni” “Ma se io 

volessi fare un giro, mi prendete con voi?” Ridono “Sì, certo!”. “Va bene! Allora la prossima volta salpiamo, tenetevi pronti!”

 

Il lunedì dovevamo visitare un villaggio, ma ci sono dei problemi con la comunità, e il sindaco in persona viene a dirci di 

starcene a casa. Peccato. Per me, è una giornata un po’ persa. Continua la mia chiacchierata con D., da cui esco piena di nuovi stimoli, e leggo. Nel pomeriggio, Paul ci suggerisce un giro a un fiume dove si fa il bagno, a circa trenta km. Andiamo 

in tre.

Appena si esce dalla città, è subito deserto. E’ deserto vero, molto diverso dalla regione dove vivo io. Non c’è davvero niente, solo montagne, rocce, sassi, ma mi affascina ancora di più. La strada è la stessa per la capitale – Garoe –asfaltata dagli italiani, che prosegue fino al sud della Somalia. Tra qui e Garoe, sono 600 km. di deserto. Come mi piacerebbe farli tutti !

 

All’uscita della città, come sempre, un posto di blocco. N. approfitta dei pochi secondi di sosta per fare una foto al villaggio, senza chiederlo, e qualcuno strilla arrabbiato.

Arriviamo al fiume, che fa davvero un bell’effetto in questa landa deserta. Un serpente verde, con alberi antichi, che danza elegante in un orizzonte giallo ocra.

N. ci porta in un punto molto bello, dove non c’è nessuno, in cui di nuovo il mio obiettivo trova da sbizzarrirsi. L’acqua è cristallina, invita a tuffarsi, in mezzo a rocce incredibili che ricordano le architetture di Gaudì, con quelle curve acciottolate da schegge di ceramiche.

 

Al tramonto facciamo ritorno, e quando arriviamo al solito posto di blocco…sorpresa: i locali sono incazzati per la fotografia scattata da N. e non vogliono aprirci la stanga!!! Mi vedo già sotto sequestro in terra somala e ipotizzo giornali e trattative internazionali, mentre di certo a fare la prigioniera non mi diverto! Cazzo N.: regola numero uno quando si va in giro per il

mondo: MAI FARE FOTO SENZA CHIEDERE!!!  Figuriamoci poi con tipi come questi, armati fino ai denti. Hai paura che 

non vogliano essere fotografati? Beh, se non vogliono giri il tuo stronzo obiettivo da un’altra parte!!!

Finalmente ci aprono, ma me la sono vista poco bella.  La mattina dopo, tutta Bosaso chiedeva “Ma cosa è successo al 

posto di blocco?”

 

13 aprile: riprendo il volo per tornare a Berbera. Mi ha fatto bene venire qui, e mi sono sentita tra amici. Sotto di noi, vicino 

alla costa, l’acqua trasparente e la barriera corallina, per chilometri.

 

Mentre scrivo è ancora il 19 aprile.

Da qualche giorno ricomincio a svegliarmi positiva. Era da un anno che non mi capitava. I problemi, il grigiore, la sensazione

di oppressione, erano cominciati a maggio scorso, quando ad e. e a me, nel giro di una settimana, grazie alla burocrazia malgascia, crollò tutto il meraviglioso sogno che ci eravamo costruiti per l’Isalo, il parco del sud Madagascar dove avrei felicemente trascorso il resto dei miei anni. Cominciò un periodo difficilissimo per entrambi, di vuoto totale, di non sapere più cosa fare e dove. E più o meno, sapete poi com’è finita. Per lui è stato insopportabile, e ha buttato tutto all’aria. Io, ho 

incassato il colpo.

 

(Digressione sul tema)

 

Se guardo ora a tutto ciò che è avvenuto in questo anno, mi viene in mente …la galleria di Roncobilaccio. Quella sensazione che molti bolognesi conoscono bene.

In certe giornate di pieno inverno, prendi l’autostrada a Sasso Marconi, direzione Firenze, in una nebbia che più nebbia 

non si può. Fai una quarantina di km. in questo grigiore spesso che non ti consente neppure di immaginare che intorno a

te la vita continua. Al massimo intravedi qualche tir  bastardo che con manovre da rapina ti sorpassa e tu rischi di sbandare. E poi i ponti, e le gallerie una dietro l’altra, e nebbia, e ancora nebbia senza fine. L’autostrada s’inerpica attraverso l’appennino boscoso (che sai, ma non vedi), fino a lei, eccola lì: la galleria più lunga. Quella tristemente famosa per la bomba al treno. Quella che ti fa sentire nel ventre della terra (che ha i suoi risvolti positivi, ti senti un feto e pensi che quasi quasi si sta 

meglio lì che fuori). Quasi dieci minuti di tunnel (dipende dal mezzo, ovviamente). Dieci minuti di tunnel possono essere un’eternità. Buio. Buio pesto. E macchine che sfrecciano. E altri tir bastardi. E tu che ti senti in un incubo e non ne puoi più. Ma quando cazzo finisce questa galleria ?!?!

Eccolo. Il puntino luminoso si avvicina. E’ così piccolo che sembra un fuoco fatuo. E’ in movimento. Dov’è? Fermati 

accidenti! 

S’ingrandisce. Ora lo vedi. E’ lui. E’ la fine. E’ la luce che ritorna. E’ il parto. E’ il feto che deve uscire e ritrovare la forza di vedere quello che ha intorno. E’ la rinascita. E’ passata la cortina. Come una ghigliottina che si alza. Un sipario ti apre a un altro mondo. La nebbia, quella nebbia schifosa è rimasta dietro, se la mangia la Padana. Sbatte contro le montagne, e resta

lì. La Toscana ti offre il sole. E dove accidenti era fino a poco minuti fa? Era lì, aspettava. Sai, anche le cose che non puoi vedere, continuano ad esistere… Adesso vedi solo la luce, il bosco, il verde, i prati, la vita! Cristo! Fine del trauma. Il buio è rimasto dietro. Tra poco sei a Firenze. Bella, calda, solare. Ci sarà da tornare indietro? Aspettiamo primavera! Adesso c’è l’Arno, il giardino dei Boboli, i fiori, le cupole, l’Annunziata, la torre della Signoria…

… c’è questo deserto, questo mare con i delfini, questi villaggi, questa bambina piccola che appena mi vede da lontano si 

mette a urlare terrorizzata, e non si riesce a calmarla per mezz’ora, ci sono questi contadini stanchi, c’è Sàhara con i suoi sorrisi, c’è quest’autista che mentre mi aspetta in macchina si studia l’inglese e poi tutto contento mi scandisce  “Halloo 

Silvia, how are you?”

 

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Roncobilaccio è lontana. “I’m fine, Ismàil !”

Don’t worry .

Succedono cose strane. Un anno fa io e quest’uomo eravamo al capezzale di sua madre, che morì in questi giorni, dopo 

mesi di agonia. Feci una corsa in macchina – guarda caso nella nebbia – da Bologna alla provincia di Varese, per 

partecipare ai funerali. Un anno fa.

E’ da un mese che siamo qui, sotto lo stesso tetto. E io non gli dico neppure buongiorno. Non m’interessa la formalità.  

E provo uno schifo senza fine. Se me lo avessero solo lontanamente ipotizzato, non avrei potuto crederci. La vita è davvero strana. E quanti mondi ci sono ancora, che non possiamo neppure immaginare.

 

Saluti a voi, alla primavera che arriva, agli amici ovunque e sempre, a Cristiana che chiede umilmente perdono perché si è dimenticata il pacchetto dall’Italia, a mia madre che compie gli anni, a mia nipote in crisi esistenziale, a tutti gli irrequieti, 

alle donne bistrattate, a questa bambina che prima o poi spero  io smetta di terrorizzare (forse quando sarò un po’ più abbronzata)…

 

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4 maggio 1999. Berbera, come al solito (ma in partenza). Mercoledì.

 

Ore 21.00. Biscotti al cocco importati dall’Arabia. Traduzione ingredienti in arabo, inglese, russo, cinese, tedesco, francese, spagnolo. Buoni. Musica nelle orecchie, al massimo.

Quali sono le molecole del nostro cervello che gestiscono i ricordi, i sentimenti, le emozioni?  Quali sono le connessioni con il gusto, l’olfatto, l’udito?

Mi piacerebbe guardarle al microscopio. Chissà, magari ci rivedrei la mia vita come in un film, come in una sfera di cristallo. Potrei rivedere le persone amiche, toccarle, dire loro le cose non dette, le domande mai rivolte, i sorrisi mai abbastanza…

Quando vivi migrando di luogo in luogo, le associazioni diventano sempre di più. Si incastrano come le scatole cinesi, inaspettatamente. Ritrovi emozioni, vissuti, infinitamente lontani nel tempo e nello spazio, e ancora ti chiedi se c’è un burattinaio che tira i fili del tuo mondo, per il quale tempo e spazio non ci sono. Tutto è presente, in un sol luogo.

Patty Smith prestatami da Mark. Carino. Ingegnere inglese (due anni vissuti lavorando su una minuscola isola polinesiana, 

non dico niente…) Ha un ottimo Aiwa, si sente divinamente. Mi fa sentire un minidisc di New Age fantastico. Me lo ascolto 

e riascolto, in camera, in macchina…, per ore.

Poi mi fa sentire quest’altro, e riconosco lei, Patty Smith. Qui, in Somaliland, in questa terra arsa dal secco, con queste 

donne in nero, questi cammelli sornioni, questo caldo disarmante che non ti fa dormire. Un tuffo di …accidenti, ho difficoltà 

a dirlo. Un tuffo di 20 anni! Già, ne avevo 17… E in un istante  torna presente tutto. Il concerto allo stadio di Bologna, l’attesa

da settimane prima, la corsa ai posti sulle gradinate, e gli amici… quegli amici dei 17 anni… Erano gli amici di Cereglio, gli amici dell’infanzia… quelli con cui ci si faceva le canne, ci si scolava bottiglie di vino rosso (non ricordiamolo, qui a Berbera, 

o vogliamo proprio farci del male?!..) quelli con l’R4, con cui si andava a raccogliere il sambuco per la marmellata, con cui andammo a San Siro a vedere Bob Marley, e uno sconosciuto Pino Daniele, sbarbatello.  Come si stanno attorcigliando 

queste molecole dei ricordi…? che mi fanno rivedere Piero al laghetto di Cereglio, 20 anni fa, qui, ora, e Alberto che si 

ubriaca, e Carla, e la vedo adesso con la piccola Irene… e dove siete adesso, e che piacere ricordarvi qui. Vi sto vedendo. 

Non lo sapete, ma siete qui con me. Proprio come 20 anni fa.

Pochi giorni fa è avvenuto lo stesso, ma in quel caso è stato troppo forte. Paolo ha messo un CD che non sentivo da anni: 

Nino Buonocore.  Molti anni fa, qualcuno me lo aveva regalato, e lo avevo preso con me  in Brasile, e lo ascoltavo, e 

riascoltavo.

E qui, in Somaliland, ancora una volta il passato mi torna presente. Quella stanza di Salvador Bahia dove ascoltavo 

“Scrivimi” facendomi il bucato. In un istante ricordo il quartiere di 10 anni fa, la casa, le persone, gli stati d’animo.

Ho chiesto a Paolo di rimetterlo ancora. Ma non ho resistito, e ho pianto. Di gioia, di passato, di anni che sfuggono, di 

troppe cose che si sommano e il mio cuore non basta a sopportarle, di una vita che è troppo intensa, …

A Diego mi successe con un odore. C’era un pittore bretone, Paul, molto carino, che si fermò più di un mese. Un giorno, finalmente, mi mostrò i suoi schizzi, decine, perlopiù a matita. Ma qualcuno, per ultimo, era a colori, e l’odore di quelle 

tinte mi trasportò come le fate nelle favole che piombano dal nulla, dentro lo studio di un caro amico, scomparso. 

Angelo Bragalini, uno studio in via Castiglione angolo via delle Rose. Novant’anni.  Centinaia di incisioni e sculture e disegni, e tanti mesi in gioventù passati a pedalare per i passi alpini, quando le strade erano sterrate, e non c’erano le mountain bike.  Così, nella baia di Diego, Madagascar, ritrovarmi senza saperlo in quella casa di Bologna, con quella polvere, quella vecchia bicicletta, e quell’identico odore di Paul di Brest.

A volte, le persone di passaggio, senza saperlo ti fanno indescrivibili regali. Addirittura riportarti presente un amico 

scomparso, che non vedevi da anni. Potere perfino sentire il suo odore. La pelle d’oca, un brivido, inevitabile.

Forse tutto ciò non v’interessa. Vorreste che vi parlassi d’Africa, di Somaliland. Ma l’Africa è questo. Come qualunque altro posto. E’ ciò che siamo noi, con il nostro fardello. Con la nostra piccolezza. E mentre dico “fardello”, non può non venirmi in mente quella splendida immagine di Robert de Niro (caro!) in Mission, che si tira dietro per l’Amazzonia una contorta zavorra di chili che serviva, in quel caso, a saldare il suo conto col passato, a ritrovare se stesso, il senso del continuare a vivere.

E’ bello portarsi in giro per il mondo un “fardello”. Sapere di avere un passato, degli amici da ricordare, delle sensazioni così intense che basta un piccolo stimolo emozionale per rispolverare un intero mondo.

E portando questo bagaglio in giro per il mondo, si arricchisce costantemente di nuovi acquisti. Gli odori si sommano, come queste immagini nella mia bacheca. Adesso anche la fotografia della piccola Enrica. L’ho “vista” solo quando era ancora nel pancione, e ha già 5 anni!  E come non ricordare, ogni volta che la guardo, il grande amore che avevo per sua madre, e come

è stato bello fare l’università insieme, quante cose ci siamo date, e come è bello avervi qui adesso…

Non potrei scrivere ciò che scrivo, se non avessi questi “fardelli”.  Non potrei essere qui così emozionata, perché da due ore continuo ad avere Patty Smith nelle orecchie. E certo, Mark non può immaginare di quanta gioia sia stato la causa!

Tutto ciò, mentre si continua ad andare nei villaggi, a fare ore e ore di pista, a scambiare la verdura fresca dei contadini con 

il pesce pescato da noi a Berbera, mentre si allestisce il nuovo ufficio, con il nuovo computer, mentre si portano i banchi 

nuovi, si ripara una porta, si incontra il ministro che ti dice che i banchi non vanno bene, e li devi fare come li vogliono loro, modello anteguerra…

E intanto mi preparo per una prima vacanza. Sono piuttosto stanca. E’ difficile da sostenere psicologicamente, il deserto!

 

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Ricordi  

 

Ricordo l’odore del cartolaio, quando andavo alle elementari, dei quaderni, e di quella colla per i collages 

che veniva voglia di mangiarla.

 

Mi ricordo i panini per la merenda, con il pane a rosetta, il prosciutto, le cipolline sottaceto.

 

Ricordo i salti della gente, a Dakar, l’apoteosi quando – a ballare – mettevano la musica di Yussu N’Dour.

 

Ricordo che in Burundi Yussu N’Dour non lo conosceva nessuno. Tutti impazzivano per il lingala, e quando 

misi la sua cassetta fu un disastro, e dovetti cambiarla. Non riuscivano proprio a sentire il ritmo.

 

Ricordo mia madre che mi accompagnava a Milano, per un esame. Comprammo delle patatine aromatiche 

mai mangiate prima. E ogni volta che negli anni abbiamo ritrovato quelle patatine, ci siamo ricordate di quel giorno a Milano. Io e lei.

 

Ricordo la Cinquecento grigio fumo, con sportelli controvento, pagata 50.000 L., che ci aveva portate in un giro delle Marche. Ricordo che avevo messo al lato sinistro un grande adesivo: “La Barca Laboratorio”. 

Veliero che faceva ricerche in giro per il mondo. E tutti i casellanti lo leggevano, e mi chiedevano curiosi.

 

Ricordo il mio primo volo in aereo, con mio nonno.

 

Ricordo la prima volta a Roma, con Medo, in treno.

 

Ricordo i tanti treni in giro per l’Europa. C’era ancora la Yugoslavia. Era un intero campo di girasoli.

 

Ricordo Matteo da piccolo, e quelle sue belle gambette, che mi ispirarono una poesia.

 

Ricordo Roma con mia madre, al funerale di Paolo 6°. Ricordo una notte con lei in macchina, in Cinquecento, perché tutta l’Umbria era piena, a Pasqua, e ci svegliammo all’alba, in una splendida Spoleto.

 

Ricordo Piazza Tien Ammen. Ero in ufficio, e piansi. Perché? Come? Ammazzare migliaia di persone. Migliaia. 

Mi ricordo, sì. Mi ricordo.

 

Ricordo Laura sul Kilimanjaro. E quanti sogni, e quanta vita davanti.

 

Ricordo il treno Fianarantsoa-Manakara. La foresta pluviale, le cascate, una dopo l’altra.

Ricordo una bambina zoppa, in Uganda. Non riuscivo a mascherare che avevo una preferenza per lei. E lei, timida, ne era così felice. E nascondeva il suo sorriso nella camicia lisa e bucata.

 

Ricordo quel piccolo in Burundi, distrutto, cui facemmo l’esame per l’AIDS.

 

Ricordo il cinema di Nanni Moretti, a Trastevere, con Cristiano. Il “Nuovo Sacher” (dall’omonima torta). E i poster in bianco e nero con i miti del neorealismo: i film di Pietro Germi, Anna Magnani.

 

Ricordo i film del mio lavoro, già da piccola. “Diario di un maestro”, “Un anno a Pietralata”,… Mi piacevano questi maestri alternativi, queste situazioni d’emarginazione. E ricordo i film di Aurelio Grimaldi, e quello più bello, nelle zolfatare siciliane.

 

Ricordo la Sicilia. E quanto amo la Sicilia. I colori, il verde, l’azzurro, i fichi d’India, le case bianche, 

il silenzio, il vento, le arance. Ricordo il treno che percorre la Conca d’oro.

 

Ricordo un amore siciliano, con cui vidi Parigi a Capodanno.

 

Ricordo la stazione di Bologna, il 2 agosto 1980. Non avevo mai visto una folla così silenziosa. Ricordo lo sgomento. Il pianto di tutti che era così disperato, che non riusciva a uscire.

 

Ricordo la mostra di arte ebraica, a Ferrara, con mia madre.

 

Ricordo il cinema quando ero piccola. Al  Fulgor si andava sempre a vedere W.Disney. E ricordo una volta 

io e mio fratello: “Alice nel paese delle meraviglie”.

 

Ricordo i miei primi libri d’avventura: “Verso il nido delle grandi piovre” … ”Verso il nido dell’anaconda”. E quando, a Cereglio, andavamo nel bosco da soli, bambini, fino al fiume, era la nostra “spedizione”. E mi immaginavo da grande, ad attraversare l’Africa, a navigare sul bacino dell’Orinoco…

 

Ricordo Chiara dentro il mio armadio, a due anni, che si infila le mie scarpe, si mette i bigodini, si 

impastrocchia la faccia di rossetto.

 

Ricordo la mia festa di laurea, nel cortile di don Contiero. C’era ancora mio cugino Alfredo. Ho la sua foto sorridente.

 

Ricordo Andrea nella pineta di Ravenna. Ricordo le bretelle a pois che gli avevo regalato. La crisi di starnuti 

da fieno che non finiva più!

 

Ricordo il treno al nord della Svezia. Due vagoni. E il conducente che si ferma, e ci fa scendere a 

fotografare: “Circolo Polare Artico”.

 

Ricordo Josèph. L’infanzia passata con lui a giocare a briscola sotto le querce. I suoi racconti divertiti di anarchico bohemien, scappato agli orrori della Prima Guerra, rifugiato in Francia, dove andava in bicicletta a trovare la sua bella.

 

Ricordo Hélène, ricordo Maria P. (Marilù, cara), e tutti i vecchi che hanno fatto la mia vita. Dove siete? 

Mi vedete? Mi sentite? Sentite il mio grazie?

 

Ricordo le notti nel letto con mia nonna. E lei che mi cantava le canzoni dei suoi tempi. E al muro quella bellissima foto di mia madre piccola piccola.

 

Ricordo i funerali. Quello di mio padre, il primo. Quello del mio amico Stefano, rimasto sott’acqua in Grecia, mentre esercitava la sua passione, la pesca sub.

 

Ricordo i campi di pannocchie, con mia madre, dove adesso c’è il quartiere Fossolo.

 

Ricordo i giovani che vedevo alla Sorbona, camminare con i libri sotto il braccio. E volevo essere come loro, 

e mi sembravano irraggiungibili. E quando passai l’esame di maturità, da privatista, ricordo che mi ritrovai in 

via Zamboni, in quell’edificio che rappresentava l’università più antica del mondo, e immaginavo quante generazioni di studenti erano passate di lì, dal medioevo. E avevo i libri sotto il braccio. E mi ricordo un: 

“Ce l’ho fatta! Sono qui anch’io”.

 

Ricordo il mio primo libro di Margaret Mead. Avevo forse 17 anni. “Lettere dal campo”. E quanto mi ci proiettavo! Ricordo che avevo scritto le mie impressioni e le mie profezie, nell’ultima pagina. Qualche anno dopo lo prestai ad un giovane tossicodipendente, in una comunità. Speravo che gli trasmettesse qualcosa 

di positivo, come aveva fatto a me. Non l’ho mai più rivisto. Mi sono chiesta che fine avesse fatto lui. E mi sarebbe piaciuto rileggere quell’ultima pagina.

Amavo così tanto Margaret Mead, e sognavo di andare in giro per il mondo. Ma anche allora, mi sembrava 

una meta irraggiungibile. Non pensavo proprio che avrei scritto, anch’io, così tante “Lettere dal campo”.

 

Mi ricordo tante altre cose ancora…

***

Ciao!

 

 

30 maggio ’99  

 

E’ possibile per uno scarafone avere lo sguardo affranto?

Chissà, forse, se potessimo guardarlo negli occhi…

In questi giorni ne ho la doccia invasa.

Ne faccio secco uno. Mi volto e ce n’è già un altro.

Vado a trincarmi un buon sorso di Martini bianco, gelato

(insomma, con questo caldo, bisogna pure tirarsi su!)

Torno e ne trovo un terzo, fermo immobile, completamente

steso sul primo che ho martoriato.

Immagino già una lunga storia d’amore, un lui o una lei che piange

sul compagno perduto

Sono stata l’artefice di una distruzione.

Chissà come si amano gli scarafaggi?!

Comunque, ha proprio l’aria affranta. Facciamola finita:

schiacciamo anche lei, o lui.

Devo farmi la doccia!

“Quale che sia l’origine delle nostre lacrime, si finisce sempre col soffiarsi il naso”.  

Carina. L’ho presa dal libro che ho appena letto di Simone de Beauvoir. E la sto vivendo in prima persona, poco a poco.

E’ incredibile come ogni cosa, ogni cosa, cambi di significato, di valore, di importanza, a seconda delle angolazioni, dei 

luoghi, del tempo che passa. Ciò che un tempo avrebbe potuto farci morire, diventa un giorno quasi stupido, banale, o impercettibile. Strana cosa, la realtà delle cose. (Viene da pensare che siamo solo fantocci, in balia delle apparenze).

E’ quasi un mese che non scrivo. Com’è passato in fretta. Meno male. Il tempo in questo deserto non ha le connotazioni occidentali. E questo isolamento, e questo caldo, sono faticosissimi.

E’ interessante il modo somalo di contare le ore, uguale a quello di tanti altri popoli, che non hanno l’orologio al polso ma la natura da osservare. (Ve lo racconto un’altra volta, perché ancora non mi è chiaro!).

Sono stata nuovamente in Puntland, e in Kenya. Che meraviglia. Ho un sacco di cose da raccontare, di lavoro, di emozioni, 

di persone incontrate e di frammenti. Non so da dove cominciare. Accettate il mio disordine.

 

E’ incredibile quanto sia varia l’Africa. Nel giro di una sola ora di volo, cambi completamente universo. Cambi secolo, o millennio. Cambi la concezione del tempo e dello spazio, della vita, del sesso, di Dio…

Dalle donne fasciate della Somalia, mi sono trovata in poche ore alla metropoli di Nairobi, con il suo traffico, il suo inquinamento, i suoi teatri e i locali notturni. E poi tra le collanine e le lance dei masai, con i loro villaggi pieni mosche, e 

la loro austera fierezza.

Quanti mondi. Quanti mondi che non conosciamo! Quante diverse realtà. Tutte assolutamente vere.

 

Ho capito cosa significa, per il Puntland, essere la Terra dei profumi. Non ne ho capita l’origine, che è rimasta un mistero,

ma la consistenza.

Abbiamo percorso un pista imprevedibile, dove le ruote della 4x4 andavano praticamente sul letto di un fiume, tutto a ciottoli.

Di quelle esperienze in cui dopo due ore di viaggio ti ritrovi lo stomaco in mano, non lo senti più, e ti chiedi dove sei.

La Terra dei profumi. Bisogna scendere dalla macchina per capire. O meglio, per sentire, e domandarsi. Da dove viene? 

Come fa ad esserci questo aroma? Nella distesa di pietre tutt’intorno, solo qualche albero sparuto, eppure il profumo è avvolgente. Neanche in piena foresta ho mai sentito nulla di simile. La foresta, più che profumare, ti fa sentire la sua umidità,

e il chiacchierio di migliaia di specie animali diverse.

Ho visto l’albero dell’incenso, e ne abbiamo presa la corteccia, che continuava a riempire di sogno la cabina dell’auto. 

L’odore della corteccia è molto diverso da quello dell’incenso che conosciamo, quando viene bruciato.

Le due ore di agonia ci hanno portato a 1600 metri di quota, dopo chilometri di assoluto deserto. Arrivi lì e ti viene in mente C.Levi, parafrasando: “Cristo si è fermato a Galgàla”. Cosa ci fa un villaggio in questo buco del mondo? 

Come ci sono arrivati quassù? Chi ce li ha portati? Come accidenti ci vivono? Eppure è fantastico. E’ un’oasi. Dopo l’infinita pietraia, l’inebrianza delle palme e degli orti. Non sono abituati ai bianchi, e non vogliono fotografie, e se solo punti l’obiettivo 

i bambini ti tirano sassi.

Con la tipica tradizione dei popoli nomadi, accolgono il viandante offrendogli il tè, e la tenda.

Ci ritroviamo con gli anziani, e con il comitato scolastico appena costituito, nella tipica veranda di foglie, che ospita il bar, ovvero, il luogo in cui gli uomini si ritrovano a parlare bevendo il tè. Qui siamo in Somalia, e non vi è l’influenza anglosassone come in Somaliland, per cui il tè viene servito nero, senza latte, mentre “da noi” lo bevono con il latte di cammella.

 

“Quando l’acqua è poca, puoi berla solo con le tue mani”.

 

Questo, ci spiega un vecchio, è un proverbio somalo per dire che quando sei nella miseria, puoi arrangiarti solo per te 

stesso, non hai niente da dividere con nessuno.

“Siamo venuti qui dieci anni fa, per scappare dalla guerra di Mogadiscio, senza niente. Potevamo pensare solo alla pura sopravvivenza, e ognuno per sé. Adesso, finalmente, stiamo meglio, e possiamo pensare allo sviluppo, con il vostro aiuto”.

Come spesso da quando sono qui, mi ritrovo ad essere l’unica donna, il ché comporta parecchie implicazioni, talvolta 

positive talvolta no (essere donne comunque, non è mai facile!). Uno dei vecchi mi dice “Perché le donne occidentali non vengono qui?! Dicono tanto che le nostre donne dovrebbero emanciparsi, perché non vengono ad aiutarle?!” 

Facciamo notare che io sono una donna, sono occidentale, e sono qui!  Si mettono a ridere. Mi guardano a lungo, come sempre. Sono bianca, ho un vestito che non mi copre completamente, e ho persino una macchina fotografica!  (E sono 

l’unica ad averla). Loro hanno i tipici corpi lunghi e secchi degli africani di origine camitica, tutti abbigliati con le lunghe 

gonne di qui, che arrotolano sotto il cavallo. Sono pratiche, soprattutto per il caldo. Anche molti miei colleghi spesso le indossano.

Tra le piante di banani, ci offrono un lauto pasto: dentro i grandi piatti metallici da cui si mangia insieme, con le mani, una 

buona spaghettata condita con verdure e fettine di banana cruda. Ognuno ha la sua tecnica per imboccarsi con le dita, e ci divertiamo a scambiarci i “metodi”.

E’ incredibile come, ovunque vada, trovi pacchi di cartone di spaghetti italiani. Anche a Galgala, Puntland. Non sono 

Barilla, ma vanno benissimo.

 

A Bosaso la temperatura è pazzesca, siamo già intorno ai 40°. Di notte poi spengono i generatori e la mattina ci si 

sveglia senza neppure uno straccio di ventilatore. Ogni volta ho la pressione al minimo e mi sento svenire, non riesco ad 

alzarmi e i tre piani di scale per andare a colazione mi mettono k.o. Arrivo strasudata e annaspante.

Meeting di un giorno intero con la Comunità Europea: il primo che si organizza tra tutti i progetti educativi. Interessante. 

Certo, se funzionasse il climatizzatore… Tutto il giorno in 25 in una sala in pieno sole. Esperienza che non si dimentica facilmente!

Di nuovo sono l’unica donna. O meglio: l’unica che parla. C’è una somala stracoperta che resta tutto il giorno a fare la 

sauna senza fiatare.

La cosa, in questo caso, mi meraviglia, perché generalmente il campo educativo è appannaggio delle donne, invece qui 

ci sono inglesi, kenyani, persino un bengalese, tutti uomini.

Riprendo il fatidico aeroplanino ECHO, terrificante. Non puoi alzarti in piedi. Non puoi avere bisogno di un cesso perché 

non c’è. E per andare da Bosaso a Nairobi devi passare per Gibuti! Dunque: un’intera giornata in volo. Credo che arriverei a Sidney.

 

Il Kenya rappresenta, per eccellenza,  l’Africa dei miti. O quella dei clichés. E’ bellissimo, con le sue distese infinite, la sua vegetazione lussureggiante (a Berbera…puoi dimenticarti l’esistenza dei fiori), gli eucalipti, le acacie, le bouganvilles…

Ritrovo gli amici di Nairobi, ritrovo un po’ di vita culturale. Persino uno spettacolo di danza! Da quanto tempo non entravo 

in un teatro?! Ritrovo le leccornie dei buoni ristoranti. Che bisogno di riprendermi, dopo la cucina sempre uguale di Berbera!

 

Un altro piccolissimo aeroplanino della Kenya Airways mi sbarca sulla pista di terra della Masai Mara National Reserve, ai confini con la Tanzania.

Differenza tra Riserva e Parco: nel Parco vivono solo gli animali, che hanno priorità e difesa assolute. Nella Riserva vivono 

anche popolazioni, che hanno diritto di uccidere gli animali predatori per difendere il loro bestiame se attaccato.

Il Masai Mara è il proseguimento del tanzaniano Serengeti National Park. Vi ero stata tanti anni fa, esattamente 17 (era 

infatti il 1982), ed era il mio primo viaggio in Africa. Quello dal quale si ritorna o traumatizzati o con la febbre. Tornai con la febbre, e mi rimase!

E’ bello ritrovarsi qui, dopo tanti anni. Ne avevo un ricordo molto diverso, poiché il Serengeti lo vidi in piena stagione secca, 

ed era uno spazio giallo senza fine. Ora invece il Masai Mara è in piena stagione delle piogge, tutto è verde, fiorito, e 

l’erba è alta, il ché rende meno visibili gli animali.

Ma sono ugualmente tanti, e splendidi. E si resterebbe ore a guardarli. O forse mesi, anni. Si vorrebbe lasciare un po’ le

fatiche dei paesi in guerra, delle popolazioni derelitte, per dimenticare tutto e guardare solo queste sorprendenti proboscidi, questi colli lunghi di giraffe, queste corna di bufali, queste righe di zebre, queste bocche di ippopotami, questi occhi 

sornioni di leoni che hanno appena mangiato, questi visetti di impala e gazzelle, e le miriadi di uccelli, di infiniti colori e dimensioni così diverse, dal piccolissimo all’enorme.

Sì, qui sembra proprio che tutti i problemi del mondo siano fuori. Non sembra, lo sono. In questo meraviglioso campo 

tendato, elegantemente arredato con bei mobili di bambù, con una raffinata cucina in cui mi servo al buffet e mi riprendo 

dalla carenza di verdure e formaggi, qui… tutto il resto non arriva. La guerra del Kossovo, le tante altre guerre – dimenticate

ma non finite – il fondamentalismo dei paesi come quello in cui mi trovo a vivere adesso, … com’è tutto lontano, 

inconcepibile!…

Mentre questi masai, ti accolgono con le loro danze, i loro costumi e le loro collanine. Voglio comprarne una, e come in

genere si fa in Africa, tento di trattare sul prezzo. Ma un masai è un masai! Vuoi mettere? Mi guarda con un sguardo che

mi sento sprofondare. “1100 shellini” Perché poi 1100? Perché non può fare 1000? Cosa significa 1100?!  “1100 shellini!” 

Sarà la leggenda, ma solo chi è abituato a sfidare la terra dei leoni con una lancia in mano, può avere uno sguardo così. 

Lo stesso del leone. Ti penetra, ti senti nudo, e senza possibilità di replica. Non si tratta, con un masai. Vince lui.

Prendere o lasciare. Compro. A 1100, ovviamente.

 

Questa gente mi è sempre sembrata con un’intelligenza e un’autocoscienza superiore alla media. Molti di questi masai 

parlano abbastanza bene inglese, e conoscono molto bene il mondo di provenienza di noi turisti occidentali. Questo è ciò 

che ammiro, e questo è ciò che vorrei che avessero tutte le popolazioni ed etnie minoritarie: l’autocoscienza, e la capacità 

di scegliere. Ed è ciò per cui mi sforzo quando lavoro.

Molti di loro, sia vecchi che anziani, sanno benissimo cosa c’è al di fuori di questa riserva. Ma è proprio nonostante (o forse grazie a) questa conoscenza, che scelgono il loro stile di vita. E questi ragazzi possono sfruttare a loro profitto la nostra presenza, lavorano per il turismo, facendo conoscere il loro modo di vivere, e continuano a vestirsi da masai, a vivere qui, nei loro villaggi, a seguire le loro scadenze periodiche rituali, ben scandite nei ritmi della vita dai riti iniziatici. Credono nella loro forza di uomini che devono vivere di caccia e guerra, che non devono muovere neppure un dito quando vengono circoncisi, altrimenti vuol dire che hanno paura, e si nutrono di latte e del sangue delle loro vacche.

 

Chiedo a Joseph (questo è il nome inglese, quello masai proprio non me lo ricordo!) quanti sono. Risposta:  “E’ difficile 

sapere quanti sono i masai. I masai non credono in questi conti, nei censimenti. Molti credono che se li conti, poi possono morire. Così una donna che ha dieci figli ti dice che ne ha tre. Un uomo che ha otto fratelli, ti dice che sono in quattro…

Per noi non esiste Kenya o Tanzania, per noi c’è il Masailand, e siamo tutti uguali, e uniti, con diversi clan.  Al di là del 

confine con la Tanzania c’è la nostra montagna sacra. Ogni anno dei delegati da tutti i clan vanno là a ringraziare, e a 

pregare perché le piogge siano benefiche

Da noi il matrimonio lo combinano le famiglie. Per questo un uomo ha molte mogli. La prima non la sceglie lui, le altre sì.

Ma a me quella che avevano scelto non piaceva, e non l’ho voluta! Me ne sono scelta un’altra, e tra poco la sposerò”.

I tempi cambiano, anche qui. E come mi mostra un vecchio, quelli che sono andati a scuola, hanno delle capanne diverse, 

un po’ più pulite. In effetti, fa un po’ impressione vedere queste capanne in cui uomini e bestie convivono sotto lo stesso 

tetto, e inevitabilmente i bambini hanno gli occhi pieni di mosche. Penso ai nostri contadini di una volta, la stalla era un po’ separata dall’abitazione. Qualcuno mi fa notare che non è vero, e che fino al dopoguerra in molte regioni d’Italia uomini e 

animali dividevano la stesa casa, anche per scaldarsi.

 

L’aeroplanino mi riporta “al mondo moderno”, dove mi aspettano altri “tuffi”. Con i miei amici di Nairobi, andando al lago 

Naivasha e al Nakuru N.P., mi ritrovo per un attimo catapultata nell’Africa dei ricchi, degli ex coloni.  Visitiamo un podere stupendo, di un italiano nato qui: 50.000 ettari.

50.000 ettari? Faccio fatica a capire le proporzioni. Del tipo “tutto quello che vedi intorno è suo”. Per chilometri, la pianura, 

le colline, con una graziosissima casa in perfetto stile inglese, con relativo prato e acacie secolari, per chilometri, dove pascolano migliaia di vacche da carne e da latte, dove un’italiana sta avviando un caseificio che vende ottimi formaggi ai ristoranti di Nairobi. Sul bordo del lago c’è una zona paludosa, dove vengono ad abbeverarsi molti bufali, che mettono in 

pericolo le vacche. Il veterinario che lavora qui è venuto dall’Italia portandosi lo sperma delle vacche (o meglio, dei tori)  per migliorare la razza, e sono usciti bei vitelli grossi, che devono far nascere con il cesareo (…pare sia normale).

 

La strada ci porta poi verso un college fantastico, in cui pensi “mica male fare l’insegnante qui!” e la mia amica mi fa 

notare “io qui farei pure il giardiniere!”

Andiamo alla ricerca di una strana inglese di cui abbiamo sentito parlare. Una tizia che produce strani tipi di carta, con 

prodotti riciclati e naturali, tra cui sterco di elefante.

Le indicazioni ci portano a seguire una pista impervia, che sale e scende tra una vegetazione rigogliosa, tra belle case 

inglesi tipiche, fatte di sasso, con le finestre a vetrini, e i prati. “Ma dove accidenti si è infrattata questa tipa?!” Non si 

arriva più!  Finalmente troviamo casa sua. Mica male! Una gran bella villa. Lei non c’è, ma il guardiano ci fa entrare e 

visitare il laboratorio. Questa carta mi ricorda molto quella malgascia fatta con i fiori.

Mi dispiace non incontrare la padrona di casa, che mi sembra proprio un mito. La casa tipica di una vecchietta inglese,

piena di libri, il pianoforte, l’angolo per dipingere acquerelli… Una bella vecchiaia, con questo bel prato, i cani dalmata…

 

Quanti mondi, sempre, ovunque vado. Quante dimensioni di vita!

Passo ancora qualche giorno a Nairobi a rifocillarmi tra i migliori ristoranti, in vista di altri due mesi di Berbera in cui non mangerò che pasta e pesce. E poi di nuovo, il solito aeroplanino ECHO FLIGHT mi riporta ad Hargeisa, dove riprendo il 

mio look da frate, camicione e sandali bassi, mi sembra di avere saio e calzari. Ritrovo questo caldo incredibile, in cui non sopravvivono neppure le zanzare. Ritrovo i “miei” villaggi e le “mie” donne. Che mi aspettavano. Adesso c’è tanto lavoro, la formazione degli insegnanti, gli incontri con le famiglie. Bello. Certo, se questo paese fosse un po’ più allegro…

Comincio a pensare che il fondamentalismo religioso sia legato alla tristezza e alla difficoltà dei posti. Difficile, in una 

pietraia come questa, avere l’allegria di un senegalese, o delle donne malgasce!

Dimenticavo: adesso posso anche dirvi da chi è che ho “copiato” la mia sequela di Ricordi: Dal libro di Marcello Mastroianni

“Mi ricordo sì, io mi ricordo” (ed. Baldini e Castoldi). Bello. E mi ha dato interessanti spunti di riflessione sul tema degli insuccessi e dei “buchi neri” della vita.

Cari saluti, mentre mi sto davvero soffiando il naso. Non solo in senso metaforico per ciò che si diceva sopra, ma perché ho davvero il raffreddore, con questi sbalzi tra i 42 gradi e l’aria condizionata. Ciao!

 

 

****

Berbera, 15 giugno ’99

 

…spesso sorridono, è vero, ma sono sorrisi

di dolcezza, non di allegria.

Così ogni tanto qualcuno esce da questo

spaventoso vortice, da questa

bufera infernale, e lo si vede

depositato ai margini, istupidito.

Mi è capitato spesso di cogliere qualcuno con

gli occhi fissi nel vuoto, immobile: i sintomi chiari

di una nevrosi nel volto. Quasi avesse

“capito” l’insopportabilità dell’esistenza.

Queste espressioni di astrazione dalla vita,

di rinuncia, di arresto, di gelo…

 

P.P.Pasolini, “L’odore dell’India”  

 

***

La follia. Quanto sta la follia alla miseria?

Quante volte in Africa si vedono queste figure deambulanti, con lo sguardo annebbiato, che ti chiedono qualche spicciolo, 

o ti imbrattano coi loro deliri, e gridano in mezzo alla strada, magari completamente nude, o quasi. Vecchie donne ossute vestite di stracci, uomini anch’essi ossuti, che si trascinano qualche pezzo raccolto negli immondezzai, masticando e sputacchiando. Anche qui ce ne sono tanti.

E viene da chiedersi quanto ci sia di congenito, quanto di traumatico. Quanto sia lo stordimento, per l’insopportabilità di 

questa esistenza, in cui tutto è così stramaledettamente difficile. In questi paesi distrutti, dove la gente ha vissuto traumi orrendi, spesso non si vive più, si sopravvive.

Dio quanto tempo ci vuole a rinascere!

Mi arrivano solo da lontano le immagini di Belgrado, ma dopo l’esperienza dei Grandi Laghi e ora di questo paese che ha 

vissuto la guerra civile, comincio ahimè a “intendermi” di disturbi post-traumatici. E mi piange il cuore a vedere le immagini 

di altri bombardamenti, altre distruzioni, perché ora so per esperienza diretta ciò che “rimane” dopo.

Quanto tempo! Quanto tempo ci vuole a ricostruire! Ricostruire la fiducia, ricostruire l’allegria… In Burundi sentivo dire le 

stesse cose “Un tempo la gente non era così, non c’era questa diffidenza, questa chiusura, si facevano feste, si ballava…

”Ma chi può avere voglia di fare festa, quando le famiglie sono state massacrate, quando si è vissuta una violenza così 

grande? Ci vogliono anni, anni per recuperare, e certo non si dimentica. Non si dimentica niente. Non si può dimenticare il dolore. Solo, si impara a convivere col trauma.

E come puoi avere fiducia, e in cosa, quando tutte le tue attese di vita sono state annientate?

Mi arrivano le immagini dello zoo di Belgrado: non si sa più cosa fare di questi animali, nessuno può occuparsi di loro, 

non si sa come dar loro da mangiare, e non si può certo lasciarli liberi. Queste sono le cose che più a lungo incidono nella psiche della gente, “dopo”, a guerra finita. Perché finisco i bombardamenti, finisce il terrore… ma quanto tempo ci vuole a recuperare la bellezza ? Forse si rifanno le costruzioni, poco per volta, si rifanno i ponti… Ma quando si rifanno le aiuole? Quando si ricomincia a vedere il decoro, i colori, l’allegria?

Sono andata in giro per Berbera a fotografare la città, cosa che volevo fare da tempo. E mi è presa un’angoscia sconfinata 

a vedere tanta distruzione. Si guarda con un altro occhio quando si cercano i particolari, e scopri tante cose che non 

avevi visto in giorni e giorni di passeggiate. E mi chiedo come si faccia a vivere in tanta decadenza. Eppure la guerra è finita 

da anni in questo paese. Ma come si fa? Chi ce li ha i soldi per rimettere in piedi tutto questo? Tutto il meraviglioso centro 

arabo che aveva questa città? Non è rimasto alto che macerie.

 

Del bello e del brutto

Mi sono sentita dire a volte, nell’arco di questi anni, da chi ha letto i miei scritti, che io ho la tendenza a scrivere solo ciò che è positivo, il bello. E questo a sua volta dà a pensare che io idealizzi ciò che ho intorno. Quasi che il brutto non lo vedessi.

E’ vero. Ho la tendenza a scrivere solo il bello. Parlo dei sorrisi delle donne, dei cammelli sornioni, delle verande per il tè…

Ma ciò non significa che io idealizzi, né soprattutto che il brutto non lo veda. Anzi.

E’ che, generalmente, non mi va di scriverlo, per vari motivi.

Innanzitutto perché il brutto faccio già abbastanza fatica ad accettare che esista, per metterlo anche sulla carta, nero su bianco. E questo, ovviamente, è un problema mio.

Poi c’è che forse temo di sconvolgere chi legge. Mi secca, e mi turba, raccontare tristezze o cose negative e poco piacevoli. Quasi mi dicessi – inconsciamente – “Ma perché deprimere il prossimo con tutto questo?”

Poi forse c’è un po’ di “sindrome dell’emigrante”. La stessa che porta il senegalese a scrivere a casa che va tutto bene e 

che ha trovato lavoro ecc.. senza poi dire che da mesi vive in un’auto in demolizione, che non ha un cesso dove fare i 

bisogni e lavarsi, e che fa un freddo schifoso e lui ha uno straccio di coperta, ...  Perché è vero: quando si è via alcune 

cose si è costretti a rimuoverle. Perché non si ha scelta. O le prendi come sono, o te ne torni a casa. Allora, meglio fare 

finta che non ci siano. Con gli altri e con se stessi. E vai avanti.

Infine, c’è la paura di giudicare. In fondo, mi dico, chi sono io per dire che questo e quello non vanno bene? Io qui sono un’ospite, se qualcosa non mi va posso pure fare i bagagli invece di criticare.

Però è vero che è un atteggiamento eccessivo.

A casa mia, posso fare tutte le critiche che mi pare. Dai treni che non funzionano, alle tasse troppo alte, alle strade 

sporche, all’inquinamento, alla televisione che fa schifo,...   Quando si vive in un altro paese, in fondo, si ha lo stesso 

diritto di dire queste cose, esattamente come si è capaci di vedere i difetti di una persona a cui si vuole bene. E le si 

vuole bene proprio così com’è.

Certo, poi, bisogna essere capaci di distinguere tra vedere i difetti e fare pettegolezzi inutili. E qui allora si vede la 

piccolezza  delle persone. Una cosa è vedere – con rispetto e costruttivamente – ciò che è “negativo”. 

Altra cosa è demolire per il gusto di demolire, autocompiacendosi di una propria presunta superiorità (ed è questo 

purtroppo, in genere, l’atteggiamento più diffuso quando si fanno critiche, a persone, luoghi, paesi, popoli).

Ad ogni modo, ho preparato una lunga sequela di osservazioni negative da trasmettervi. Così vi darò forse un’immagine 

più completa della mia realtà qui, e meno idealizzante!

 

Dell’orizzonte

Innanzitutto, ciò che si vede a una prima occhiata. Il paesaggio qui è forse il più desolante che abbia mai visto. Il che 

non è in contraddizione con quanto ho scritto altre volte: i bellissimi colori del cielo e la luce. E anche questo caldo 

pazzesco, ha i suoi risvolti positivi (non ci sono le zanazare=niente malaria!). Però è proprio brutto! Non ha il fascino del 

deserto vero, come ha per esempio in Puntland. E’ proprio solo un susseguirsi di colline sassose con pochi sterpi. 

Solo pochi punti sono più “carini”, qua e là, e ci sono belle oasi. Poi, certo, una sua attrattiva la si ricava ugualmente 

(volendo), ma non si può proprio dire che sia “un bel posto”! E’ piuttosto deprimente.  Qui, quando fai chilometri e chilometri 

in auto, è pressoché tutto uguale, e non ti dà certo le emozioni dei paesaggi malgasci, così variegati e così incredibilmente fantastici ovunque si guardi!

 

Del masticare quotidiano.

Vi ho solo accennato all’uso che qui si fa delle foglie di kat (o chat, a seconda che siamo in paese anglo o francofono). 

E’ delirante. In questo paese mussulmano sono assolutamente bandite tutte le forme di alcol: non esistono le birre, il vino e ovviamente i superalcolici. In compenso è uso comune (n.b.: per i maschietti) drogarsi tutto il pomeriggio fino a notte e 

inebetirsi il cervello con questi rametti puzzolenti. Intendiamoci bene: non è un giochetto. E’ il prodotto che riveste il

 maggior fatturato in tutto il paese (e intendo qui sia Somaliland che Somalia). Tra Nairobi e Addis Abeba, ci sono 4 aerei al giorno (ripeto: quattro aerei al giorno!) che sbarcano ad Hargeisa e Mogadiscio questi accidenti di rametti.  Il ché fa un giro d’affari di milioni di dollari e questo sapete cosa vuol dire? Che è stato calcolato che per il solo Somaliland se tutto ciò 

che viene esportato in valuta per questo schifo di consumo restasse all’interno del paese (con spese di altro tipo) si risolverebbero in gran parte tutti i problemi dei servizi sociali necessari!

Ma è sempre così, in Burundi era lo stesso per la mitica Amstel, la birra nazionale. Si può dire di non avere i soldi per le 

tasse scolastiche dei figli, ma quelli per uscire di testa si trovano sempre.

Della dietrologia del sottosviluppo e della miseria economica e culturale

Perché continua ad esserci una miseria così grande in Africa? Perché in quasi tutti gli stati africani, anche quelli non in 

conflitto, ancora non esiste davvero lo Stato di Diritto?

Perché il singolo è così, sempre, disperatamente abbandonato a se stesso?

 

Abbiamo avuto un incidente in auto qualche settimana fa. Una collega è uscita di strada. Auto distrutta, autista all’ospedale. In cinque volati fuori senza, per fortuna, nulla di grave.

A parte per il padrone dell’auto. Pensate che ci sia un’assicurazione? Siete su un altro pianeta. Peggio per lui, tutto qui. 

Motivo per cui noi lavoriamo sempre con auto noleggiate e NON possiamo assolutamente guidarle).

Non credo che tutto ciò sia casuale. Penso solo che non gliene frega niente a nessuno. Ma chi se ne frega degli africani? Gliene frega all’ONU? Gliene frega alla CEE? No, non ci sono interessi sufficienti. Va bene così. Va bene che non ci siano 

le scuole, i libri, i quaderni. Bisogna che le masse restino stupide, e ignoranti.

Non so quale sia la dietrologia che tira i fili di questa miseria (economica ma soprattutto culturale). Ma sono convinta che

 non ci sia nulla che faccia realmente in modo di cambiarla.  Se si volesse davvero, si potrebbe.

Non essendo io né uno storico né un politico, e non essendo mio mestiere conoscere chi-tira-i-fili-di-cosa-e-perché, ho le domande, ma non ho le risposte.

Però vi voglio fare un paio di esempi di tale dietrologia, tanto per osservare quanta e quale essa sia, quanto sia pazzesca, e quanto sia difficile capire i veri perché delle cose.

 

1947. Dal libro di Collins-Lapierre, “Gerusalemme, Gerusalemme” (storia della nascita dello stato di Israele).

“Gli Stati Uniti si dimostravano i più attivi a promuovere la spartizione…La Casa Bianca aveva esercitato pressioni d’ogni 

sorta sui paesi contrari o solo indecisi … Quattro nazioni ostili alla spartizione  (Grecia, Haiti, Liberia e Filippine) furono sottoposte a una incredibile serie di pressioni e anche di minacce.

…Due giudici della Corte Suprema telegrafarono al presidente delle Filippine che il suo paese <rischiava di perdere milioni 

di amici e sostenitori americani, se avesse mantenuto il proposito di votare contro la spartizione>.  L’intervento di 26 

membri del Congresso …convinse il presidente delle Filippine a ordinare alla delegazione ONU di mutare il proprio voto 

<per il più alto interesse nazionale>.

Uno dei maggiori industriali americani, il fabbricante di pneumatici Harvey Firestone, era minacciato di veder boicottare l

a sua produzione se non riusciva a costringere il presidente della Liberia a votare per la spartizione. La Liberia era in certo senso proprietà di Firestone: egli vi possedeva 400.000 ettari di piantagioni di gomma e si apprestava a realizzarvi nuovi e consistenti investimenti”

…Lo avreste mai detto che dietro al casino di 50 anni di guerra, dietro la definizione di uno stato o meno, dietro la 

nazionalità di appartenenza di un individuo, potesse esservi  - tra le altre cose –  l’azione più o meno volontaria di un 

qualunque sig. Firestone (a sua volta “padrone” di un paese) ? Così va il mondo.  

1989-1999. Ricorrenza per la strage di piazza Tienammen. Da: Le inutili lacrime dell’ingordo occidente, Vittorio Zucconi, 

La Repubblica, 2 giugno ‘99.

“Quanti interessi finanziari hanno anestetizzato quella coscienza morale americana così pronta a dolere per la pulizia etnica nei Balcani e per le violazioni ai diritti civili commesse da Fidel Castro?

Ma la Cina è troppo grossa, troppo profittevole, troppo essenziale al funzionamento della nuova economia globale perché l’indignazione e la solidarietà vadano oltre il pianto di un editoriale o di un discorso di circostanza. Nel 1989 gli investimenti americani in Cina erano di 300 milioni di $ (500 miliardi di L.). Otto anni dopo, erano arrivati a 25 miliardi di dollari (45 mila miliardi di L.) . Nel ’99 le multinazionali americane producono ormai ogni cosa in Cina a costi del lavoro che sono una 

frazione di quelli europei o americani.

…Non ci sarebbe stato il boom clintoniano degli anni ’90 se la manodopera cinese non avesse svolto il suo ruolo di 

calmiere del mercato del lavoro mondiale.

…Si capisce dunque la deliberata miopia di questa amministrazione americana, riccamente finanziata dagli stessi cinesi, 

verso il destino delle riforme democratiche, la sua indifferenza per gli abusi umani e civili, per le persecuzioni del dissenso

 che ancora regnano in Cina, dieci anni dopo.

Oggi i profitti, domani, con comodo, la democrazia.

Non avevano speranze quei ribelli di dieci anni or sono, perché nessuno poteva sfidare l’alleanza oggettiva tra il Partito Comunista e il Partito di Wall Street.

..La prosperità dell’Occidente, e dell’America soprattutto, è costruita ancora oggi, come in passato, sul silenzio imposto 

alle folle cinesi”.

 

Se dunque ci si chiede – dopo tutto ciò - quale sia il senso della Cooperazione allo sviluppo… Ah, altra bella domanda! 

A parte il singolo interesse di noi che siamo qui e che ci viviamo esperienze interessanti e in generale guadagniamo bene… L’interesse dei tanti che lavorano nelle tante agenzie U.N. e C.E.E…. L’interesse dei politici locali… (A proposito, lo 

sapete che più uno Stato è dichiarato “in emergenza” più si vede sbarcare soldi. Prima era la volta dei Grandi Laghi, adesso l’Africa è in secondo piano e la fiera degli aiuti si è spostata nel Kossovo. Comunque, mantenere lo Stato “in emergenza” 

è un buon interesse. Per questo ogni tanto è bene stimolare qualche “scaramuccia” e decretare nuovamente il coprifuoco).

A parte tutto ciò, dicevo, non so proprio quale sia il senso di questi aiuti. Non sono qui a dire, ovviamente, che di ciò che 

si fa nulla serve. Servono i pozzi per l’acqua, è evidente. Serve la ristrutturazione delle scuole, servono le vaccinazioni e gli ospedali, serve migliorare il manicomio dove i matti erano tenuti con le catene, serve il centro per i bambini handicappati, 

serve rimettere in piedi i centri professionali, servono i corsi di alfabetizzazione per gli adulti,… Tutte cose fatte qui, da 

noi e altre organizzazioni di altri paesi, cose che continuiamo a fare, con passione e con il coinvolgimento della gente, 

che ha disperato bisogno di non sentirsi sola. Ma rimane sempre la consapevolezza che… non so …si svuota il mare 

con un bicchiere, mentre i fiumi continuano a riempirlo.

 

Della piaga dell’ignoranza

Tra la miseria economica e quella culturale, poi, mi convinco sempre più che se la prima è terribile, la seconda è una 

galera senza fine. E purtroppo le due sono proporzionali l’una all’altra, e si mordono la coda a vicenda, in un circolo vizioso spaventoso e perverso. Ed è solo quando si esce dal nostro ricco occidente che si può capire cosa significa ignoranza e perché, quali ne sono le sfaccettature, le cause, le dimensioni, le conseguenze. E ci si rende conto di altri aspetti della 

nostra ricchezza, di quelli che le generazioni del dopoguerra sono abituate a dare per scontate. Anche qui, vi farò alcuni esempi. (mentre vi scrivo da casa, ho in camera il tecnico del condizionatore che mi fa un casino pazzesco, mi smonta l’arnese, mi sale in piedi sulla scrivania, per togliere il tutto dal muro mi finiscono pezzi di cemento ovunque!)

Si sa che uno degli aspetti peggiori dell’ignoranza è la non consapevolezza di essa. Il credere di sapere tutto ciò che c’è

 da sapere. Purtroppo questa terribile e insopportabile presunzione può essere molto diffusa in una società in cui la 

povertà di strumenti è tale da non potersi rendere conto della propria ignoranza. Mi spiego meglio.

Nei nostri paesi, nelle nostre città, è sufficiente entrare in un Feltrinelli qualsiasi per trovarsi di fronte a talmente tanti libri, 

su tanti e tali soggetti, che NON possiamo NON essere consapevoli della nostra infinita ignoranza. Noi sappiamo, 

tocchiamo con mano ogni giorno, i nostri limiti. Sappiamo che non ci basterebbe la vita intera per conoscere tutto lo scibile. Sappiamo che su ogni soggetto pensabile, sulle bottiglie, sui bastoni, sulle piante, sui polli, sugli orologi, sui cavalli, sulle biciclette, su ogni singola città,… Esistono libri, libri e libri, e riviste e altro ancora come videocassette, documentari, poster…per non parlare di Internet!

Ora, provate un po’ a mettervi nei panni di chi tutto questo non ce l’ha, non l’ha mai visto, e non può neppure lontanamente sognarselo. Se voi sapeste (perché li avete visti) che sui polli ci sono tre libri, sapreste che tutto ciò che si può sapere 

sui polli è scritto in quei tre libri. Tutto, proprio tutto, perché è tutto quello che c’è, dunque è tutto lo scibile relativo ai polli! 

  Lo stesso vale per qualunque argomento, anche il più complesso (noi sappiamo che è complesso), come la storia. 

In Burundi mi scontravo spessissimo contro questo scoglio terribile, di convinzione di sapere tutto.  

Quando per esempio cominciai le attività di educazione alla pace, sembrava che questo argomento fosse da apprendere 

come un alfabeto. “Dimmi cos’è così lo imparo”. Persone che avevano seguito un corso con l’Unicef, ritenevano di sapere TUTTO quello che c’era da sapere. Vuoi mettere? Io ho fatto IL corso, cos’altro può esserci che non so?!  

Quando lavoravo con i quadri, e si doveva fare l’integrazione del tema PACE nei curricula scolastici, la loro richiesta 

era “Dimmi come si fa da voi, dicci cos’è l’educazione alla pace, così la facciamo anche noi”. Impossibile uscire dallo schematismo. Impossibile far capire che le cose sono complesse, che non c’è UN  modo e UNA VERITA’ per realizzarle. 

Far capire che “le cose da sapere”, su qualunque argomento si lavori,  non sono due o tre ma sono mille, e l’apprendimento 

e la ricerca non finiscono mai, o comunque non c’è mai il momento in cui “possiedi” una determinata conoscenza. 

Dovevo letteralmente arrampicarmi sugli specchi per dimostrare la relatività e la complessità delle cose. E soprattutto 

era difficile rendermi credibile senza avere verità da fornire. Ma questo, in pedagogia, succede spesso. Si vorrebbe che l’educatore fornisse la soluzione ai problemi come un idraulico aggiusta un rubinetto.

(O come questo tecnico, che nonostante i movimenti sgraziati mi sta facendo funzionare l’aria condizionata. Ah, rinasco!)   Questo schematismo, questo bisogno di catalogare, schematizzare, proviene in parte da questa mancanza di strumenti 

minimi di conoscenza,  che a sua volta deriva non solo dalla miseria economica (nei paesi poveri NON ci sono LIBRERIE, 

a parte in città grosse e vive come Nairobi, Dakar, Casablanca) ma anche dal problema linguistico. I libri infatti, anche se ci fossero, non sarebbero nella lingua madre della gente, ma in inglese,  in francese, in portoghese. E chi li può leggere?

 Chi ha una conoscenza tale della lingua-due, da leggere correntemente dei testi di letteratura o scientifici? Solo i pochi privilegiati che sono andati alla scuola secondaria, che sono perlopiù quelli di città, e perlopiù i maschi, ovviamente.

Ma oltre a ciò, tale bisogno, o direi tale attitudine, alla catalogazione e a vedere le cose in bianco e nero, deriva anche da 

un altro aspetto, che vedo sempre più come negativo, e come una vera piaga: la gerarchia, la stratificazione sociale delle società africane.

 

Della gerarchia e dell’ignoranza

Una caratteristica tipica delle società tribali africane era – o è – la divisione in gruppi: di sesso e di età. E per ciascun 

gruppo erano ben definiti e ben chiari i ruoli e i compiti: chi fa cosa, chi può parlare con chi e chi no, chi ha potere 

decisionale, che è delegato a risolvere i conflitti, ecc.

Ricordo che in Burundi, inizialmente, mi aveva molto colpito il rispetto reverenziale, ai limiti del servilismo, che molte 

persone avevano nei nostri confronti, e credevo che si trattasse di una questione di pelle, per cui mi dava un fastidio da 

morire. Molte etnie bantu in effetti sono ancora molto servili nei confronti dei bianchi. Ma mi resi conto poi che in realtà 

non era questo: era invece una questione di “potere” o di ruolo sociale rivestito, e lo stesso atteggiamento lo si ritrovava 

al loro interno.

Per noi che veniamo da società democratiche, in cui questo tipo di stratificazione, grazie a Dio, è stato abbattuto da un 

pezzo, è una dinamica difficile se non impossibile da accettare.

 

Tale ordine gerarchico della concezione del mondo, crea evidentemente una certa struttura mentale, un modello di pensiero, con il quale il soggetto percepisce e incamera ciò che ha intorno. E’ un modello quindi a sua volta gerarchico, che deve incasellare, ordinare secondo schemi prestabiliti, in cui tutto è statico e dato a priori, praticamente indiscutibile e 

immutabile. Tanto quanto è immutabile Allah.

Questo lo ritrovo molto anche qui. Per esempio nella necessità dei politici di tenere tutto sotto controllo, di fare le cose 

uguali in tutto il paese, guai se qui facciamo un corso diverso da un’altra provincia. E naturalmente pretendono metodologie statiche, ripetitive, e controllabili. E’ molto difficile pertanto innestare su questo modello di pensiero delle forme diverse, più duttili e flessibili.

 

Della gerarchia e del potere

Naturalmente poi è chiaro che il modello gerarchico non è negativo solo in quanto crea strutture gerarchiche di pensiero, ma soprattutto in quanto struttura sociale in sé.

Del resto, è proprio questo modello di organizzazione sociale che fa sì che le società africane siano ancora così 

culturalmente lontane dalla democrazia di stampo occidentale.

Nelle società tribali africane non esisteva il concetto di maggioranza e di votazioni. Il potere politico e decisionale, era demandato ai consigli degli anziani, i quali a loro volta avevano capi e re, e il re a sua volta era generalmente una figura 

mitica e divina, indiscutibile (c’è un interessante libro proprio su questo soggetto: “Il re divino”). E questa è una delle 

origini – culturali – delle dittature in Africa, oltre naturalmente a tutte le altre ragioni politiche, economiche, ecc.  

Non esiste il concetto di partecipazione come lo intendiamo in occidente. Esiste, ancora oggi, chi decide e chi deve 

stare alle decisioni.

Questo mi pone spesso di fronte a dinamiche che per ora costituiscono ancora un mistero. Un esempio. Quando ho un problema, mi basta andare dal Sindaco… e lui me lo risolve. Non ho la minima idea di quale accidente di strategia adotti. 

Non certo il kalashnikov, eppure una cosa detta da lui ha un seguito, detta da altri no.

Lavoro in molti villaggi, e c’è una grande differenza tra l’uno e l’altro. In alcuni la gente è molto attiva, in altri non riesci a fare quasi niente. La nostra strategia, fin dall’inizio, è stata chiara: se volete la scuola datevi da fare, altrimenti andiamo da 

un’altra parte. Dunque, i comitati scolastici devono avere parte attiva. Ora, io cerco di coinvolgere la gente con tutti i sistemi 

che il mio essere occidentale, nata e cresciuta in una democrazia, nonché educatrice e pacifista, mi suggeriscono: 

tecnologie attive e partecipative, stimolanti e ovviamente, assolutamente democratiche. 

Tuttavia si vede che in alcuni casi alla gente …proprio “non gliene può fregar di meno” e mentre tu parli di qualità 

dell’educazione e diritti dei bambini  e così via, loro …ti chiedono la latrine! E tu ti incazzi perché vorresti che capissero 

che le latrine non gliele fai se loro non partecipano alle attività e alla gestione della scuola. Perché, mi chiederete.  

Perché se non c’è il coinvolgimento della gente, le scuole – una volta che noi ce ne andiamo – restano muri vuoti. 

Dunque, se dimostrano di volerle, bene. Altrimenti, non si insiste, si va in altri villaggi dove le vogliono.

Naturalmente però, quando mi si presenta una situazione simile, mi basta andare dal Sindaco per sentirmi dire 

“Don’t worry, Silvia. Ci penso io”. Chissà cosa gli va a dire?!

 

Della gerarchia e della corruzione del potere

Non tutti sono come questo Sindaco, che come vi scrissi tempo fa, ha passato buona parte della sua vita in America. 

Anzi, qui il rapporto con il potere politico è molto difficile, estenuante, e gran parte delle energie per realizzare il lavoro 

vanno destinate alla gestione degli equilibri con la capitale, ovvero, con i ministri vari.

Anche questo ormai, purtroppo, l’ho verificato in diversi paesi africani, e non solo quelli usciti da una guerra. Questo senso aberrante della gerarchia e del potere genera una vera e propria violenza in molti di coloro che siedono su certe poltrone. 

E spesso è anche violenza fisica. Non si deve paragonare alla corruzione o al gusto del potere che ci sono da noi, che 

sono a tutto un altro livello.  (Sottile, meschino, ipocrita, perverso, ma forse più tollerabile).

Qui (e intendo in molti paesi africani, non solo in Somalia ) la gente che riveste un qualche ruolo nella funzione pubblica 

ha proprio la tendenza a trattarti come se avesse su di te un potere fisico. Noi stranieri siamo costantemente ricattabili (e ricattati) di espulsione …”se non facciamo in un certo modo”, ma anche tra gli stessi connazionali, si trovano altre forme di ricatto e minaccia.

L’aspetto più evidente è quello economico: noi stranieri siamo liberi di portare qui i nostri soldi europei, poi possiamo anche toglierci di torno. Oppure dobbiamo pagare, sempre, in continuazione. E come mi confermava un amico somalo, anch’egli vissuto a lungo all’estero e ora lavora qui per un’agenzia UN, non è che neppure abbiano un modo decente di chiederti i 

soldi. Almeno, si potrebbe negoziare. No. E’ proprio semplicemente un modo di fare da bastardi, da chi si crede di averti 

nelle sue mani, e anziché parlare civilmente sbatte i pugni sul tavolo e ti guarda con sguardo isterico, anche perché probabilmente ha passato la notte a masticare.

Purtroppo, tutto ciò dispiace enormemente nei confronti della gente. Quando si sbatte di fronte a questi elementi, si avrebbe tanta voglia di dire “Ma vattene un po’ a quel paese e tiratelo su da solo sto paese!” Poi però, si pensa alla gente, alla 

distanza enorme tra un atteggiamento e l’altro. Da un lato l’arroganza, l’indisponenza, la violenza. Dall’altro l’umiltà, la 

voglia di comunicare, e la solitudine: la stanchezza, la fatica dei poveri, che ti lacera al solo guardarli.

E’ difficile. E’ veramente difficile questo mestiere. Da un lato ti becchi i rimproveri e i pesci in faccia, dall’altro senti di non 

fare mai quanto sarebbe necessario, e non puoi che spendere il tuo affetto e i tuoi sorrisi per questa gente così 

disperatamente senza niente, che oltretutto deve vivere in questo clima pazzesco, dove anche fare la doccia è un gesto faticoso.

 

Di me

Vi ho scritto tantissimo in questa lettera. Avevo molto da dire. Avevo molto meditato. Probabilmente è un ulteriore segno 

che il tunnel si allontana sempre più. Che mi sto riappropriando di me stessa, del mio cervello. E’ difficile rinascere, 

ricostruire. Non si diventa mai più quelli di prima, e non si dimentica. Non si dimentica niente. Però si va avanti, si 

ricostruisce. Prima ciò che è urgente, poi – un po’ alla volta – anche le aiuole.

Adesso comincio davvero a stare bene da sola. In queste giornate così lunghe e solitarie, un buon aiuto me lo hanno 

dato non solo i tanti bei libri che ho da leggere, ma anche le parole crociate e le carte da briscola, con cui mi rilasso in

 lunghi solitari.

Ho incontrato un uomo dolce, un po’ malinconico, che mi ha almeno parzialmente riconciliato col mondo e con l’altro sesso. E’ già partito. Un altro addio. La storia della mia vita. Le immagini continuano a sommarsi, come in questa bacheca.

Va bene così. Con questi lunghi silenzi, con questo mare meraviglioso, con i miei libri, i miei quaderni. Con questa assurda ceretta, e come accidenti si fa a depilarsi con 40 gradi?!

Ritrovo me stessa, la mia testa, i miei interessi, e mi rendo conto di quanto mi fossi buttata via. Per più di un anno. 

Stavo con un uomo sbagliato, e lo sapevo, e sarei anche stata capace di continuare, di “accontentarmi”. Perché ci stavo? Perché non sono riuscita ad essere abbastanza forte da staccarmi? Perché nella vita riusciamo a fare errori tanto stupidi 

quanto enormi, e in piena coscienza?!

 

Volendo bene al genere umano, alla sua piccolezza, e guardandolo quindi con tenerezza e benevolenza, mi viene in 

mente una sola risposta, che prendo in prestito da un meraviglioso Fossati: perché… siamo piccoli, stupiti, viaggiatori soli.

 

**********

 

22.6.99

 

Frammenti di vita quotidiana da Berbera, Somaliland

* Ormai credo di essere “massaggio-dipendente”. A Tanà facevo uno o due massaggi a settimana, a Diego tre, qui…uno 

ogni sera!

Due mesi fa, quando avevo male dappertutto e cercavo una massaggiatrice, tutti quanti ridevano dicendo che non l’avrei 

trovata, perché qui i massaggi…”non fanno parte della cultura”. Quante idee preconcette, come al solito. L’ho trovata in 

fretta invece, e mi hanno detto che ci sono etnie che usano molto il massaggio, tradizionalmente, che se lo fanno in 

famiglia. Le donne dei villaggi, parlandone, mi facevano vedere movimenti con le mani molto professionali.

Ho trovato F., che ha 15 anni ed è parente della nostra cuoca, S., che prendo sempre in giro perché non si toglie mai 

questo accidenti di velo neanche quando ribolle tra i fornelli e gocciola sudore. Lei ride, ma se lo tiene lo stesso!

F. era a Berbera proprio per cercare lavoro. Sono contenta di averglielo trovato. E naturalmente, è contenta anche lei, dato 

che con i massaggi… si guadagna bene. E quando posso le trovo altri clienti.

All’inizio si è capito che, tra gli autisti e i guardiani fuori dal cancello, turbava un po’ lo status quo questa figura femminile 

che veniva ogni sera in casa degli stranieri. “Cosa farà mai?!”

Un giorno ho fatto apposta ad arrabbiarmi, con S., perché F. non era venuta, e l’ho fatto utilizzando come interprete (S. non parla inglese) proprio quello che sappiamo essere tra i più conservatori. E dicevo “insomma, ha appena cominciato a 

lavorare, e già se ne va in vacanza?! Io ho male a un piede, non riesco quasi a camminare, dille che se non viene domani 

sera cerco un’altra!”  Credo che da quella volta abbiano realizzato che non faceva nulla diabolico e abbiano smesso di 

rompere.

Che nervi! Le piccole città, ovunque, sono delle botteghe. Nei paesi mussulmani poi, una donna non può proprio avere una 

vita sua senza creare rivolgimenti e dicerie.

Ad ogni modo, F. viene qui ogni sera, tutta contenta perché ha i suoi soldini, ed è piuttosto brava nelle manipolazioni, e io la gratifico ogni giorno dicendole che costituisce il momento più bello della mia giornata. Il ché è quasi vero, e quasi ogni volta

mi addormento. Poi mi sveglio per forza perché finisce alle otto, quando è ora di cena.

Un giorno, di venerdì, (che qui – vi ricordo – è festa) le chiedo “Beh, com’è andata? Che hai fatto oggi?” Lei tutta contenta

 ride “Ah, ho fatto un sacco di cose!” E io incuriosita mi domando chissà cosa c’è da fare a Berbera di venerdì, magari la 

gente di qui conosce cose per noi impensabili…E insisto “Come tante cose? Quali? Racconta!” E lei, sempre sorridente, 

“Ho fatto il bucato!”  “Hai fatto il bucato?! E poi? Quali altre cose?”  “E poi ho dormito!” “E poi? F., mi hai detto tante cose. Queste sono solo due! Dopo che hai dormito?” “No, niente, dopo che ho dormito niente. Ho lavato i vestiti e ho dormito”.  …Okay!  Tutto è sempre relativo.

 

26.6.99 Venerdì.

Oggi vi parlerò di lavoro, dato che è da un po’ che non vi aggiorno su questo fronte. E non vi parlerò solo del mio, ma in 

generale dei vari progetti che COOPI ha qui.

a.         Progetto acqua, …fa acqua. Pochi giorni fa ha preso il via il primo pozzo, e i contadini erano esultanti. L’acqua che ne esce è molto buona e pulita, e  ne è venuta tanta che il motorino non bastava, hanno dovuto affiancarne un altro. In tutto 

i pozzi da fare sono in una decina di villaggi diversi.

b.         Progetto sanità: era finanziato dalla Caritas, che ora non ha più soldi per il Somaliland (priorità passata alla crisi del Kossovo), e non lo ha rinnovato. Così Paolo… si ritrova a spasso. Tutto sommato non gli dispiace perché è già qui da più 

di un anno. Comunque l’ospedale di Berbera non andrà avanti molto senza la presenza di un espatriato. Purtroppo è così, quando si lascia totalmente la gestione di queste cose in mano ai locali, nel giro di breve tempo vanno allo sfascio, vuoi per menefreghismo, vuoi per corruzione. Per esempio, un chirurgo locale, mica farebbe operazioni gratuite e a tutti,  come il 

nostro ortopedico Luigi, e certo l’ospedale non sarebbe così pulito. Per questo, pare che prossimamente entri in ballo un finanziamento CEE. Speriamo.

c.         Progetto pesca: il nuovo responsabile, che è un portoghese, si è trovato in mezzo a non poche beghe. 

Attualmente infatti, da circa due mesi, c’è qui un collaboratore (originario di Sri Lanka ma che lavora a Dubai) che di 

professione costruisce barche, e qui fa un corso per insegnare a farle ai pescatori somali. La società dove lavora, nel porto 

di Dubai, lo ha mandato come formatore e ha fornito gli stampi per realizzare barche da pesca in vetroresina. 

Ora, succede che vi è un contratto in base al quale i motori per le barche devono essere dati ai locali, per essere messi 

sulle barche fabbricate, ma sul contratto non è specificato che i motori vengono consegnati solo dopo che le barche sono terminate. Morale: il povero Fernando è da più di un mese che litiga con questi perché vogliono i motori subito

Già, e cosa te ne fai dei motori senza le barche? Li vendi, no? Così il povero srilankese, capitato nel mezzo della lite, si 

ritrova in attesa, perché il corso si è fermato, e passa le giornate girando il telecomando tra tutti i canali arabi e non arabi 

che trova. E Fernando, che è un omaccione dentro e fuori, tiene duro e i motori non li dà! Vedremo chi la spunta.

d.         Mental hospital.  Con il progetto collabora un gruppo di giovani carini e attivi, che hanno messo su un centro sociale (finanziamento della Regione Lombardia) per attività giovanili, biblioteca pubblica, ecc. L’ospedale psichiatrico, fino a poco tempo fa, era un vero lager, un carcere senza pietà, dove i matti venivano tenuti legati con catene alle sbarre di ferro, come 

cani. Spesso erano così corte che non potevano nemmeno alzarsi in piedi. Gianluca, un tipo in gamba di Milano, ci ha 

lavorato un anno e mezzo. Adesso, sono tenuti liberi almeno di deambulare e di gridare nel giardino dell’ospedale, …come fanno i matti. Il centro sociale è stato inaugurato poche sere fa, ufficialmente, con il sindaco a tagliare il nastro, il pubblico 

ben ordinato, e la musica amplificata dall’immancabile megafono terrificante e gracchiante.

 

E ora veniamo alle “mie” scuole, e qui, ovviamente, spenderò qualche parola in più. Il progetto educazione vi ho detto, 

credo, che comprende la parte “hard”, cioè la ristrutturazione fisica degli edifici, e la parte “soft”, che è la mia, costituita 

dalle attività educative e formative.

a.         La parte hard. Sono contenta perché da alcune settimane sono finalmente cominciati i lavori. Il meccanismo 

burocratico è stato un po’ lento da mettere in moto. Per ogni edificio, l’ufficio tecnico del comune ha preparato dei preventivi 

di spesa, che servivano come riferimenti per le gare d’appalto. Quindi sono state indette le gare. Due sono già state fatte

e i lavori sono partiti. Mi fa molto piacere anche perché sono sicura che quando i lavori saranno finiti, questa città così 

distrutta prenderà un altro aspetto. Sono proprio attaccati a casa nostra, uno davanti e uno dietro. O meglio, davanti a casa nostra c’è l’ospedale dei matti (il ché talvolta ci ricorda che forse ne siamo una succursale).

Di fianco all’ospedale dei matti c’è “il provveditorato”, l’Education Office, che era la prima ristrutturazione da fare. 

Nelle prossime settimane ci saranno le gare per le altre due scuole di Berbera, poi nei mesi successivi si passerà a quelle 

dei villaggi. Di tutto ciò se ne occupa il mio collega Fabio, geometra, con cui mi trovo bene, molto tranquillamente. 

Lui per la verità si fa un gran mazzo perché oltre a questo, si è preso anche l’incarico della logistica di tutta la nostra parte abitativa, e questo…è un bel casino, e ben più noioso. Infatti, significa occuparsi di una marea di beghe: dei condizionatori 

che non vanno, del generatore da cambiare, delle cose che non funzionano in casa, nonché della gestione delle auto, che 

ha visto non pochi litigi tra alcuni della piccola, selvatica (a volte poco onorevole) comunità.

b.         La parte soft. Scusate, sono le sette, c’è Farah che arriva, ve la racconto domani!

 

Support to education.

Mentre riprendo a scrivere è venerdì 2 luglio.

In questi giorni non ho più avuto tempo di scrivere non perché sia rimasta tutto il tempo a farmi manipolare(!), bensì perché 

ho avuto finalmente il primo corso per insegnanti, che è andato molto bene.

In questi mesi, da quando sono arrivata, non avevo ancora lavorato direttamente con i maestri perché si aspettava che la 

scuola finisse per organizzare questo corso, e finalmente è arrivato. Nel frattempo comunque si sono fatte molte altre cose interessanti, soprattutto nei villaggi.

In particolare abbiamo svolto incontri settimanali per le famiglie, sul tema della scuola e in generale dell’educazione e del

diritto dei bambini all’educazione, alla buona qualità della scuola (ambiente a misura di bambino, insegnanti nonviolenti, didattica attiva,…). Questo lavoro rientra in ciò che vi avevo accennato all’inizio: la Community based education. Ovvero l’educazione in mano alle famiglie, per cui esse devono essere informate e formate sulla gestione di una scuola, sui motivi 

per cui andare (o non andare) alla scuola di stato, sulle caratteristiche di base che una scuola deve avere per essere considerata decente, e non solo quattro muri decadenti in cui si fa l’ABC e si prendono gli ordini di un maestro a sua volta 

poco più che analfabeta.

In più si è aggiunto un elemento che a me piace sempre molto, che è la formazione dei formatori. Ho lavorato un mese 

con tre trainers che non sapevano nulla di questo tipo di lavoro: qui non si lavora infatti con il metodo della discussione 

libera e guidata (ma solo con il tipico, retrogrado insegnamento diretto, autoritario, spesso violento, sempre mnemonico), 

non sapevano usare fogli murali, attaccarli con lo scotch, fare scritte colorate o semplicissimi schizzi con i pennarelli, ecc. Naturalmente, mi erano stati presentati come “formatori” già operanti. E non sapevano stabilire un percorso formativo, con obiettivi, tappe, metodologia, ecc. La loro formazione – che probabilmente risale ai tempi prima della guerra di Siad Barre, quando le scuole funzionavano – è molto teorica, ma almeno sui principi ci capivamo, il ché ha facilitato le cose.

Questo lavoro con i genitori è stato un po’ una palestra, in modo da arrivare al momento del corso già un po’ più preparati, almeno sul metodo, certo non sui contenuti. Sono stati bravi, hanno imparato molte cose alla svelta, ma purtroppo uno di 

loro è praticamente sempre “masticato”. Questo uso del chat è veramente allucinante e fa diventare gli uomini schizzati. 

Uno dei trainers, una mattina del corso, anziché alle 7.30 è arrivato alle 8.15, e io lo aspettavo impaziente per cominciare. 

Si è presentato con gli occhi rossi, fuori dalla testa, l’aria sconvolta di chi non ha dormito granché, ed è stato 

aggressivissimo per tutta la mattina, come di chi non riesce a controllarsi, perché “non c’è” completamente. 

Il chat infatti rende spesso così, perché è un eccitante: sembrano proprio matti, e pericolosi.

Oltre agli incontri con i genitori, ho anche avviato un simpatico lavoro di “elaborazione testi” con un giovane (anche lui un 

po’ matto, ma in senso buono, che si mangia le parole quando parla, a un ritmo incredibile) che mi si è presentato come scrittore. E’ venuto un giorno da me parlando in francese, infatti non è somalo bensì gibutino, e ha fatto l’università a Casablanca, il ché lo rende un po’ fuori dalla norma e, mi pare, anche un po’ più sveglio sul piano delle analisi critiche al 

paese, a questa cultura maschilista, al governo, alla politica autoritaria del presidente, eccetera.

Morale: gli ho commissionato una pièce a carattere educativo, in modo da introdurre il teatro come metodologia didattica 

attiva. Il soggetto doveva essere proprio il diritto dei bambini all’educazione (perché, come, cosa significa ecc..). 

Ci sono state numerose e ripetute correzioni da fare, dato che lui non ha fatto studi pedagogici e non poteva sapere quali contenuti io volevo trasmettere, ma proprio per questo anche questa attività è stata interessante e divertente. 

Lui vuole scrivere, gli piace, ma in realtà fa una gran confusione, comincia con un discorso e finisce con un altro. 

Mi fa leggere un “pezzo” suo “fatto per il giornale di Hargeisa” lo leggo e chiedo se è stato pubblicato. 

Risposta: “No”! Insomma, c’è la voglia, ma la professionalità tutta da costruire. Allora ci mettiamo a tavolino: definire il messaggio che si vuole dare, caratteristiche che deve avere un racconto per bambini, spunti per inventare la storia, ecc. 

Il risultato è piaciuto, e ora speriamo di fare un librettino da diffondere tra le scuole di Berbera, in versione inglese e somala, 

con i disegni. Una piccola rivoluzione: non esiste niente del genere qui, e le uniche cose da leggere sono il Corano e le 

scritte delle botteghe.

Arriviamo dunque al corso per gli insegnanti. Sono proprio contenta di come è andato. L’inizio non è stato facile, il giorno dell’iscrizione, poiché la prima cosa su cui si discute non è il contenuto del corso ma “Quanto si è pagati per partecipare” . 

E tu lì a spiegare che “sì, c’è il perdiem, ma per favore prima guardate il programma e decidete se vi interessa o no, e 

se non vi interessa per favore non partecipate solo per il perdiem, questo è un corso, non è lavoro, e per la formazione generalmente non si viene pagati, ma si paga, e anche caro!” eccetera eccetera… Qualcuno, in effetti, non contento dei 

sei dollari al giorno, se ne va. Bene. Gli altri restano, e sono 49. I posti a disposizione 50, ma nei 4 giorni di corso si 

iscrivono in 55. La cosa più importante? Che si divertono. Che dovrebbe essere l’obiettivo primo di ogni insegnamento. 

Fare in modo che chi vi partecipa stia bene, e che ne abbia un vissuto positivo.

Seguono con attenzione, partecipano attivamente ai lavori di gruppo e ai dibattiti, e tutto il corso è impostato così, sono 

ben corti i miei momenti di intervento, e sono sempre finali, mai di apertura. Io infatti, pongo domande, provoco ricerche, 

ma le risposte devono trovarle loro. Funziona, si appassionano, fino all’ultimo giorno che si chiude con le loro 

drammatizzazioni, preparate in pochissimo tempo ma eccezionali, sul diritto dei bambini alla scuola. 

Il sindaco ha fatto sia l’apertura che la chiusura, dando così molta enfasi a questo corso, e alla necessità di migliorare la 

scuola somala. E’ una scuola (come in quasi tutta l’Africa) terribilmente arretrata, dove i bambini imparano a stare seduti 

e in silenzio, ripetendo a memoria l’insegnante, anche se non capiscono nulla di quello che fanno. Qui poi è spesso 

violenta, non esiste la gentilezza con i bambini da parte dei maestri, il rispetto del loro bisogno di stare bene. 

Come dire “si va a scuola perché si deve, e zitto!”.

Casualmente mi sono ritrovata a leggere qui, proprio in questi giorni, l’esperienza didattica di Mario Lodi “Il paese sbagliato”,

 che mi è stata utile perché mi ha proprio fornito molte idee per il corso. Ma mentre leggevo, mi stupivo a trovare tante 

analogie tra la mia situazione e la sua.

Lodi lavorava di un’Italia appena uscita da una guerra mondiale, che si era appena costituita come repubblica democratica, 

e che tentava – nel tradizionalismo più diffuso – di far entrare nella scuola pubblica e laica i valori della Costituzione. 

Una scuola in cui ancora si usava la bacchetta, e a cui si andava per imparare l’ABC, non per diventare cittadini di diritto, 

capaci di pensare e partecipare.

Qui siamo in questo stesso tipo di scuola, autoritaria, spesso violenta, a cui non si va per imparare a pensare, ma ripetere frasette a memoria, di insegnanti perdipiù ignoranti, con la bacchetta. Siamo anche qui in un paese giovane, uscito dalla 

guerra non molto tempo fa, ma che in più è un paese fondamentalista, che non è stato eletto democraticamente ma con 

i voti comprati ai capitribù, e in cui non si sa bene ancora se si vuole costruire una democrazia moderna, di uomini e donne liberi e partecipanti, o se va  bene che le cose rimangano così: con questa gente ignorante e queste donne infibulate.

Migliorare la qualità dunque, è una sfida enorme. Ed è proprio in queste situazioni che si misura il potere rivoluzionario dell’educazione. Perché (ne sono assolutamente convinta) è solo partendo dall’educazione, convincendo questi maestri ad avere un altro tipo di comunicazione e di rapporto con i bambini, avviando una scuola che stimola la curiosità, il dibattito, l’espressione libera, la ricerca, che si può costruire, nel tempo, esseri capaci di porsi domande, di andare verso ciò che è differente, di scambiarsi le idee anche quando non si condividono, di rispettare la libertà altrui. Infine, un paese democratico, 

in cui i conflitti vengono risolti senza l’uso delle armi, e in cui sia possibile vivere.

Abbiamo gettato un primo sasso, ma tutte le rivoluzioni, quelle silenziose, cominciano così. Adesso il bello sarà continuare

 il percorso, continuare questa formazione appena iniziata, con tanti altri seminari, su tanti argomenti diversi di didattica e metodologie attive e partecipative. E abbiamo anche dato il via all’allestimento di una biblioteca specifica di pedagogia.

Sono alla fine del foglio. Vi saluto tutti sperando di vedervi a casa, a partire da fine luglio. Sarò in Italia, poi in Madagascar, 

e poi… chissà?

 

A presto, Silvia

 

Note

[1] P.S. Il concorso è andato bene, e il dott. Franco de Giorgi, anni in Africa con moglie e figli, è diventato primario del Pronto soccorso di Bolzano. 

[2] E’ possibile leggere i miei racconti dal Madagascar ciccando qui. Altre informazioni e immagini sul paese invece qui.

 

© Silvia Montevecchi